Le due anime
Con l'aiuto della misericordia divina, spezzati e abbandonati i lacci dei Manichei e finalmente restituito al grembo della Chiesa cattolica, ora posso considerare quella mia miseria e deplorarla.
Erano molte le cose che avrei dovuto fare per evitare che tanto facilmente e in così poco tempo fossero estirpati dal mio cuore, con l'inganno o la frode di uomini ipocriti o fallaci, i semi della verissima religione innestati salutarmente in me fin dalla fanciullezza.
In primo luogo infatti avrei dovuto riflettere in modo misurato e diligente, con la mente supplichevole e pia verso Dio, su quei due generi di anime ai quali essi hanno attribuito nature così distinte e particolari per cui, secondo loro, l'uno doveva essere considerato proveniente dalla sostanza stessa di Dio e l'altro invece tale che non poteva avere Dio neppure come autore.
Con questo esame forse mi sarebbe apparso manifesto che non esiste alcuna vita, di qualsiasi genere, la quale, per il fatto stesso di essere vita e in quanto è veramente tale, non si riferisca alla sorgente e al principio sommo della vita, che, lo dobbiamo ammettere, altro non è che il sommo e unico vero Dio.
Pertanto mi sarei reso conto che quelle anime, che i Manichei chiamano malvagie, o sono prive di vita e quindi non sono anime, né possono volere o non volere, desiderare o fuggire alcunché, oppure hanno la vita, così che possono essere anime e compiere atti come quelli che essi immaginano.
Ma in tal caso esse possono vivere solo in virtù della vita.
E se avessi avuto la certezza, che ora ho, che Cristo ha detto Io sono la vita, ( Gv 14,6 ) non ci sarebbe stato nessun motivo per non ammettere che tutte le anime, che possono essere tali solo perché vivono, sono state create e istituite mediante il Cristo, cioè per mezzo della vita.
A quell'epoca il mio pensiero non poteva affrontare e sostenere la questione relativa alla vita stessa e alla partecipazione alla vita, questione indubbiamente difficile e che richiede una discussione molto serena tra persone assai dotte.
Forse sarei riuscito a scoprire ciò che appare del tutto chiaro ad ogni uomo che riflette bene e in modo imparziale, cioè che tutto ciò che chiamiamo sapere e conoscenza l'abbiamo appreso o mediante i sensi del corpo o mediante l'intelligenza.
Anche a livello comune si annoverano cinque sensi del corpo: la vista, l'udito, l'odorato, il gusto e il tatto.
Ma chi non concederebbe, a meno che non sia ingrato ed empio, che l'intelligenza li supera e li sovrasta tutti per ampiezza e profondità?
Ciò stabilito e confermato, ne segue che tutto ciò che è percepito con il tatto e con la vista o con qualsiasi altro senso corporeo è di tanto inferiore a ciò che attingiamo con l'intelligenza di quanto vediamo che i sensi stessi sono inferiori all'intelligenza.
Tutta la vita perciò e, di conseguenza, tutta l'anima non può essere percepita da alcun senso corporeo, ma dal solo intelletto: gli stessi Manichei, d'altra parte, dicono che il sole e la luna e ogni luce che si percepisce con questi occhi mortali devono essere attribuiti al Dio vero e buono.
È quindi il colmo della demenza, da un lato, dichiarare che si riferisce a Dio ciò che intuiamo attraverso il corpo e, dall'altro, negare ed escludere che Egli sia il creatore di ciò che in verità possiamo afferrare non semplicemente con l'animo ma con la sua parte più alta, ossia con la mente e l'intelligenza, cioè della vita, comunque la si intenda, perché è pur sempre vita.
Infatti, se interrogassi me stesso, dopo aver invocato Dio, non potrei forse rispondere cosa sia vivere, per quanto ciò sia inaccessibile ad ogni senso del corpo e assolutamente incorporeo?
O non riconoscono anche essi che le anime, che detestano, non solo vivono, ma vivono una vita immortale?
E quando Cristo ha detto: Lascia i morti seppellire i loro morti, ( Mt 8,22 ) non lo ha detto delle persone assolutamente prive di vita, ma dei peccatori, poiché il peccato è l'unica morte dell'anima immortale.
Ne è testimone Paolo, il quale scrive: Morta è la vedova che si dà ai piaceri; ( 1 Tm 5,6 ) a suo avviso, infatti, essa è nello stesso tempo morta e vivente.
Io perciò, da parte mia, non presterei attenzione a quanto corrotta sia la vita dell'anima peccatrice, ma semplicemente al fatto stesso che vive.
E se ciò non potessi percepirlo che tramite l'intelligenza, mi renderei conto, credo, che qualunque anima di tanto debba essere preferita alla luce che percepiamo con questi occhi di quanto preferiamo l'intelligenza agli occhi stessi.
Siccome poi essi confermano anche che questa luce terrena proviene dal Padre di Cristo, avrei allora potuto dubitare che qualunque anima viene da lui?
Per inesperto e giovane che fossi, neppure allora in verità avrei potuto affatto dubitare che non solo l'anima, ma anche qualsiasi corpo proviene da Dio, se avessi pensato con spirito pio e prudente che cosa è la forma e che cosa l'essere formato, che cosa la bellezza e che cosa l'essere rivestito di bellezza, infine quale di queste cose è causa e di chi.
3.3 - Ma per ora taccio del corpo.
È dell'anima che mi rammarico, del suo movimento spontaneo e pieno di vita, della sua attività, della sua vita, della sua immortalità.
Mi rammarico infine di aver creduto, me misero, che una cosa potesse possedere tutte queste qualità senza doverle alla bontà di Dio; di aver prestato poca attenzione alla loro grandezza.
Di questo penso di dovermi rammaricare, di questo penso di dover piangere.
Avrei dovuto meditare su queste cose, riflettervi sopra, sottoporle a loro: avrei fatto vedere quale sia la potenza dell'intelligenza, mostrando che non c'è niente nell'uomo che possiamo avvicinare alla sua eccellenza.
Una volta che questi uomini, se pure erano tali, mi avessero concesso ciò, avrei domandato loro se vedere con questi occhi equivale a comprendere.
Qualora l'avessero escluso, ne avrei tratta la conclusione, in primo luogo, che l'intelligenza della mente è di gran lunga da anteporre alla vista; poi avrei aggiunto che ciò che percepiamo con un'attività migliore deve necessariamente essere giudicato migliore.
Chi non lo concederebbe? Quindi avrei continuato a domandare: quest'anima, che dicono malvagia, la percepiamo con questi occhi, oppure la comprendiamo con la mente?
Con la mente, avrebbero ammesso.
Tutto ciò convenuto e stabilito tra noi, avrei mostrato quale conclusione ne avrei tratta: naturalmente che l'anima che esecravano era migliore della luce che veneravano, dal momento che l'una è conosciuta con l'intelletto della mente, l'altra con il senso del corpo.
Ma a questo punto forse essi si sarebbero trovati in imbarazzo e si sarebbero rifiutati di seguire la ragione come guida, tanto grande è la forza delle opinioni inveterate e della falsità a lungo difesa e creduta.
Ma io li avrei incalzati ancora se si fossero trovati in imbarazzo, però non in modo accanito, puerile, pervicace; avrei ripreso ciò che era stato concesso e mostrato quanto fosse inevitabile far così.
Li avrei esortati a consultarsi tra loro, in modo da vedere con certezza che cosa avremmo dovuto negare, se ritenessero falso che l'intelletto è da preferirsi a queste luci carnali o che quanto si conosce con la parte più alta dell'animo è più eccellente di quanto si conosce con un vile senso corporeo; oppure se rifiutassero di ammettere che le anime da loro ritenute estranee a Dio possano essere conosciute soltanto con l'intelligenza, cioè con ciò che c'è di più alto nell'animo; oppure se non volessero convenire che il sole e la luna possono essere conosciuti soltanto con questi occhi.
Se si fossero resi conto che niente di tutto ciò si può negare a meno di non cadere nell'assurdità e nell'impudenza, li avrei persuasi che questa luce, che ritengono degna di venerazione, è indubitabilmente meno nobile di quell'anima che invitano a fuggire.
E se, sconcertati, a questo punto mi avessero domandato se io stimassi che anche l'anima di una mosca è superiore a questa luce, io avrei risposto: certamente.
E non mi avrebbe trattenuto la constatazione che la mosca è piccola: lo avrei confermato per il fatto che vive.
Ci si domanda infatti che cosa dia la vita a queste membra così esigue, che cosa conduca qua e là, secondo l'appetito naturale, un corpo così minuscolo, che cosa muova in modo armonico i suoi piedi quando corre, che cosa regoli e faccia vibrare le sue piccole ali quando vola: quale che sia questo principio, a chi considera rettamente in così piccolo essere si manifesta una cosa tanto grande preferibile a qualsiasi splendore che offusca i nostri occhi.
Di certo nessuno dubita che tale principio, quale che sia, è intelligibile.
Per le leggi divine, esso perciò è superiore ad ogni realtà sensibile e quindi anche a questa luce.
Di grazia, infatti, che cosa percepiamo con il pensiero se non che altro è comprendere con la mente, altro sentire mediante il corpo, e che l'uno dista dall'altro che gli è inferiore per un'incomparabile sublimità?
Pertanto è impossibile non preferire le realtà intelligibili a quelle sensibili, dal momento che l'intelletto stesso è altrettanto preferibile ai sensi.
5.5 - Da quanto detto forse avrei compreso anche questo, come sua conseguenza inevitabile: siccome l'ingiustizia, l'intemperanza e gli altri vizi dell'animo non li percepiamo con i sensi, ma li comprendiamo con l'intelligenza, allora anche queste realtà che detestiamo e giudichiamo da condannare, poiché sono intelligibili, possono precedere questa luce, anche se, nel suo genere, essa sia da lodare.
All'animo che si sottomette perfettamente a Dio si suggerisce in primo luogo che non tutto ciò che lodiamo deve essere anteposto a tutto ciò che disprezziamo: non è perché apprezzo il piombo purissimo che io lo stimo di più dell'oro che merita di essere disprezzato.
Ciascuna cosa infatti deve essere considerata nel suo genere.
Riprovo il giureconsulto che ignora molte leggi, ma tuttavia lo preferisco al più esperto dei calzolai al punto da escludere di metterlo a confronto con lui.
Quest'ultimo comunque lo lodo, perché è espertissimo nel suo mestiere; quell'altro invece a buon diritto lo riprovo, perché non soddisfa a sufficienza la sua professione.
Da ciò avrei dovuto scoprire che questa luce, in quanto è perfetta nel suo genere, a buon diritto è lodata: tuttavia, poiché rientra nel numero delle realtà sensibili - un genere che necessariamente è inferiore al genere delle realtà intelligibili - deve essere ritenuta inferiore alle anime ingiuste e intemperanti, poiché sono intelligibili.
Eppure noi a buon diritto giudichiamo queste anime sommamente meritevoli di essere condannate; in esse infatti cerchiamo ciò che le avvicina a Dio, non ciò che le fa preferire a quello splendore.
Pertanto, chiunque obiettasse che questa luce proviene da Dio, non lo contraddirei, ma sosterrei piuttosto la necessità che le anime, anche quelle viziose, non in quanto tali ma in quanto anime, abbiano Dio per creatore.
A questo punto supponiamo che qualcuno di loro, prudente ed attento, ma anche più sollecito ad apprendere che ostinato, mi ammonisca che la questione deve riguardare non già le anime viziose, ma i vizi stessi.
E questi, poiché non li conosciamo con il senso corporeo e tuttavia li conosciamo, non possono essere concepiti che come intellegibili.
Ora se essi sono superiori a tutte le cose sensibili, come potremo convenire che Dio è il creatore della luce, dal momento che nessuno, a meno che non sia sacrilego, può dire Dio autore dei vizi?
Gli avrei risposto, sia che la soluzione a questo problema, per grazia di Dio, si fosse manifestata all'istante e del tutto imprevista, come suole capitare ai buoni amici di Dio, sia che fosse stata preparata in precedenza.
Ma se non avessi meritato né l'una né l'altra possibilità e perciò non fossi riuscito a dare nessuna delle due risposte, avrei rimandato la discussione intrapresa, confessando che l'argomento proposto era molto difficile ed arduo da discernere.
Sarei ritornato in me stesso, mi sarei prostrato davanti a Dio, avrei emesso profondi gemiti, chiedendogli di non permettere che mi arrestassi nel mezzo del cammino in cui avevo compiuto progressi con solide ragioni, e che non fossi costretto per una questione non ancora risolta o a subordinare e sottomettere le realtà intelligibili a quelle sensibili o a dire che Dio stesso è autore dei vizi, poiché ciascuna delle soluzioni è ricolma di falsità e di empietà.
Non avrei potuto ritenere in nessun modo che egli mi avesse abbandonato in una tale difficoltà; mi avrebbe piuttosto ammonito, con i suoi mezzi ineffabili, a considerare più e più volte se i vizi dell'anima, per i quali ero agitato, dovevano essere annoverati tra le cose intelligibili.
Per trovare la soluzione, a causa della debolezza del mio occhio interiore, giusta conseguenza dei miei peccati, mi sarei costruito una sorta di scala nelle stesse realtà visibili per scorgere le realtà invisibili.
Così non avrei avuto assolutamente una conoscenza più certa, ma una consuetudine dotata di maggiore fiducia.
Avrei dunque cercato subito che cosa si riferisce propriamente al senso della vista: avrei trovato i colori, sui quali questa luce avrebbe avuto la preminenza.
Essi appartengono alle realtà che nessun altro senso percepisce; infatti il movimento dei corpi, le grandezze, gli spazi, le figure, sebbene possono essere percepiti con gli occhi, tuttavia non lo sono in senso proprio, poiché possono esserlo anche con il tatto.
Da ciò avrei concluso che la luce di tanto è superiore alle altre realtà corporee e sensibili di quanto la vista è più eccellente degli altri sensi.
Una volta dunque scelta, tra tutte le cose accessibili ai sensi del corpo, questa luce, dalla quale io sia illuminato e nella quale io possa collocare quella scala necessaria alla mia ricerca, a questo punto mi sarei rivolto ad osservare che cosa avrei dovuto fare e così avrei ragionato tra me e me come segue: se codesto sole che si contraddistingue per così grande luminosità ed è sufficiente al giorno per la sua luce si affievolisse a poco a poco fino a rassomigliare, per la nostra vista, alla luna, con gli occhi non percepiremmo alcunché di altro rispetto alla luce, sempre che risplenda.
Tuttavia cercheremo invano la luce precedente senza vederla; vedendola, invece, ne percepiremo ciò che sussisterà.
Non vedremo dunque quella deficienza, ma la luce che sopravviverà alla deficienza.
E siccome non vedremo, non avremo la sensazione; infatti tutto ciò che è percepito con lo sguardo si vede necessariamente.
Pertanto, se quella deficienza non è percepita né dalla vista né da un altro senso, non può essere annoverata tra le realtà sensibili.
Niente infatti è sensibile di ciò che non può essere percepito.
Rivolgiamo ora la nostra considerazione alla virtù, della cui luce intellegibile diciamo molto appropriatamente che l'animo risplende.
D'altra parte, si chiama vizio una certa deficienza di questa luce della virtù che non distrugge l'anima, ma la oscura.
In nessun modo dunque si può giustamente annoverare tra le realtà intelligibili il vizio dell'anima, come altrettanto giustamente non si può annoverare nel numero delle realtà sensibili quella deficienza di luce.
Tuttavia ciò che resta all'anima, cioè il fatto stesso che vive e che è un'anima, è tanto intelligibile quanto è sensibile ciò che risplende in questa luce visibile dopo il venir meno del sole, per grande che esso sia.
E pertanto giustamente si dice che l'anima, in quanto è anima e partecipa della vita, senza la quale in nessun modo può essere anima, va anteposta a tutte le realtà sensibili.
È un errore capitale dunque dire che nessuna anima proviene da Dio, dal quale si proclama che provengono il sole e la luna.
Pensereste ormai di chiamare sensibili tutte le cose, non solo quelle che percepiamo con i sensi, ma anche quelle che, senza percepirle con i sensi, tuttavia le giudichiamo per mezzo dei nostri sensi corporei, come le tenebre mediante gli occhi e il silenzio mediante le orecchie, - le tenebre infatti le conosciamo senza vederle e il silenzio senza percepirlo - e, d'altra parte, pensereste di chiamare intelligibili non solo quelle che vediamo con l'illuminazione della mente, come avviene per la stessa sapienza, ma anche quelle dalle quali distogliamo lo sguardo in assenza della stessa illuminazione, come è il caso della stoltezza, che io ho chiamato congruamente tenebre dell'anima?
Io non discuterei sulle parole, ma risolverei l'intera questione con una semplice distinzione: farei subito vedere agli spiriti bene attenti che le sostanze intelligibili, e non le loro deficienze, sono anteposte dalla divina e incorrotta legge della verità alle sostanze sensibili, sebbene queste deficienze noi le dobbiamo chiamare le une intelligibili e le altre sensibili.
Perciò, chiunque riconoscerà che sia queste luci visibili sia quelle anime intelligibili sono sostanze, dovrà necessariamente concedere e attribuire alle anime una posizione preminente.
Quanto alle deficienze dell'uno e dell'altro genere, non è possibile anteporre le une alle altre perché esse, in quanto sono soltanto privazioni, designano il non essere, per cui hanno la medesima forza dappertutto, come le stesse negazioni.
Quando infatti diciamo " non è oro " e " non è virtù ", sebbene tra l'oro e la virtù vi sia una grandissima differenza, tuttavia non ve ne è nessuna tra le negazioni che noi aggiungiamo loro.
Senza dubbio si dirà che la mancanza di virtù è peggiore della mancanza dell'oro, e in verità nessuna persona sensata lo contesterà.
Ma chi non comprende che ciò avviene non a causa delle negazioni di per se stesse, ma a causa delle cose a cui esse si aggiungono?
La virtù infatti è superiore all'oro tanto quanto la mancanza di virtù è un male più grande della mancanza di oro.
A buon diritto perciò, dal momento che le realtà intelligibili superano le realtà sensibili, noi sopportiamo più difficilmente la deficienza nelle realtà intelligibili che in quelle sensibili: non sono le deficienze che noi stimiamo più eccellenti o più vili, ma le cose che ne sono affette.
Da ciò appare ormai chiaro che la mancanza di vita, che è intelligibile, è un male molto più deplorevole di quello della mancanza della luce sensibile; e naturalmente la vita percepita con l'intelletto è molto più preziosa della luce che scorgiamo con gli occhi.
6.8 - Stando così le cose, chi oserà, mentre attribuisce a Dio il sole e la luna e tutto ciò che nelle stelle e, infine, in questo nostro fuoco terreno risplende di luce visibile, rifiutare di concedere che le anime, quali che siano ( e di certo non sono anime se non in quanto vivono, dal momento che di tanto la vita supera questa luce ), provengono da Dio?
E se dice il vero chi dice: " Tutto ciò che risplende, in quanto risplende, proviene da Dio ", mentirò dunque io, grande Dio, dicendo: " Tutto ciò che vive, in quanto vive, viene da Dio "?
Mi auguro che l'offuscamento della mente e le sofferenze non aumentino fino a tal punto che gli uomini non comprendano queste cose.
Ma quale che sia il loro errore e la loro ostinazione, credo che se, forte di queste ragioni e di esse armato, avessi presentato loro la questione così attentamente considerata e osservata e ne avessi discusso con loro serenamente, avrei temuto di sembrare che fosse per me di qualche importanza se qualcuno di loro avesse tentato di preferire al senso o almeno di paragonarlo al sensibile o alle cose che ugualmente appartiene ai sensi conoscere o l'intellegibile o tutto ciò che si percepisce con l'intelletto ma non mediante la negazione.
Ciò stabilito, quest'uomo o qualcun altro come oserà negare che le anime, malvagie per quanto si voglia, tuttavia, poiché sono anime, fanno parte del numero delle cose intelligibili, e che non si comprendono mediante una deficienza?
In realtà esse non sono anime se non per il fatto che hanno la vita.
Senza dubbio è per una deficienza che si comprendono quelle viziose, perché sono tali per mancanza di virtù; non è tuttavia per una privazione di anima, perché sono anime per il fatto che vivono.
Non è possibile che la presenza della vita sia la causa della loro deficienza, perché una cosa è deficiente nella misura in cui la vita la abbandona.
6.9 - Essendo dunque manifesto in ogni modo che nessuna anima può essere separata da quel creatore da cui questa luce non è separata, non avrei potuto accogliere nessuno dei loro argomenti: li avrei piuttosto ammoniti a preferire di seguire insieme a me coloro che sostengono che tutto ciò che è, poiché è e nella misura in cui è, procede da un solo Dio.
Ma mi avrebbero opposto quelle parole del Vangelo: Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio; ( Gv 8,47 ) Voi avete per padre il diavolo. ( Gv 8,44 )
Da parte mia però avrei replicato con questo testo: Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto ( Gv 1,3 ) e con quello dell'Apostolo: C'è un solo Dio, dal quale tutto proviene e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose, ( 1 Cor 8,6 ) e di nuovo con quello del medesimo Apostolo: Da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose.
A lui la gloria. ( Rm 11,36 )
Io avrei esortato questi uomini ( se avessi avuto a che fare con uomini a non presumere, per così dire, di avere già trovato qualcosa, ma a cercare piuttosto dei maestri capaci di mostrarci come concordano e si armonizzano tra loro queste sentenze che ci sembrano in contrasto.
Infatti, poiché non è giusto condannare sconsideratamente i testi della Scrittura che in luogo dicono: Tutto proviene da Dio ( 1 Cor 11,12 ) e in un altro: Voi non siete da Dio, ( Gv 8,47 ) con una sola e identica autorità delle Scritture, chi non vedrebbe che bisognerebbe aver trovato un maestro esperto a cui è nota la soluzione di questa questione?
Senza dubbio tale maestro, se fosse uno che comprende bene e, come dice lo scrittore ispirato, un uomo spirituale, ( 1 Cor 2,15 ) necessariamente sarebbe favorevole alle vere ragioni, che, per quanto ho potuto, ho esposto e discusso in merito alla natura intelligibile e a quella sensibile, e che anzi egli stesso ne proporrebbe di migliori e di più adatte ad insegnare.
Intorno a tale questione da lui sentiremo soltanto come sia possibile che non esista nessun genere di anime che non provenga da Dio e che tuttavia a buon diritto si dica ai peccatori e agli infedeli: Voi non siete da Dio.
Anche noi infatti, implorato l'aiuto di Dio, forse potremo facilmente vedere che altro è vivere e altro peccare e, benché la vita di peccato, in confronto alla vita giusta, sia chiamata morte, ( 1 Tm 5,6 ) tuttavia l'una e l'altra si possono trovare entrambe in un solo ed identico uomo, purché sia nello stesso tempo vivente e peccatore.
In quanto vivente, proviene da Dio; in quanto peccatore, non proviene da Dio.
In questa distinzione ci serviamo di quella parte delle due che concorda con il nostro punto di vista: così, quando vogliamo sottolineare l'onnipotenza di Dio creatore, diciamo ai peccatori che anche essi provengono da Dio.
Lo diciamo infatti di quelli che fanno parte di una specie qualsiasi, degli esseri animati, degli esseri razionali, infine, e ciò riguarda in modo particolare il nostro argomento, dei viventi, che per se stessi sono tutti doni di Dio.
Quando invece ci siamo proposti di incolpare i cattivi, a buon diritto diciamo: Voi non siete da Dio.
Lo diciamo infatti di coloro che si allontanano dalla verità, degli infedeli, dei perversi, dei dissoluti e, per dirla con un solo nome che tutto comprende, dei peccatori.
Ancora una volta chi dubiterà che tutte queste cose non provengono da Dio?
Pertanto che c'è di sorprendente se Cristo ai peccatori, rimproverandoli proprio perché erano peccatori e non credevano in lui, dice: Voi non siete da Dio, senza che, con ciò, sia messa in questione la sentenza secondo la quale Tutto è stato fatto per mezzo di lui e Tutte le cose sono da Dio?
Infatti se non credere al Cristo, rifiutare l'avvento di Cristo, non ricevere il Cristo fossero indizi certi delle anime che non sono di Dio ed è perciò che è stato detto: Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio, come potrebbe essere vero quel testo dell'Apostolo, posto all'inizio del suo memorabile vangelo, nel quale è detto: Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto? ( Gv 1,11 )
In effetti, come erano suoi, se non l'hanno accolto?
Oppure, come non erano più suoi, dal momento che non lo hanno accolto?
Sono in rapporto con Dio non in quanto sono uomini peccatori, ma in quanto sono uomini; allora è per il fatto che sono peccatori che sono in rapporto con il diavolo?
Dunque, colui che dice: I suoi non l'hanno accolto, si pone dal punto di vista della natura; invece colui che dice Voi non siete da Dio si pone dal punto di vista della volontà.
L'evangelista infatti faceva vedere le opere di Dio, il Cristo censurava i peccati degli uomini.
A questo punto forse qualcuno mi dirà: " Da dove vengono i peccati stessi, e da dove in generale il male?
Se viene dall'uomo, da dove viene l'uomo? Se viene dall'angelo, da dove viene l'angelo?
" Quando si dice che vengono da Dio, sebbene lo si dica in modo giusto e vero, tuttavia a quelli meno esperti e meno capaci di guardare fino in fondo le cose nascoste sembra che i mali e i peccati li tengano uniti a Dio come mediante una catena.
In tale questione essi ritengono di essere sovrani, come se porre domande equivalga a sapere.
Voglia il cielo che fosse così: non si troverebbe nessuno più sapiente di me.
Ma non so come spesso, nel discutere, colui che pone una questione difficile ostenta la figura di un grande dottore, mentre per lo più egli stesso, sull'argomento su cui intimorisce, è meno sapiente di colui che intimorisce.
Pertanto costoro ritengono di dover essere preferiti a un gran numero di persone, perché sono i primi a chiedere ciò che ignorano insieme a loro.
Ma se a quell'epoca in cui mi pento di non aver agito con loro come ormai da lungo tempo faccio, mi avessero fatto questa obiezione quando proponevo queste ragioni, avrei risposto: " Vi prego, intanto riconoscete con me ciò che è facilissimo, cioè che, se niente può risplendere senza Dio, ancor meno qualcosa può vivere senza Dio.
Non rimaniamo in così mostruose opinioni per cui affermiamo che ci sarebbero non so quali anime che avrebbero la vita senza Dio ".
E così forse può capitare che finalmente, o insieme o in qualche successione, impariamo ciò che voi ignorate come me, cioè da dove viene il male.
E che dunque, se l'uomo non può raggiungere la conoscenza del sommo male senza la conoscenza del sommo bene?
Non conosceremmo infatti le tenebre se fossimo sempre nelle tenebre; e, d'altro canto, la conoscenza della luce non permette che il suo contrario resti sconosciuto.
Il sommo bene è ciò rispetto a cui non vi può essere nulla di superiore.
Ora il bene è Dio e non può esserci niente di superiore a Dio. Dio dunque è il sommo bene.
Perciò cerchiamo di conoscere Dio e così ciò che noi cerchiamo con avidità non ci resterà più nascosto.
Da ultimo, pensate che sia una cosa di poco valore e di poco merito la conoscenza di Dio?
Quale altra ricompensa infatti ci è promessa all'infuori della vita eterna, che è la conoscenza di Dio?
Dice infatti il divino Maestro: Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. ( Gv 17,3 )
In riferimento all'anima infatti, sebbene sia immortale, tuttavia, poiché la sua morte è giustamente detto che consiste nell'allontanarsi dalla conoscenza di Dio, quando si converte a Dio, merita di ottenere la vita eterna, poiché la vita eterna, come è stato detto, è la stessa conoscenza di Dio.
Ora, nessuno si può convertire a Dio se non si distacca da questo mondo.
Questo io lo sento per me arduo e difficile: se per voi è facile, lo vedrà Dio stesso.
Io vorrei crederlo, se non mi rendesse esitante il fatto che questo mondo, dal quale ci si ordina di distaccarci, è il mondo visibile e l'Apostolo ha detto: Le realtà visibili sono di un momento, invece quelle invisibili sono eterne. ( 2 Cor 4,18 )
Voi attribuite maggiore importanza al giudizio dei vostri occhi che a quello della mente, voi che sostenete e credete che non ci sia nessuna penna che risplende la quale non tragga il suo splendore da Dio e che non ci sia anima vivente che non tragga la sua vita da Dio.
Sono queste le cose e altre simili che o avrei detto loro o avrei considerato con me stesso.
Infatti, pregando Dio con tutte le viscere, come si dice, e intento, per quanto mi era consentito, alle Scritture, forse anche allora avrei potuto o dire queste cose o pensarle, e questo era sufficiente per la mia salvezza.
Ma due cose soprattutto, che attraggono facilmente l'età in cui mi trovavo, mi hanno trascinato per sorprendenti percorsi: una di esse è l'amicizia, che si è insinuata improvvisamente in me non so come con una certa apparenza di bontà, avviluppandosi intorno al mio collo in molte maniere come una corda sinuosa; l'altra è una certa nociva vittoria che riportavo quasi sempre nelle discussioni con cristiani inesperti, ma che tuttavia si affannavano a difendere a gara la loro fede, ciascuno secondo le sue forze.
Con questi successi molto frequenti l'ardore giovanile si rafforzava e con il suo impeto si inclinava inavvertitamente verso il grande male dell'ostinazione.
Poiché avevo intrapreso questo genere di dispute dopo averli uditi, attribuivo loro assai di buon grado soltanto tutto ciò che potevo trarre o dal mio ingegno, quale che fosse, o dalle letture di altri.
Così di giorno in giorno, grazie ai loro discorsi, si rinnovava il mio ardore nei combattimenti; in virtù dell'esito felice dei combattimenti si rinnovava il mio amore per loro.
A ciò si aggiungeva che, per una sorta di strana malattia, qualunque cosa dicessero lo ritenevo per vero, non perché lo sapessi tale, ma perché desideravo che lo fosse.
Così avvenne che, sebbene a poco a poco e con prudenza, tuttavia ho seguito a lungo uomini che preferivano un bel gambo di grano ad un'anima vivente.
9.12 - In verità, ne convengo, a quell'epoca non potevo distinguere e separare le cose sensibili da quelle intelligibili, cioè le cose carnali da quelle spirituali.
Non era capacità propria né dell'età, né della dottrina, né di qualche consuetudine, né infine di alcun merito, perché comporta una grande gioia ed una grande felicità.
Così, dunque, non potevo afferrare neppure ciò che la natura stessa ha fissato nel giudizio di tutti gli uomini, in virtù delle leggi di Dio?
In effetti, quali che siano gli uomini, purché nessuna demenza li abbia privati del senso comune proprio del genere umano, quale la disposizione con cui essi si accingono a giudicare, quale la loro incompetenza e anche la loro lentezza intellettuale, vorrei vedere che cosa risponderebbero a questa mia richiesta: vi sembra che un uomo abbia peccato se un altro, mentre egli dorme, con la sua mano ha scritto qualche cosa di turpe?
Tutti, chi potrebbe dubitare, escluderebbero che si tratti di un peccato e protesterebbero al punto forse di sdegnarsi che li abbia ritenuti degni di tale domanda.
Dopo averli in qualche modo calmati e riportati a riflettere, chiederei loro di sopportare volentieri che io li interroghi su una cosa tanto manifesta e a tutti nota.
Allora rivolgerei loro questa domanda: supponiamo che con la mano di uno che non dorme, ma che è cosciente di quello che fa, il quale tuttavia ha tutte le altre membra legate e incatenate, un altro uomo più forte abbia fatto di nuovo qualche cosa di male: l'atto è da ricondurre sotto il nome di qualche peccato, poiché ne aveva conoscenza, anche se non lo aveva affatto voluto?
A questo punto tutti meravigliati con me perché pongo tali questioni, senza esitazione risponderebbero che neanche quest'uomo ha affatto peccato.
E perché mai? Perché in nessun modo si può condannare a giusto titolo uno al quale qualcuno abbia fatto fare qualche cosa di male di cui era all'oscuro e rispetto a cui non era in condizione di resistere.
E se, per conoscerne la ragione, in quegli uomini interrogassi la stessa natura umana, otterrei facilmente ciò che desideravo ponendo questa domanda: supponiamo che quel dormiente sappia già ciò che l'altro farà con la sua mano e che si abbandoni di proposito al sonno, bevendo più del solito anche per non svegliarsi, al fine di ingannare qualcuno con un giuramento: il sonno potrebbe essergli di qualche aiuto per la sua innocenza?
Che altro essi sentenzierebbero, se non che l'uomo non è innocente?
Che se quest'uomo si fa legare di proposito per ingannare in modo simile qualcuno adducendo a difesa questo suo stato, infine quei legami gli avranno giovato per esentarlo dal peccato?
Così legato, in verità non era in grado di resistere, come l'altro, poiché dormiva, non sapeva affatto che cosa stesse accadendo.
Dunque, c'è qualche esitazione a giudicare che nessuno dei due ha peccato?
Concesse queste cose, ne concluderei che il peccato non è in nessun luogo se non nella volontà, potendomi aiutare anche il fatto che la giustizia considera gli uomini peccatori per la sola cattiva volontà, nel caso in cui non hanno potuto realizzare ciò che avrebbero voluto.
10.13 - Qualcuno non potrebbe dirmi, occupandomi di queste cose, che affronto questioni oscure e difficili, dove di solito nasce il sospetto di inganno o di ostentazione, a causa del piccolo numero di coloro che le comprendono?
Ebbene, accantoniamo per un po', la distinzione tra realtà intelligibili e realtà sensibili; così non mi si rimprovererà più di tormentare la anime lente stimolandole con dispute sottili.
Mi sia consentito di sapere che vivo, mi sia consentito di sapere che voglio vivere: se il genere umano è d'accordo su queste cose, la nostra volontà ci è nota tanto quanto la vita.
Né, quando dichiariamo di sapere queste cose, c'è da temere che qualcuno ci convinca che potremmo sbagliarci, giacché in proposito nessuno può sbagliarsi se o non vive o non vuole niente.
Penso di non aver esposto niente di oscuro; temo piuttosto di sembrare a qualcuno che debba essere biasimato per il fatto che propongo cose troppo evidenti.
Ma consideriamo verso quale direzione tali cose ci portano.
Non si pecca dunque se non mediante la volontà.
Ora a noi la nostra volontà è ben nota: io infatti non saprei che io voglio se non sapessi che cosa è la volontà stessa.
Pertanto si definisce così: la volontà è un movimento dell'anima, senza che nessuno la costringa, che tende o a non perdere una cosa o ad acquisirla.
Perché dunque ora non potrei definirla così?
Sarebbe difficile vedere che il costretto è il contrario del volontario, però nel senso in cui diciamo che la sinistra è il contrario della destra e non nel senso in cui diciamo che il nero è il contrario del bianco?
Infatti, mentre la stessa cosa non può essere nello stesso tempo e nera e bianca, invece un uomo, posto in mezzo a due, è alla sinistra dell'uno e alla destra dell'altro.
Un solo uomo dunque occupa simultaneamente l'una e l'altra posizione, ma in nessun modo le occupa simultaneamente in rapporto ad un solo identico uomo.
Così, un solo animo può essere contemporaneamente costretto e volontario, ma non può nello stesso tempo non volere e volere una sola ed identica cosa.
Quando infatti un uomo fa qualcosa costretto, se gli domandassi se vuole farla, egli direbbe di non volerla fare; allo stesso modo, se gli domandassi se vuole non farla, risponderebbe di si.
Così lo troverai costretto a fare senza voler fare, cioè troverai un solo animo che dispone nello stesso tempo di entrambe le possibilità, che però si riferiscono ciascuna ad un oggetto diverso.
Perché dico queste cose? Perché, se chiediamo di nuovo per quale causa faccia ciò suo malgrado, dirà che è stato costretto.
Infatti, chiunque agisce suo malgrado, è costretto e chiunque è costretto, se agisce, non lo fa se non suo malgrado.
Resta da esaminare come colui che vuole sia libero da costrizione, anche se qualcuno pensa di essere costretto.
In questo caso infatti ognuno che agisce volontariamente, non è costretto, e ognuno che non è costretto, o agisce volontariamente o si astiene dall'agire.
Queste cose la natura stessa le proclama in tutti gli uomini che possiamo interrogare in modo sensato: dal bambino al vecchio, da colui che frequenta la scuola elementare fino a colui che ricopre la cattedra del sapiente.
Perché allora io non dovrei vedere che la definizione della volontà deve includere l'assenza di costrizione, come appunto ora, in modo assai prudente, ho provveduto a precisare a motivo, per così dire, di una maggiore esperienza?
Ma se ciò è manifesto ovunque ed è visibile a tutti non per istruzione ma per natura, che cosa rimane ancora di oscuro se non che per caso a qualcuno è ignoto che quando vogliamo qualche cosa, e verso tale cosa è mosso il nostro animo tale cosa o l'abbiamo o non l'abbiamo, e, se l'abbiamo, vogliamo conservarla mentre, se non l'abbiamo, vogliamo acquisirla?
Perciò chiunque vuole, o non vuole perdere qualche cosa o vuole acquisire qualche cosa.
Se dunque tutto ciò è più chiaro di questa luce, come lo è, e, per la liberalità della stessa verità, non è stato affidato alla mia conoscenza soltanto ma a quella del genere umano, perché mai a quell'epoca non avrei potuto dire: la volontà è un movimento dell'animo senza che nessuno la costringa in vista o di non perdere una cosa o di acquisirla?
Qualcuno dirà: " E ciò in che cosa ti avrebbe aiutato contro i Manichei? "
Aspetta, permetti che prima definiamo anche il peccato, a proposito del quale ogni mente legge dentro di sé, iscritto da Dio, che senza volontà non può esistere.
Il peccato è dunque la volontà di conservare o di acquisire ciò che la giustizia vieta e da cui ci si può liberamente astenere.
Benché, se non c'è libertà, non c'è volontà.
Ma io ho preferito definirlo in modo piuttosto approssimativo anziché scrupoloso.
Avrei dovuto scrutare ancora questi oscuri libri per apprendere che non è meritevole di biasimo o di condanna nessuno che o voglia ciò che la giustizia non vieta di volere o non faccia ciò che non si può fare?
Non sono queste le verità evidenti che cantano i pastori sui monti, i poeti nei teatri, gli ignoranti nei crocicchi, i dotti nelle biblioteche, i maestri nelle scuole, i sommi sacerdoti nei luoghi sacri e il genere umano in tutto l'universo?
Che se nessuno è meritevole di biasimo o di condanna quando non agisce contro il divieto della giustizia o quando si astiene da ciò che non può, e se invece ogni peccato merita il biasimo o la condanna, chi dubiterà allora che si pecca ogni volta che si vuole una cosa ingiusta e si è liberi di non volerla?
Di conseguenza, la definizione è vera e molto facile a comprendersi, e non ora soltanto ma anche allora avrei potuto dire che il peccato è la volontà di conservare o di acquisire ciò che la giustizia vieta e da cui si è liberi di astenersi.
Su dunque, vediamo quale aiuto ci sarebbe potuto venire da queste verità.
Un aiuto grandissimo al punto da non desiderare niente di più: di certo metterebbero fine all'intera questione.
Infatti chiunque consulti i segreti della sua coscienza e le leggi divine riposte nel profondo della sua natura, cioè nell'intimità dell'animo, dove esse sono più evidenti e più sicure, concederà che queste due definizioni della volontà e del peccato sono vere e condannerà senza alcuna esitazione l'intera eresia dei Manichei con pochissimi e semplicissimi ragionamenti, ma assolutamente inconfutabili.
La questione può essere così esaminata.
Dicono che ci sono due generi di anime, l'uno buono, in quanto è venuto da Dio senza che lo si possa dire creato da qualche materia o tratto dal nulla, ma che procede dalla sua stessa sostanza come una parte di essa; l'altro invece malvagio, e di esso credono e raccomandano di credere che in nessuna parte affatto si ricollega a Dio.
Sostengono pertanto che le anime del primo genere sono il sommo bene e quelle del secondo genere il sommo male, e che questi due generi un tempo furono separati, ora invece mescolati.
In verità non ho ancora udito di quale genere di mescolanza si tratti e quale ne sia la causa, ma tuttavia l'avrei potuto cercare se il genere malvagio di anime avesse avuto qualche volontà, prima che fosse mescolato al genere buono.
Se infatti ne era privo, era senza peccato e innocente, e pertanto in nessun modo malvagio.
Supponiamo invece che era malvagio, perché è possibile che fosse senza volontà; in tal caso, come fuoco, avrebbe violato e corrotto il genere buono, se è pur vero che l'abbia toccato.
Ma non è una nefandezza molto grande credere sia che la natura del male è talmente potente da poter cambiare qualche parte di Dio, sia che il sommo bene possa essere corrotto e violato?
Se invece aveva la volontà, di certo aveva questo movimento dell'anima, senza che nessuno la costringesse, in vista o di non perdere qualche cosa o di acquisire qualche cosa.
Ora questo qualche cosa o era buono o era ritenuto buono, altrimenti infatti non avrebbe potuto essere desiderato.
Ma nel sommo male, prima della mescolanza su cui insistono, non ci fu mai alcun bene.
Da dove dunque è potuta provenire in questo genere di anime o la conoscenza o la congettura del bene?
Non volevano niente di ciò che era in esse e desideravano quel vero bene che era fuori di esse?
Bisogna dichiarare che è eccellente e degna di grande lode questa volontà con la quale si desidera il sommo e vero bene.
Da dove dunque può venire nel sommo male un movimento d'animo pienamente degno di così grande lode?
È per desiderio di nuocere che esse aspiravano al bene?
In primo luogo, con questa ragione si ritorna al medesimo punto.
Chi infatti vuole nuocere, vuole privare un altro di qualche bene in vista di qualche bene suo proprio.
C'era dunque in esse o la conoscenza o la congettura del bene, che in nessun modo dovevano essere nel sommo male.
In secondo luogo, quel bene posto fuori di esse e a cui aspiravano per nuocere, dove avevano appreso che esistesse veramente?
Se lo avevano colto con l'intelligenza, che cosa di più illustre di tale mente?
Che cosa sollecita a grandi sforzi ogni aspirazione al bene, se non il fatto che si conosce il bene sommo e perfetto?
Ciò dunque che ora è appena concesso a pochi uomini buoni e giusti, questo puro male allora lo avrebbe potuto avere senza che nessun bene lo aiutasse?
Ma se queste anime governavano i corpi e ciò lo vedevano con i propri occhi, quali lingue, quali cuori, quali ingegni sono sufficienti per lodare e celebrare questi occhi, ai quali appena possono essere paragonate le menti dei giusti?
Quanti beni troviamo nel sommo male!
Se infatti vedere Dio è un male, Dio non è il bene; ma Dio è il bene, perciò è un bene vedere Dio e io non so che cosa si possa paragonare a questo bene.
Inoltre, poiché vedere è un bene, come è possibile che poter vedere sia un male?
Perciò, qualunque cosa ha fatto sì che o questi occhi o queste menti potessero vedere la divina sostanza, ha fatto un bene grande e pienamente degno di ineffabile lode.
Se poi ciò non è stato fatto, ma era tale per se stesso ed eternamente, sarà difficile trovare qualcosa di migliore di questo male.
Infine, per stabilire che quelle anime non hanno nessuna di queste cose degne di lode, che, invece, in base ai loro argomenti, dovrebbero avere, io domanderei se Dio ne condanna alcune o nessuna.
Se nessuna, non c'è nessun giudizio dei meriti e nessuna provvidenza e il mondo è governato dal caso anziché dalla ragione, o piuttosto non è governato, perché il governo non si può affidare al caso.
Ora, se per tutti i fedeli di qualsiasi concezione religiosa è una nefandezza credere ciò, resta che o alcune anime sono condannate oppure non c'è alcun peccato.
Ma se non c'è alcun peccato, non c'è neppure alcun male, affermazione questa che, se proferita da costoro, avrebbe distrutto la loro eresia con un solo colpo.
Convengo dunque con loro che alcune anime sono condannate dalla legge e dal giudizio divino.
Ma, se sono buone, questa che giustizia è? Se sono malvagie, lo sono per natura o per volontà?
Ma le anime in nessun modo possono essere malvagie per natura.
Da dove lo apprendiamo? Dalle precedenti definizioni di volontà e di peccato.
Perché dire che le anime sono malvagie e che non hanno commesso alcun peccato è un dire pieno di follia; d'altra parte, dire che hanno peccato senza volontà è una grande stravaganza; e, infine, ritenere uno colpevole di peccato perché non ha fatto ciò che non poteva fare è un comportamento sommamente iniquo e dissennato.
Perciò quelle anime qualunque cosa facciano, se la fanno per natura e non per volontà, cioè se sono prive del libero movimento dell'animo per cui possono sia fare sia non fare, e se, infine, non dispongono affatto del potere di astenersi dal loro operare, non possiamo sostenere che hanno peccato.
Ma tutti riconoscono che le anime malvagie sono giustamente condannate e quelle indenni dal peccato sono ingiustamente condannate.
Si ammette dunque che quelle che peccano sono malvagie.
Invece le anime di cui essi parlano, com'è evidente, non peccano.
Non esiste perciò il genere piuttosto strano delle anime malvagie, introdotto dai Manichei.
Esaminiamo ora quell'altro genere, quello delle anime buone, che di nuovo essi lodano al punto di dire che sono la sostanza stessa di Dio.
Quanto sarebbe meglio invece che ciascuno conosca il proprio ordine e merito, e non si gonfi di sacrilega superbia, così che, quando si sente esposto a tanti mutamenti, crede di essere la sostanza di quel sommo bene che la pia ragione riconosce e insegna come immutabile!
Ecco, essendo manifesto che le anime non peccano nei casi in cui non sono tali quali non possono essere, da qui appare evidente ormai che quelle anime non meglio identificate introdotte dai Manichei in nessun modo peccano ed esse pertanto non esistono affatto.
Poiché concedono che esistono i peccati, resta che essi non trovano a chi imputarli, se non al genere buono e alla sostanza di Dio.
Ma a questo proposito sono incalzati soprattutto dalla dottrina cristiana; infatti non hanno mai negato che il perdono dei peccati è concesso a chiunque si sia convertito a Dio; e non hanno mai detto - come in molti altri casi -, che ciò sia stato introdotto nelle Sacre Scritture da qualche falsificatore.
A queste anime dunque i peccati sono rimessi?
Quanto a quelle dell'altro genere, quelle malvagie, se possono diventare anche buone, esse possono possedere con Cristo il regno di Dio.
Ma poiché questo lo escludono, e non hanno un altro genere di anime, se non quelle che presentano come provenienti dalla sostanza divina, sono costretti a riconoscere che non solo anche queste commettono peccato, ma anzi che esse sono le uniche a commetterlo.
Io non mi oppongo all'opinione che siano le uniche a peccare; tuttavia peccano.
Ma allora vi sono costrette dalla mescolanza del male?
Se vi sono costrette al punto che non hanno alcun potere di resistere, non peccano.
Se invece è in loro potere di resistere e vi acconsentono di propria volontà, perché ci sono tanti beni nel sommo male, perché questo male nel sommo bene?
Questo è quanto dobbiamo trovare nella loro dottrina, a meno che non esista né quel male che introducono per supposizione, né questo sommo bene che sconvolgono per superstizione.
Ma se fossi riuscito a mostrare che, intorno a questi due generi di anime, essi farneticano ed errano, o di certo io stesso l'avessi appreso, quale altra ragione avrebbe potuto esserci perché mi sembrasse ancora opportuno ascoltarli o consultarli su qualche argomento?
Forse per apprendere che l'esistenza di due generi di anime è dimostrato dal fatto che, nel deliberare, l'assenso ora si inclina verso la parte malvagia ora verso la parte buona?
Ma perché questo non è piuttosto il segno che c'è una sola anima, la quale con la sua libera volontà può portarsi di qua e di là, ritirarsi da una parte e dall'altra?
Quando ciò mi capita, infatti, percepisco di essere uno soltanto, io che considero l'una e l'altra cosa, che scelgo l'una o l'altra cosa.
Ma per lo più l'una cosa ci piace, l'altra è conveniente, per cui noi, posti in mezzo, siamo indecisi.
Né c'è da meravigliarsi; infatti ora siamo costituiti in modo che possiamo essere, in ragione del corpo, influenzati dal piacere e, in ragione dello spirito, dall'onestà.
Per quale motivo, a questo proposito, non sono costretto ad ammettere due anime?
È perché possiamo comprendere meglio e in modo più spedito che ci sono due generi di cose buone, dei quali tuttavia né l'uno né l'altro è estraneo al Dio creatore, e che solleticano una sola anima da diverse parti, da quella inferiore e da quella superiore o, potendoci esprimere più correttamente, dalla sua parte esteriore e dalla sua parte interiore.
Questi sono i due generi che poco fa abbiamo esaminato sotto i nomi di realtà sensibili e di realtà intelligibili, e che più volentieri e in modo più familiare noi chiamiamo cose carnali e cose spirituali.
Ma ci è divenuto difficile astenerci dalle cose carnali, benché il nostro vero pane è spirituale.
È con fatica infatti che ora mangiamo di questo pane: non è appunto senza alcun tormento che da immortali siamo diventati mortali in seguito al peccato di trasgressione.
Capita così che, quando ci sforziamo di tendere verso le cose migliori, la consuetudine con il corpo e i nostri peccati si mettano contro di noi in un modo, per così dire, bellicoso e comincino a farci difficoltà.
Per questo, molti sciocchi con una stupidissima superstizione suppongono che esista un altro genere di anime che non proviene da Dio.
13.20 - Peraltro, anche se si concedesse loro che è per un altro genere inferiore di anime che noi siamo allettati a fare cose turpi, non ne possono trarre la conseguenza né che le une sono malvagie per natura né che le altre sono il sommo bene.
Infatti può accadere che le prime, col desiderare con la propria volontà ciò che non era consentito, cioè col peccare, da buone sono diventate malvagie; e che possano ritornare buone, ma che, come di fatto avviene, per tutto il tempo in cui restano nel peccato, esse attirino a se stesse le altre con qualche segreta influenza.
Può accadere inoltre che non siano affatto malvagie, ma che esercitino senza alcun peccato l'attività relativa al proprio genere, per inferiore che sia, di modo che le anime superiori, alle quali la somma giustizia che governa le cose del mondo ha conferito un'attività di gran lunga più eccellente, qualora volessero seguire ed imitare quelle inferiori, peccando diventano malvagie, non perché le imitano in quanto malvagie, ma perché è male imitarle.
Le une infatti fanno quello che è loro proprio, le altre invece desiderano ciò che non appartiene loro; perciò le prime non vengono meno al loro grado, le altre invece si immergono nelle cose inferiori, come quando gli uomini seguono i comportamenti delle bestie.
Il cavallo infatti ha un bell'incedere con le sue quattro zampe, ma se l'uomo lo imita nelle mani e nei piedi, chi lo giudicherà degno perfino di mangiare la paglia?
Giustamente dunque per lo più riproviamo colui che imita, anche quando apprezziamo colui che è imitato; lo riproviamo poi non perché non vi è riuscito, ma proprio per il fatto che ha voluto riuscirvi.
Infatti ciò che apprezziamo nel cavallo, lo disprezziamo nell'uomo, che anteponiamo al cavallo nella stessa misura in cui siamo mortificati per il fatto che ricerca le cose inferiori.
E che ne è tra gli uomini stessi? Nel gridare, forse, l'araldo non fa bene ciò che fa?
E anche se il senatore lo fa in modo più chiaro e raffinato dell'araldo, quest'ultimo è forse folle?
Prendi gli astri: la luna è lodata per il suo splendore, ma piace abbastanza anche per il suo corso e per le sue fasi a coloro che la considerano attentamente; tuttavia, se il sole la volesse imitare ( supponiamo infatti che possa avere simile aspirazione ), chi non ne sarebbe sommamente dispiaciuto e a buon diritto?
Da queste cose voglio che si comprenda quanto segue: ammesso che ci siano anime dedite alle attività corporee, non per peccato ma per natura ( cosa che è comunque incerta ) e, sebbene siano inferiori, tuttavia siano in rapporto con noi per qualche affinità interiore, non dovremo ritenerle malvagie perché, nel seguirle e nell'amare le cose corporali, noi facciamo del male.
Nell'amare le cose corporee, infatti, noi pecchiamo, perché la giustizia ci ordina di amare le cose spirituali e la natura ce ne dà la possibilità.
Nel nostro genere pertanto noi possiamo essere perfettamente buoni e felici.
13.21 - Che cosa prova dunque la deliberazione che oscilla verso l'una e verso l'altra parte, ora incline al peccato, ora portata al bene?
Ci obbliga forse ad ammettere due generi di anime, dei quali la natura dell'uno proviene da Dio e quella dell'altro non proviene da Dio, quando invece è consentito congetturare tante altre cause dell'oscillazione del pensiero?
Ma chi sa ben stimare le cose, vede che queste questioni sono oscure e che non è di nessuna utilità l'essere affrontate da spiriti dallo sguardo malato.
Perciò, quanto è stato detto sulla volontà e sul peccato, cioè quanto la somma giustizia esige che conosca ogni uomo che usa la ragione, se ci viene tolto, non resta niente su cui la disciplina della virtù si fondi, niente che ci liberi della morte dei vizi.
Se lo si esamina ancora più a lungo, ci convince abbastanza chiaramente e nettamente che l'eresia dei Manichei è falsa.
Simile a ciò è quanto ora dirò della penitenza.
Infatti, come sanno tutti gli uomini di mente sana e gli stessi Manichei non solo riconoscono ma anche insegnano, è utile pentirsi del peccato.
Ebbene, su questo argomento dovrei ora raccogliere le testimonianze delle Sacre Scritture che sono ben note ovunque?
Tale è anche la voce della natura.
Questa nozione non è venuta meno neppure nello stolto: se non fosse profondamente radicata in noi, periremmo.
Un uomo può dire che non pecca; ma nessuno, per rozzo che sia, oserà negare che, se ha peccato, si deve pentire.
Stando così le cose, chiedo a quale dei due generi di anime spetti di pentirsi del peccato.
So infatti che non può spettare né a quello che non può fare il male né a quello che non può fare il bene.
Perciò, per servirmi delle loro parole, se si pente del peccato l'anima delle tenebre, essa non proviene dalla sostanza del male supremo; se si pente del peccato l'anima della luce, essa non proviene dalla sostanza del sommo bene.
Infatti la disposizione a pentirsi efficace è quella mediante la quale il penitente dichiara che ha fatto il male e che avrebbe potuto fare il bene.
In che modo dunque da me non proviene niente di male, se ho agito male?
O come potrò pentirmi giustamente, se non ho fatto niente di male?
E, d'altra parte, in che modo non proviene niente di bene da me in cui è presente la buona volontà?
O come mi pentirò giustamente, se la buona volontà non è in me presente?
Perciò bisogna che costoro o neghino che è grande l'utilità del pentimento, per cui sono rifiutati non solo dalla religione cristiana, ma anche da tutta la ragione umana, perfino da quella basata su immagini, o smettano ormai di dire e di insegnare quei due generi di anime, dall'uno dei quali non verrebbe niente di male e dall'altro niente di bene.
Se lo fanno, i Manichei cessano ormai definitivamente di esistere; infatti tutta questa setta si sorregge sulla distinzione o piuttosto sulla disastrosa diversità delle due anime.
14.23 - A me quindi è sufficiente sapere che i Manichei sono in errore, così come so che bisogna pentirsi del peccato.
E tuttavia se ora, per i diritti dell'amicizia, mettessi alle strette uno dei miei amici, che tuttora crede di dover ascoltare i Manichei e gli dicessi: " Sai che è utile pentirsi, quando si è peccato? ", senza dubbio egli giurerà che lo sa.
" Se dunque ti farò sapere così che è falsa l'eresia dei Manichei, desidererai ancora dell'altro? ".
Risponderà: " Che cosa potrei desiderare di più in tale questione? ".
Bene dunque fin qui. Ma quando avrò cominciato a mostrargli le ben salde e necessarie ragioni, che scaturiscono da questa proposizione unite tra loro, come si suol dire, in catene di acciaio, avrò portato l'intera questione ad una conclusione dalla quale quella setta è annientata; allora potrà forse dire di non conoscere l'utilità del pentimento che nessun uomo, dotto e non dotto, ignora?
E ancora, basandosi sul fatto che esitiamo a deliberare, pretenderà di sapere che le due anime che sono in noi portano ciascuna il proprio patrocinio a ciascun partito?
O abitudine del peccato! O pena, compagna del peccato!
Voi allora mi avete distolto dalla considerazione di cose così manifeste.
Ma voi nuocevate ad uno che non ne aveva coscienza; ora invece che ne ho coscienza mi colpite e mi ferite in coloro che mi sono più intimi e che similmente non ne hanno coscienza.
Rivolgete l'attenzione a queste cose, ve ne prego, o carissimi: conosco bene i vostri ingegni.
Se voi ora mi accordate l'intelligenza e la ragione di un uomo qualsiasi, sappiate che queste cose sono molto più certe di quelle che allora o ci sembrava di imparare o piuttosto eravamo costretti a credere.
Grande Dio, onnipotente Dio, Dio di somma bontà, che è doveroso credere e comprendere come inviolabile ed immutabile, unità trina che la Chiesa cattolica venera, ti prego umilmente, avendo sperimentato in me la tua misericordia, di non permettere che gli uomini con i quali fin dall'infanzia fui in perfetto accordo in ogni occasione di vita in comune, dissentano da me per quanto attiene al culto a te dovuto.
Vedo che in questa sede ci si aspettava soprattutto di sapere o come già allora difendevo le Sacre Scritture accusate dai Manichei ( se, come suppongo, fossi stato guardingo ), o come ora dimostro che possono essere difese.
Ma Dio mi aiuterà a realizzare questo mio proposito in altri scritti; infatti la lunghezza di questo, benché non eccessiva per quanto ritengo, già chiede di essere perdonata.