Lettere |
Scritta poco dopo la precedente.
Agostino a Dioscoro che chiedeva informazioni intorno a Cicerone, risponde che un vescovo non può perdere tempo in cose poco serie, del resto inutili per un Cristiano ( n. 1-12 ).
Discute del fine degli studi e del bene sommo ( n. 13-16 ), esortando Dioscoro ad abbracciare la filosofia cristiana che sola ci può far comprendere l'umiltà di Cristo ( n. 17-22 ).
Passa in rassegna citazioni di Cicerone che critica sentenze di filosofi intorno a Dio ( n. 23-24 ).
Tu hai pensato che io dovessi essere assediato o soffocato tutto ad un tratto da un'infinità di quesiti, nella convinzione che io sia completamente libero da qualsiasi impegno del mio ufficio.
Ma quando mai potrei io districarti le difficoltà di tanti quesiti, mentre hai tanta fretta, anzi, a quanto mi scrivi, sei addirittura sul punto di partire?
Del resto anche se le difficoltà che mi chiedi di sciogliere fossero facili, sarei impedito dal farlo a causa del loro stesso numero.
Esse al contrario sono tanto intricate e sì fortemente intrecciate che, se pure fossero poche e avessi a mio disposizione tutto il tempo desiderabile, ne resterei completamente assorbito con la conseguenza di sottopormi per un bel pezzo ad uno sforzo mentale eccessivo e di consumarmi interamente le unghie.
Io invece vorrei distoglierti da codeste per te così deliziose ricerche e metterti in mezzo alle mie pressanti occupazioni: impareresti allora a non nutrire una vana curiosità oppure non oseresti addossare la briga di appagarla e di alimentarla a coloro la cui occupazione principale è proprio quella di reprimere e frenare i curiosi.
Quanto meglio e quanto più utilmente impiegherei il mio tempo e la mia fatica se attendessi non già a scriverti una lettera, ma ad estirpare dal tuo cuore desideri vani e ingannatori, dai quali tanto più ci si deve guardare, quanto più facilmente traggono in inganno, velati e coperti come sono da non so quale apparenza di onestà e dalla denominazione di studi liberali.
Peggio ancora sarebbe, se li stimolassi ancor più col farmi complice e, per così dire, aiutante affinché esercitassero un più dispotico potere sul tuo carattere, pur così buono!
Orbene, se tanti dialoghi da te letti non ti hanno giovato affatto a conoscere e a raggiungere il fine al quale devono tendere tutte le tue azioni, dimmi un po': a che ti giovano?
In realtà la tua lettera mi fa capire molto bene in che cosa hai riposto il fine di codesto tuo ardente studio, a te inutile e a me molto molesto.
Nella tua lettera, facendo del tutto per indurmi a risolvere i quesiti inviatimi, ti esprimi così: '' Potrei scongiurarti più a lungo ricorrendo anche a molti tuoi cari amici; conosco però il tuo animo, che non desidera farsi pregare ma dare a tutti quello che può, purché non si tratti di cosa sconveniente, come non lo è affatto quella che ti chiedo.
Ma qualunque essa sia, ti prego di farmi questo favore perché sto per intraprendere un viaggio per mare ".
Queste espressioni della tua lettera dimostrano, è vero, la buona opinione che hai di me, poiché io desidero concedere a tutti quello che non sia però sconveniente; a me però non sembra che nella tua domanda non ci sia nulla di sconveniente.
In realtà non arrivo a vedere l'aspetto decente della cosa quando penso che un vescovo, occupato fin sui capelli nelle faccende ecclesiastiche che lo reclamano con strepito da ogni parte, faccia all'improvviso finta di non sentirle e si rifiuti dall'attendere ad esse e si metta a spiegare delle questioncelle dei Dialoghi di Cicerone a uno studentello!
Quanto ciò sia sconveniente te n'accorgi anche tu stesso, quantunque l'ardente passione per i tuoi studi non ti permetta di riflettervi attentamente.
Cosa vuol dire infatti che, dopo aver affermato che nella tua domanda non v'è assolutamente nulla di sconveniente, subito poi soggiungi: '' Ma qualunque essa sia, ti prego di farmi questo favore, poiché sto per intraprendere un viaggio per mare "?
Vuol dire che, sebbene ti paia che nella tua domanda non ci sia nulla di sconveniente, tuttavia qualunque possa essere la sconvenienza, tu mi chiedi ugualmente d'accontentarti poiché sei in procinto di fare un viaggio per mare.
Ma perché mai - ti domando io - hai aggiunto '' poiché sono in procinto d'intraprendere un viaggio per mare "?
Forse che, se tu non dovessi partire, non dovrei accontentarti in una cosa sconveniente?
Tu naturalmente pensi che la sconvenienza verrebbe cancellata dall'acqua del mare!
Ma se pur così fosse, non sarebbe cancellata la sconvenienza che commetterei io che non devo viaggiare per mare!
Nella tua lettera dici pure che io so bene quanto mai ti sia molesto l'esser di peso ad altri e affermi che Dio solo sa come vi sei stato costretto da una grave necessità.
Nel leggere la tua lettera, a questo punto mi concentrai per capire quale mai poteva essere questa tua necessità, quand'ecco m'imbatto nell'espressione seguente: '' Voi conoscete bene come sono fatti gli uomini e quanto sono facili a biasimare chi, interrogato, non rispondesse; tu capisci che sarebbe giudicato un ignorante e uno stupido ".
A questo punto mi sono sentito bruciare dal desiderio di risponderti, perché questa tua malattia mentale ha commosso profondamente il mio animo e hai fatto breccia tra le mie occupazioni in modo che non posso trascurare d'apprestarti le mie cure e cercare, con l'aiuto di Dio, di guarirti: la cura non consisterà nel risolvere o spiegare con chiarezza i tuoi quesiti, ma nello strappare da un legame infelice la tua felicità che tu fai dipendere dal giudizio malsicuro e instabile degli uomini, e nel legarla a un cardine assolutamente stabile e inconcusso.
E non t'accorgi, caro Dioscoro, che si fa beffe di te proprio il tuo Persio scagliandoti quel suo verso: Il tuo sapere è forse nulla, se altri non sa che tu sai?1 non t'assesta forse così un bello scapaccione, adatto a colpire e a rintuzzare cotesta tua mentalità puerile, se pure hai ancora un po' di buon senso?
Come dicevo poco prima, tu hai letto tanti dialoghi e ti sei riempita la mente di tante dispute di filosofi; ebbene, dimmi, chi mai di essi ha riposto il fine delle proprie azioni nella fama del volgo o nel giudizio degli uomini anche onesti e sapienti?
Tu invece, cosa di cui dovresti maggiormente vergognarti, proprio mentre stai per affrontare un viaggio per mare, dichiari d'aver ricavato un gran profitto in Africa e dici d'importunare dei vescovi, occupatissimi e intenti in faccende di gran lunga diverse, per farti spiegare Cicerone!
E ciò per l'unica ragione che temi gli uomini portati a biasimare e hai vergogna di passare per ignorante e stupido qualora, da essi interrogato, tu non sapessi dar loro una risposta!
Oh faccenda degna davvero delle veglie e delle elucubrazioni d'un vescovo!
Mi pare che giorno e notte tu non pensi che a riuscire di ottenere dagli uomini elogi per i tuoi studi e per la tua scienza.
Ora, se ho sempre giudicato pericolosa questa preoccupazione in chi aspira a beni certi e sinceri, adesso ne ho la piena conferma da te.
Solo questa tua sciagurata preoccupazione non ti ha permesso di comprendere quale motivo m'avrebbe potuto indurre ad accordarti il favore richiestomi.
Poiché, per lo stesso assurdo motivo per cui ti senti spinto a sapere le spiegazioni chieste solo per essere lodato e non biasimato dagli uomini, tu pensi ch'io debba soddisfare la tua richiesta!
Dio volesse ch'io riuscissi ad allontanarti dal bene sì vano e fallace della lode umana col dichiararti che il motivo da cui sono spinto a risponderti non è di soddisfare la tua richiesta, ma di correggerti!
'' Gli uomini - dici - sono facili a biasimare ". Ebbene, che ne deriva?
'' Se uno - dici - interrogato, non rispondesse, passerebbe per ignorante e stupido ".
Ebbene, ora t'interrogo io, non a proposito di qualche passo dei libri di Cicerone, del quale i lettori non riescono forse ad afferrare il senso, ma a proposito della tua lettera e sul senso delle tue parole.
Ti domando insomma perché mai non hai detto: '' Chi non rispondesse, si rivelerebbe ignorante e stupido ", ma hai detto '' passerebbe per ignorante e stupido ".
Evidentemente perché capisci da te stesso che, se l'interrogato su tali argomenti non rispondesse, non sarebbe in realtà ignorante e stupido, ma sarebbe soltanto reputato tale.
Io però ti fo notare che, se uno teme d'essere stroncato dai discorsi della gente che trincia giudizi come chi pota col ronchetto, è un legno secco e perciò stesso non solo è reputato, ma si dimostra coi fatti ch'è davvero ignorante e stupido!
Tu forse dirai: Poiché io non sono stupido e mi preoccupo soprattutto di non esserlo, non voglio neppure esser creduto tale.
Va bene; ma io ti chiedo: A quale scopo non lo vuoi?
Qual è la ragione per cui non hai esitato ad importunarmi col chiedermi la soluzione dei tuoi quesiti e lo scopo prefissoti, talmente necessario da chiamarlo '' grave necessità "?
L'hai detta tu stesso affermando ch'è quella di non esser reputato ignorante e stupido dagli uomini, facili a biasimare, qualora, interrogato su tali questioni, tu non sapessi rispondere.
Orbene, io ti domando: è tutto qui il motivo della tua richiesta, oppure non vuoi esser reputato ignorante e stupido per qualche altro motivo?
Se è tutto qui, tu vedi bene - come io penso - ch'esso è lo scopo del tuo ardente desiderio e per causa di esso - lo confessi tu stesso - sei di peso a me.
Ma che mai può riuscirmi di peso da parte di Dioscoro, fuorché ciò ch'è di peso a Dioscoro stesso anche a sua insaputa?
Ma egli stesso non s'accorgerà del peso fin quando non vorrà risollevarsi: Dio non voglia però che i pesi gli si siano attaccati talmente addosso da render vani i suoi tentativi di scrollarseli dalle spalle.
Non dico ciò del fatto che si studiano tali questioni, ma dello scopo per cui si studiano.
Ti accorgi da te stesso che tale scopo è ridicolo, inutile e frivolo.
Per di più tale scopo suole generare nell'occhio della mente una specie di tumore, sotto il quale si forma della tabe, da cui la pupilla rimane offuscata e non è più capace di vedere gli splendori della verità.
Credimi, caro Dioscoro, è proprio così.
Volesse Dio ch'io potessi godere della tua amicizia nell'identità dei sentimenti e nel contemplare la bellezza della verità, dalla cui ombra tu sei disorientato.
Altro mezzo non saprei trovare per farti prestar fede a quanto ti dico se non questo ragionamento.
Orbene, la verità non la vedi né potrai vederla mai assolutamente, finché riponi la dannosa tua felicità sulla instabilità delle lodi umane!
Se invece non è in ciò che riponi lo scopo delle tue azioni e delle tue ricerche affannose, ma non vuoi passare da ingenuo e stupido per qualche altro motivo, ti chiedo: Qual è questo motivo?
Se è quello di trovare minor difficoltà nel procurarti ricchezze terrene e una sposa, nell'arrivare alle cariche e ad altre simili vanità, che passano come trascinate da una vertiginosa corrente e trascinano con sé nell'abisso i meschini che vi cadono dentro, neppure per questo s'addice a me prestarti i miei servigi per farti raggiungere uno scopo di tal genere, anzi sarebbe mio dovere allontanartene.
Però quando ti esorto a non riporre la tua felicità nell'incerta fama, non voglio dire che tu debba passare, per così dire, dal Mincio nel Po; anche se non volessi passarvi vi saresti trascinato forse dalla stessa corrente del Mincio.
Mi spiego: la vanità delle lodi umane non potrebbe in realtà saziare l'avidità del tuo animo, in quanto non offre che un cibo senza alcuna sostanza.
La tua medesima avidità ti obbligherebbe quindi a rivolgerti a un altro oggetto per così dire più sostanzioso e più vantaggioso.
Se però tale oggetto viene trascinato via dalla corrente della caducità temporale, è simile a un fiume che sbocca in un altro.
In tal modo si ha un'infelicità senza limiti finché lo scopo dei nostri doveri è riposto in un bene malsicuro.
Vorrei insomma che tu fissassi costantemente l'intenzione d'ogni tua buona e nobile azione su un bene inconcusso e immutabile, sul quale edificare la dimora della tua pace senz'alcun turbamento.
Ammesso pure che tu possa raggiungere la felicità terrena, di cui ho parlato, facendoti trasportare dall'aura della notorietà popolare o spiegando le vele alla sua brezza, pensi forse di farla servire per raggiungere un bene certo, vero, pieno?
A me, al contrario, non sembra, e del resto la stessa verità vieta di pensarlo, che si possa arrivare ad essa con numerosi raggiri, dal momento che è tanto vicina, o attraverso forti somme, dal momento che è del tutto gratuita!
Ma può darsi che hai di mira un altro scopo!
Pensi forse di servirti della lode degli uomini come d'un mezzo per farti strada nella mente di essi e convincerli delle verità che procurano la salvezza e temi quindi che, se ti reputassero ignorante e stupido, ti giudicherebbero pure indegno d'essere ascoltato con attenzione e pazienza, qualora tu volessi esortarli al bene o rampognare la malizia e la dissolutezza dei peccatori?
Se nel propormi la soluzione dei tuoi quesiti avevi in mente questo scopo di giustizia e di carità e non lo hai dichiarato espressamente nella tua lettera, si vede che io riscuoto poca stima da parte tua: poiché mi sarei sentito spinto ad accordarti subito il favore richiesto.
Se non te l'avessi accordato, ciò sarebbe dipeso unicamente perché impedito forse da qualche causa e non già dalla vergogna di dover favorire o anche di non oppormi alla tua futile bramosia! Sarebbe dunque meglio e più utile per te apprendere in modo più breve e sicuro le stesse regole della verità, con le quali saresti in grado di confutare da te stesso qualunque errore.
Eviteresti così di reputarti istruito ed intelligente anche se riuscissi ad imparare tanti vecchi, anzi decrepiti errori applicandoti nello studio con più boria che saggezza, cosa questa in sé erronea e vergognosa!
Non credo però che adesso tu ti consideri tale: non invano ho esposto sì a lungo a Dioscoro tante verità fin dall'inizio della presente lettera.
Veniamo dunque al punto, dal momento che non ti giudichi affatto ignorante e stupido perché ignori coteste bazzecole, ma perché ignori proprio la verità.
Chiunque abbia già scritto o possa scrivere su tali problemi, questi sono tali che, o già li conosci senza nutrir dubbi oppure, se sono falsi, li puoi ignorare tranquillamente.
Non devi quindi tormentarti preoccupandoti inutilmente di conoscere le diverse opinioni degli altri al fine di non essere reputato ignorante e stupido.
Stando così le cose, vediamo, di grazia, se deve turbarti la falsa opinione che di te potrebbero avere gli altri, i quali - come tu scrivi - sono facili a biasimare e a reputarti, sia pure a torto, ignorante e stupido, se si accorgeranno che tu ignori tali nozioni.
Vediamo, ripeto, se la falsa opinione della gente ti debba impressionare fino al punto di chiedere la spiegazione di tali opinioni, senza sconvenienza, a dei vescovi.
Ora io suppongo che tu brami queste cose per essere in grado d'inculcare negli altri la verità e correggere la condotta di coloro che ti giudicherebbero indegno d'essere ascoltato per apprendere nozioni utili e salutari, qualora ti reputassero ignorante e ottuso a proposito dei libri di Cicerone.
La cosa però, credimi, non è affatto così.
Anzitutto non credo affatto che nei paesi, in cui temi di passare per ignorante e ottuso, vi sia gente capace di rivolgerti quesiti su tali discipline, dal momento che non solo qui, dove sei venuto ad impararle, ma anche a Roma hai constatato quanto sono trascurate e perciò non sono né insegnate né apprese.
In Africa inoltre non solo non hai la seccatura di rispondere a chi possa rivolgerti tali domande, ma non trovi neppure chi sia disposto a sentirsele rivolgere da te.
Per tale scarsezza di studiosi ti sei visto costretto, per averne la spiegazione, a inviare i tuoi quesiti a dei vescovi, come se questi volessero tenerli durevolmente nella memoria fino alla canizie episcopale e alla cattedra ecclesiastica, anche se da giovani si preoccuparono di studiarli ( come se fossero chissà che gran cosa! ) con la medesima passione o meglio aberrazione dell'animo da cui tu sei trascinato!
Ma anche se volessero tenerli fissi in mente, non li scaccerebbero forse dalla loro memoria, anche loro malgrado, altre più importanti e più gravi preoccupazioni?
E anche se, per inveterata abitudine, rimanesse nel loro animo qualche rimembranza di quegli argomenti, non bramerebbero forse di seppellirne il ricordo nell'oblio anziché servirsene per rispondere a futili quesiti che sembra siano divenuti, per così dire, muti e indifferenti perfino tra la superficialità degli studenti e delle cattedre dei professori di retorica, al punto che per farteli spiegare sei obbligato a inviarli da Cartagine qua ad Ippona?
Tali questioni poi sono così insolite e peregrine che volendo vedere come una frase da spiegare si riallacci con la precedente e come si concateni con essa il ragionamento seguente, non potrei trovare assolutamente neppure il testo di Cicerone.
Se poi i tuoi insegnanti di retorica di Cartagine non ti hanno aiutato in questa tua ricerca, non solo non li biasimo, ma li lodo qualora per caso si fossero resi conto che tali quisquilie sogliono essere gare non del Foro romano, ma dei ginnasi greci.
Tu però, essendo andato col pensiero ai ginnasi greci e avendoli trovati muti e indifferenti di fronte alle tue preoccupazioni, delle quali vorresti liberarti, ti si è affacciata alla mente la basilica dei Cristiani d'Ippona, la cui cattedra è occupata da chi una volta vendeva coteste ciance ai ragazzi.
Io però non desidero che tu sia ancora un ragazzo, e a me non si addice più d'essere né venditore né largitore di bagattelle puerili.
Orbene, stando così le cose, che cioè due grandi città come Roma e Cartagine, maestre di letteratura latina, né ti importunano con farti domande su tali questioni né si curano del fatto che le importuni tu affinché ascoltino le tue domande, non riesco a esprimere a parole quanto io rimanga stupito che un giovane così brillante come te tema di trovare nelle città della Grecia e dell'Oriente qualcuno che lo importuni con domande su tali argomenti.
Poiché sarebbe più facile sentire delle cornacchie in Africa che discorsi su tali argomenti in quelle regioni.
Supponiamo pure ch'io m'inganni e in quelle regioni tu t'imbatta per caso in qualcuno che ti faccia domande su tali questioni.
Non solo costui sarebbe tanto più importuno quanto più è inetto, ma io ti chiedo: Non dovresti forse temere piuttosto d'incontrare in Grecia più facilmente persone che potrebbero rivolgere a te, greco di patria ed istruito fin dalla tua infanzia in lingua greca, delle domande su questioni tratte dalle opere dei loro scrittori e non trattate da Cicerone nelle sue?
Se ciò accadesse, che cosa potresti rispondere?
Forse che hai voluto imparare tali questioni nelle opere degli scrittori Latini anziché dei Greci?
Ma rispondendo così anzitutto offenderesti la Grecia e tu sai quanto i Greci mai sopportano simili ingiurie!
In secondo luogo essi rimarrebbero sdegnati ed esulcerati, e ti giudicherebbero senz'altro un ottuso ( nomea che cerchi d'evitare a ogni modo ) per aver preferito imparare le dottrine filosofiche greche in opere dialogiche latine, ove sono esposte frammentariamente e staccate dal contesto, anziché nei testi originari degli autori Greci, ove sono esposte per esteso e in concatenazione logica.
Ti reputeranno inoltre ignorante perché, dal momento che non conosci tante questioni filosofiche nella tua lingua, sei andato ad accattarle in una lingua straniera.
Risponderai forse che non era tua intenzione trascurare gli scrittori Greci a proposito di tali questioni, ma hai prima voluto conoscere gli scrittori Latini e che, una volta istruito nelle opere latine, ti vuoi ora applicare a quelle greche?
Ma se un Greco come te non si vergogna di aver studiato da ragazzo le opere latine ed ora, divenuto adulto, vuole studiare le opere greche, sarà forse vergognoso ignorare alcune questioni delle opere latine, a proposito delle quali tanti dotti Latini sono ignoranti come te?
Di ciò ti rendi conto tu stesso per il semplice fatto che affermi di essere costretto a dar fastidio a me, pur trovandoti a Cartagine tra una sì gran moltitudine di dotti.
Supponiamo infine che tu possa dare una risposta a tutti i quesiti sui quali mi hai consultato: saresti senz'altro proclamato dottissimo e acutissimo e innalzato al cielo dallo spirito borioso dei Grèculi.
Non dimenticare però, in tal caso, la tua serietà e lo scopo che ti saresti prefisso nel procacciarti tali lodi: esse dovrebbero servirti cioè ad insegnare qualche verità molto importante e salutare a siffatta gente, che rimane a bocca aperta sentendo simili frivolezze ed ora sarebbe dispostissima a sentirti parlare, anzi penderebbero avidamente dal tuo labbro.
Io però vorrei sapere se conosci bene una tale verità sì importante e salutare e se sai insegnarla agli altri!
Sarebbe infatti ridicolo che, dopo avere imparato tante cose inutili al fine di conciliarti l'animo degli uditori per insegnare le necessarie, tu non conoscessi bene queste medesime cose, ad accettar le quali li avresti preparati con le inutili!
Sarebbe ridicolo che, mentre sei intento a imparare il modo di destar l'attenzione degli uditori, tu non volessi imparare ciò che si deve far entrare in orecchi già attenti.
Ma se rispondi che lo sai già, e che è la dottrina cristiana, la quale io so che poni al di sopra di tutte le altre e per la quale unicamente deve concepirsi la speranza della salvezza eterna, non è affatto necessario che tu le procuri uditori con la conoscenza dei dialoghi di Cicerone e mediante un'accozzaglia di massime estranee al pensiero cristiano tra loro discordanti e chieste quasi mendicando.
L'attenzione di coloro che dovranno ricevere da te una tale dottrina devi conciliartela coi tuoi costumi.
Al fine d'insegnare la verità non voglio che tu cominci ad insegnare cose che poi si dovranno disimparare.
Ora, se la conoscenza delle massime di scrittori profani, tra loro opposte e contraddittorie, è di qualche aiuto a chi vuole inculcare la verità cristiana per fargli conoscere come devono ribattersi gli errori ad essa contrari, questo aiuto si riduce a fargli evitare che l'avversario miri solo a confutare la tua dottrina mentre sta bene attento a tenere nascosta la sua.
La conoscenza della verità, insomma, è capace di giudicare rettamente e confutare interamente qualsiasi errore, perfino quelli mai prima uditi, purché venga proferito.
Al fine però, non solo di combattere gli errori già noti, ma di scoprire anche quelli tenuti nascosti, qualora fosse necessario conoscere gli errori altrui, aguzza lo sguardo e tendi l'orecchio, guarda bene ed ascolta se si dà mai il caso che venga alcuno ad affrontarci con obiezioni desunte dal pensiero di Anassimene e di Anassagora!
È impossibile, dal momento che degli stessi filosofi Epicurei e Stoici sono già troppo fredde le ceneri per farne scaturire una scintilla contro la fede cristiana.
Poni invece bene attenzione allo schiamazzo che sollevano le sette e le conventicole, alcune timide, altre audacemente operanti alla luce del sole, come quelle dei Donatisti, Massimianisti, Manichei, o degli Ariani, Eunomiani, Macedoniani, Catafrigi, tra la turba e le combriccole dei quali ti appresti ad andare, e di tutte le altre innumerevoli ed esiziali eresie.
Orbene, se ci rincresce di conoscere tutti questi errori, perché mai dovremmo indagare il pensiero di Anassimene e rifriggere con inutile curiosità dispute già spente, per difendere la religione cristiana?
Perché mai, dal momento che non si sente più parlare dei dissensi e delle questioni neppure di certi eretici come i Marcioniti e i Sabelliani e di tanti altri che vollero gloriarsi del nome cristiano?
Se tuttavia, come dicevo, fosse necessario conoscere in anticipo e in profondità alcune dottrine contrarie alla verità, dovremmo darci pensiero degli eretici che si mascherano sotto il nome di Cristiani, anziché di Anassagora e di Democrito.
A chiunque vi chiedesse su tali argomenti le spiegazioni che tu chiedi a me, rispondi pure che sei più dotto e saggio ignorandole.
Temistocle, ad esempio, non si curò affatto di essere considerato non sufficientemente colto allorché durante un banchetto si rifiutò di suonare la lira, scusandosi dicendo che non l'aveva imparata; a chi poi gli replicava: '' Che cosa dunque sai fare? "
'' So fare - rispose - d'un piccolo Stato uno grande ".2
Ebbene, dovresti forse esitare a rispondere di non sapere tali argomenti dal momento che, se uno ti domandasse che cosa sai, potresti rispondere di sapere come si può essere felici anche senza di essi?
Se poi tu non fossi convinto di ciò, sarebbe assurdo che ti applicassi a tali ricerche; in tal caso agiresti stoltamente, come se, essendo affetto da una pericolosa malattia fisica, andassi in cerca di piaceri e di vesti fini e soffici invece di medici e di medicine.
Non devi, in altre parole, differire per nulla una tale conoscenza né anteporle alcun'altra, nemmeno nel programma ben ordinato dei tuoi studi, soprattutto all'età a cui sei giunto.
Considera intanto quanto facilmente potresti raggiungere una tale conoscenza, se tu lo volessi.
Chi infatti cerca come arrivare alla felicità, in realtà non cerca altro che dove risiede la somma perfezione del bene, in che cosa cioè consista, non lasciandosi guidare da erronee e temerarie opinioni, ma dalla certa e inconcussa verità.
Ora il sommo bene si fa consistere o nel corpo o nell'anima o in Dio o in due di essi o certo in tutti questi esseri.
Ma se imparerai che né il sommo bene né una parte di esso può consistere affatto nel corpo, resterà che dovrà consistere o nell'anima o in Dio o in tutti e due questi esseri.
Se però continuerai l'indagine e imparerai che quanto si dice del corpo vale pure dell'anima, cos'altro ci rimane se non Dio, in cui può consistere il sommo bene dell'uomo?
Non che gli altri esseri non siano dei beni, ma si può dare il nome di sommo bene solo a quello cui gli altri sono indirizzati.
Si è infatti beati solo quando si gode tale bene per il quale si desidera possedere tutti gli altri, mentre esso si ama non in vista d'un altro bene ma per se stesso.
Si dice inoltre che in esso è la perfezione poiché non si trova altro bene che lo sorpassi o al quale esso possa essere indirizzato.
In esso insomma viene appagata ogni aspirazione, in esso si ha la sicurezza del godimento, in esso è la gioia più serena dell'amore più completo.
Dammi quindi uno il quale sia pronto a capire che non è già il corpo il bene dell'anima ma che anzi il bene del corpo è l'anima, e lascerà subito d'indagare se il sommo bene o qualche sua parte consista nel corpo.
Poiché sarebbe quanto mai stolto negare che l'anima è superiore al corpo, come sarebbe ugualmente assai stolto negare che Colui, che dà la felicità o parte di essa, sia superiore a chi la riceve.
Per conseguenza l'anima non riceve dal corpo né il sommo bene né alcuna parte di esso.
Coloro che non vedono ciò, sono accecati dalla dolcezza dei piaceri sensuali e non comprendono che questa è una conseguenza di un difetto di salute.
La perfetta salute fisica poi si avrà solo nella finale immortalità dell'intero composto umano.
Dio infatti ha dotato l'anima d'una natura sì potente, che dalla felicità piena e completa, promessa ai santi alla fine dei tempi, ridonderà pure nella natura inferiore, qual è appunto il corpo, non la felicità propria dell'anima che comprende e gode Dio, ma la pienezza della salute ossia il vigore dell'incorruttibilità.
Coloro che ciò non comprendono, si dibattono, come ho già detto, in turbolente discussioni riponendo tutti, anche se variamente secondo la capacità intellettuale di ciascuno, il sommo bene dell'uomo nel corpo e dietro di sé trascinano turbe esaltate di gente sensuale e turbolenta; fra costoro primeggiano presso il volgo gli Epicurei a causa della loro grande autorità.
Così pure, dammi uno che veda subito che l'anima stessa, quando è felice, non lo è a causa di un bene suo proprio, poiché altrimenti non sarebbe mai infelice, e costui lascerà d'indagare non solo se il sommo bene ma anche, per così dire, il bene che rende felici o qualche parte di esso, sia nell'anima.
Quando infatti l'anima si compiace di se stessa come di un suo proprio bene, allora essa cade nell'orgoglio.
Quando invece riconosce di essere soggetta a mutamenti, non foss'altro che per la possibilità di diventare da sapiente stolta, mentre al contrario riconosce che la sapienza è immutabile, deve pur riconoscere che quella è superiore alla propria natura; deve riconoscere pure che solo divenendo partecipe della sapienza e venendone illuminata, il suo godimento è più grande e più sicuro di quello che prova di se stessa.
In tal modo l'anima, cessando di essere orgogliosa, si sforza di stare unita a Dio e di essere ricreata e riportata alla sua forma originaria da Lui, bene immutabile, dal quale ormai comprende che deriva non solo la forma essenziale di tutte le cose che si percepiscono coi sensi del corpo o con l'intelligenza della mente, ma la stessa possibilità di formazione per le cose, prima della stessa effettiva loro formazione, come prova il fatto che si chiama '' informe " ciò che può ricevere una forma.
L'anima quindi percepisce di essere tanto più soggetta a deviazioni quanto meno si tiene unita a Dio che è l'Essere supremo perché non è capace né di progressi né di deficienze, non essendo soggetto ad alcun mutamento.
Comprende anche che a se stessa è utile il mutamento che consiste nel potersi unire perfettamente a Dio, dannoso invece il mutamento che consiste in un difetto.
Capisce che ogni difetto conduce alla distruzione e che, anche se non appaia se una cosa vi arrivi, a tutti però è chiaro che la distruzione porta una cosa a non essere più quel che era prima.
Da ciò conclude che le cose sono o possono essere difettose per il solo fatto che sono state create dal nulla.
La ragione intrinseca poi del loro essere e sussistere e concorrere, nonostante i loro stessi difetti, all'armonia universale del creato, risiede nella bontà e onnipotenza di Dio, Essere supremo e Creatore, capace di trarre dal nulla non solo qualcosa, ma perfino qualcosa di grande.
Si convince altresì che il primo peccato, ossia la prima mancanza di volontà, è appunto godere del proprio potere, poiché gode d'una creatura inferiore al potere divino che è senza dubbio maggiore.
Ora alcuni, non comprendendo ciò e considerando solo le facoltà dell'anima umana e la magnificenza delle sue azioni e parole, pur vergognandosi di porre il sommo bene nel corpo, lo posero nell'anima, cioè più in basso certamente rispetto all'essere in cui avrebbe dovuto esser posto per un giustissimo motivo logico.
Tra i filosofi greci che la pensano così, primeggiarono per numero e per acume dialettico gli Stoici, i quali però, non riconoscendo nella natura che esseri corporei, poterono elevare l'animo umano piuttosto al di sopra della carne che del corpo.
Fra coloro che dicono che l'unico nostro sommo bene è godere Dio, dal quale siamo stati creati noi e tutte le cose, si sono segnalati, tra i Greci, i Platonici; questi hanno creduto giustamente che loro dovere era quello di opporsi quasi esclusivamente agli Stoici e agli Epicurei.
Gli Accademici infatti non sono che i Platonici, come dimostra la successione dei discepoli.
Poiché Arcesilao fu il primo ad occultare la propria dottrina per dedicarsi a confutare i suddetti filosofi.
Se chiedi a chi successe, troverai Polemone, succeduto a Senocrate, discepolo di Platone e al quale Platone lasciò la sua scuola dell'Accademia.
Se poi, per quanto riguarda il problema del sommo bene dell'uomo, mettiamo da parte le persone e consideriamo la questione nei propri termini, c'imbatteremo certamente in due errori tra loro diametralmente opposti: l'uno pone il sommo bene nel corpo, l'altro nell'anima; a tutti e due si oppone la natura delle verità, la quale ci fa comprendere che il nostro sommo bene non è che Dio: ma essa persuade della verità non prima di aver confutato gli errori.
Considera adesso il problema insieme con le persone che lo discussero e troverai che gli Epicurei e gli Stoici si combattono aspramente tra loro.
I Platonici invece, nel tentativo di definire la controversia, mentre nascondono il proprio genuino pensiero, confutano e confondono la loro stolta fiducia nell'errore.
Ma se quei filosofi seppero esser l'esempio vivente dei propri errori, non altrettanto poterono esserlo della vera dottrina i Platonici poiché a tutti mancò l'esempio della divina umiltà, che al tempo opportuno rifulse per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
Davanti a quest'esempio unico cede, s'infrange e svanisce del tutto la superbia dell'animo più tracotante e arrogante.
I Platonici quindi non riuscirono col loro prestigio a far credere nelle cose invisibili le folle accecate dall'amore alle cose terrene, vedendole trascinate, specie a causa delle dispute degli Epicurei, non solo a godere i piaceri sensuali, ai quali correvano spontaneamente, ma finanche a difenderli col sostenere che in essi è riposto il sommo bene dell'uomo.
Vedevano d'altra parte che quelli, i quali per amore della virtù combattevano i piaceri dei sensi, avevano minor difficoltà a ravvisarla nell'anima umana, dalla quale procedono le buone azioni, ch'essi giudicavano come meglio potevano.
Capivano nello stesso tempo che se avessero tentato d'insegnare agli uditori qualcosa di divino e d'immutabile, di superiore a tutte le cose, che non è percepito da nessun senso del corpo, ma è inteso solo dalla mente, pur trascendendo perfino la natura della stessa mente umana; capivano che se avessero voluto insegnare che tale bene è Dio, godimento promesso in premio all'anima purificata da ogni macchia di passioni terrene, nel quale bene può trovare appagamento il desiderio della completa felicità e nel quale solo troviamo la perfezione d'ogni bene; capivano - ripeto - che non sarebbero stati compresi e che avrebbero ricevuto la palma della vittoria non tanto essi quanto gli Epicurei o gli Stoici, sebbene discordi tra loro: in tal modo la vera e salutare dottrina sarebbe caduta nel discredito, con danno gravissimo del genere umano.
Questo per quanto riguarda il problema morale.
Ammettiamo pure che i Platonici, riguardo al problema cosmologico, avessero insegnato che di tutto l'universo è creatrice la Sapienza incorporea, mentre gli altri filosofi, non uscendo dai limiti del mondo fisico, riponevano il principio delle cose chi negli atomi, chi nei quattro elementi ( fra cui il fuoco sarebbe stata la causa efficiente predominante nella creazione ).
Chi non vede a quali filosofi avrebbe dato entusiastica approvazione l'infinita turba degli stolti, la quale tutta dedita ai piaceri del senso, non avrebbe potuto in alcun modo concepire una potenza incorporea che fosse causa efficiente delle cose?
Rimaneva il problema gnoseologico.
Sai infatti che tutte le indagini dirette all'acquisto della saggezza riguardano o la morale o la cosmologia o la gnoseologia.
Ora, gli Epicurei affermavano che i sensi del corpo non s'ingannano mai, gli Stoici invece ammettevano che s'ingannano solo qualche volta, pur riponendo gli uni e gli altri nei sensi il criterio per arrivare alla conoscenza della verità.
Chi mai tra le contraddizioni di quei filosofi avrebbe dato ascolto ai Platonici?
Chi mai li avrebbe creduti, non dico sapienti, ma almeno uomini, qualora li avesse sentiti affermare proposizioni come le seguenti?
Non solo esiste qualche essere che non si può percepire né col tatto né con l'odorato né col gusto né con gli occhi o con gli orecchi: non possiamo neppure pensare un tale essere immaginandocelo come qualcuna delle cose sensibili, ma è il solo vero, il solo che si può comprendere perché immutabile ed eterno: esso viene tuttavia compreso unicamente dall'intelligenza, l'unica facoltà con cui può esser raggiunta la verità nel modo che questa può venire raggiunta.
I Platonici quindi non potevano insegnare tale loro teoria a uomini dediti ai piaceri sensuali, anche perché non godevano presso i popoli di tanto prestigio da persuaderli a crederla finché il loro animo non venisse elevato, al punto da poterla comprendere.
Ecco perché preferirono tener nascosto il loro pensiero ed esporlo solo nelle discussioni coi filosofi, che si vantavano d'avere trovato la verità mentre la riponevano nei sensi carnali.
Non c'interessa ora di esaminare quale fosse l'intenzione dei Platonici nell'usare tale metodo.
Essa però non era certo divina né munita in qualche modo di garanzia divina.
Considera attentamente solo che Cicerone in molte maniere dimostra chiaramente come Platone riponesse il sommo bene, la causa efficiente dell'universo e la fede nella ragione non già nella sapienza umana, ma nella sapienza assolutamente divina, dalla quale è, per così dire, illuminata la sapienza umana, insomma nella sapienza assolutamente immutabile, ossia nella verità sempre identica a se stessa.
Considera inoltre come dai Platonici furono combattuti, sotto il nome di Epicurei e di Stoici, coloro che riponevano nel corpo o nell'anima il sommo bene, la causa efficiente dell'universo e la fede nella ragione.
Col trascorrere poi del tempo s'arrivò al principio dell'era Cristiana.
Allora la fede nelle realtà eterne e invisibili venne salutarmente predicata per mezzo di miracoli visibili agli uomini che non sapevano né vedere né immaginare se non corpi.
E ad opporsi al beato apostolo Paolo, che gettava i fondamenti della medesima fede tra i pagani, furono proprio gli Epicurei e gli Stoici, come può vedersi negli Atti degli Apostoli. ( At 16,16ss )
Su tale argomento mi pare d'aver dimostrato a sufficienza come gli errori dei pagani riguardo non solo alla morale, ma anche alla cosmologia e alla gnoseologia, sebbene fossero numerosi e multiformi, erano insegnati principalmente da due scuole filosofiche; pure essendo combattuti e confutati con acuta dialettica e vigorosa eloquenza dai Platonici, durarono tuttavia fino all'era Cristiana.
Ai nostri tempi invece vediamo tali filosofi ridotti quasi al completo silenzio, per cui nelle scuole di retorica si accenna appena alle loro dottrine, mentre le discussioni e i contrasti fra gli stessi ciarlieri ginnasi greci sono ormai estirpate e soffocate.
Se qualche scuola filosofica di errore sorge ora contro la verità, ossia contro la Chiesa di Cristo, non osa uscir fuori a combatterla se non camuffata sotto il nome cristiano.
Da ciò si capisce come ormai gli stessi filosofi della scuola di Platone, cambiando solo alcuni punti della loro dottrina riprovati da quella Cristiana, devono piegare con religiosa pietà la cervice all'invitto e unico sovrano, Cristo, e riconoscere in Lui il Verbo di Dio che, rivestitosi dell'umanità, invitò a credere ( e furono subito credute sulla sua parola ) verità che i Platonici non osavano neppure di profferire.
A Cristo, caro Dioscoro, vorrei che ti assoggettassi con la più profonda pietà e che, nel tendere alla verità e nel raggiungerla, non ti aprissi altra via che quella apertaci da lui il quale, essendo Dio, ha veduto la debolezza dei nostri passi.
La prima via è l'umiltà, la seconda è l'umiltà e la terza è ancora l'umiltà: e ogni qualvolta tornassi a interrogarmi, ti risponderei sempre così.
Non perché non ci siano altri precetti degni d'essere menzionati, ma perché la superbia ci strapperà senz'altro di mano tutto il merito del bene di cui ci rallegriamo, se l'umiltà non precede, accompagna e segue tutte le nostre buone azioni in modo che l'anteponiamo per averla di mira, la poniamo accanto per appoggiarci ad essa, ci sottoponiamo ad essa perché reprima il nostro orgoglio.
Poiché tutti gli altri vizi sono da temersi nelle azioni colpevoli; la superbia invece deve temersi anche nelle azioni buone, poiché le azioni per sé degne di lode vanno perdute se ispirate dall'amore della stessa lode.
Si dice che a un famosissimo oratore fu chiesto quale fosse, a suo avviso, la prima regola dell'eloquenza e che rispondesse: '' L'arte del porgere ", quale fosse la seconda e rispondesse ancora: '' L'arte del porgere ", quale fosse la terza e rispondesse ognora: '' L'arte del porgere ".
Allo stesso modo, ogni qualvolta tu chiedessi quale sia il primo dei precetti della religione cristiana, non troverei altra risposta che questa: '' l'umiltà ", anche se le circostanze mi spingessero a dire altre cose.
Proprio per insegnare quest'umiltà necessaria alla salvezza, nostro Signor Gesù Cristo umiliò se stesso: a questa umiltà s'oppone una, chiamiamola così, ignorantissima scienza, per cui ci si rallegra di sapere il pensiero filosofico d'Anassimene, d'Anassagora, di Pitagora, di Democrito e altre simili dottrine per apparire dotti ed eruditi, mentre tutto questo bagaglio culturale è ben lontano dalla vera dottrina ed erudizione.
Chi sa che Dio non è esteso né diffuso in spazi finiti o infiniti come se fosse maggiore in una parte e minore in un'altra, ma che è presente ovunque come la verità ( di cui nessuno, che sia assennato, dice che si trovi parte in un luogo e parte in un altro ), poiché la verità è Dio stesso; chi sa ciò, non sarà punto impressionato da quel che pensava dell'aria infinita un filosofo, chiunque egli fosse, il quale affermava che l'aria è Dio.
Che gl'importa inoltre se non sa che cosa per bellezza di un corpo intendano cotesti filosofi, i quali parlano sempre d'una bellezza circoscritta da ogni parte?
Che gl'importa di sapere se Cicerone, in quanto Accademico e solo allo scopo di confutare Anassimene, gli obbiettava che Dio dev'essere dotato di bellezza, pensando a una bellezza fisica, dal momento che Anassimene aveva affermato che Dio ha un corpo e l'aria è una sostanza fisica, oppure pensando a una bellezza fisica, dal momento che Anassimene aveva affermato che Dio ha un corpo e l'aria è una sostanza fisica, oppure pensando che la verità è la bellezza incorporea, da cui l'anima stessa dell'uomo è informata, alla cui luce giudichiamo belle tutte le azioni del saggio?
Che gl'importa se Cicerone diceva che Dio dev'essere supremamente bello non tanto per confutare Anassimene, quanto perché pienamente convinto che niente è più bello della stessa verità intelligibile e immutabile?
Allo stesso modo nemmeno l'affermazione di Anassimene, che cioè l'aria sia generata pur credendola Dio, fa impressione alcuna su chi comprende che il Verbo di Dio, Dio lui stesso, fu generato da Dio ma non come è generata l'aria; questa presuppone una causa che la faccia esistere, non essendo essa per nulla Dio.
Il Verbo invece è generato in modo ben diverso, in un modo che non può esser compreso da nessuno se non da chi è ispirato da Dio.
Chi non vedrebbe poi quanto Anassimene ragioni da stolto anche a proposito delle stesse sostanze fisiche, quando afferma che l'aria è generata e cionondimeno pretende ch'essa sia Dio, mentre poi non afferma ch'è Dio Colui che la produce, dal momento che non può esser generato da nessuno?
L'affermazione poi che l'aria è soggetta a un continuo movimento non impressionerà né indurrà a crederla Dio chi sappia che il movimento dei corpi è inferiore a quello dell'anima, come il movimento dell'anima è molto meno attivo di quello della somma e immutabile Sapienza.
Allo stesso modo, se Anassàgora o chiunque altro chiama Intelletto la verità stessa e la sapienza, perché dovrei far questione di parole con un simile filosofo?
È chiaro infatti che la disposizione e il movimento di tutte le cose è opera dell'Intelletto, il quale non senza ragione è detto infinito, non perché esteso negli spazi e in determinati luoghi, ma per la sua potenza incomprensibile alla mente umana.
Non segue però da questo che la sapienza sia anche essa alcunché d'informe, caratteristica questa solo dei corpi, che sarebbero senza forma se fossero senza limiti.
Ma Cicerone per confutare, come sembra, gli avversari ch'erano materialisti, nega che a ciò che è senza limite si possa aggiungere qualche altra cosa, perché necessariamente i corpi hanno un limite nella parte a cui s'aggiunge dell'altro.
Dice quindi che Anassàgora '' non vide come un movimento unito a una sensazione o connesso ", ossia aderente senza interruzione di continuità, '' a una cosa infinita, possa esistere ".
Così dicendo parrebbe indicare le sostanze fisiche, alle quali non si potrebbe aggiungere nulla se non fossero limitate.
Ma soggiunge: '' Non può esistere in alcun modo sensazione che non susciti una ripercussione in tutta la natura ", come se Anassàgora avesse affermato che l'Intelletto che ordina e governa l'universo ha la sensazione simile a quella che ha l'anima attraverso il corpo.
Poiché è chiaro che è l'intera anima a percepirla quando si avverte una sensazione attraverso il corpo; qualunque sia la cosa percepita è avvertita da tutta l'anima.
Cicerone poi dice intenzionalmente che tutta la natura ha sensazioni, per confutare l'affermazione di Anassagora dell'Intelletto infinito.
Come potrebbe infatti l'intelletto aver sensazioni se fosse infinito?
La sensazione corporea comincia da un punto e non percorre tutto il corpo se non dopo esser giunta alle sue estremità; il che non può affermarsi dell'infinito.
Ma neppure Anassàgora aveva parlato di sensazioni fisiche.
Ora, quando si parla di un tutto incorporeo s'intende parlare dell'assenza di limiti nello spazio e così pure esser chiamato '' tutto e infinito ": '' tutto " a causa della sua integrità o interezza, '' infinito " perché non circoscritto da limiti di spazio.
Cicerone continua dicendo: '' Se poi Anassàgora vuole che l'Intelletto sia un essere dotato di anima, occorrerà che vi sia una potenza intima per cui possa chiamarsi un essere animato "; in tal modo esso potrebbe essere, per così dire, un corpo e possedere nell'intimo un'anima per cui chiamarsi un essere animato.
Nota come parla di sostanze corporee secondo l'idea prodotta in noi dalla vista degli animali e lo faccia, penso io, a causa dell'ottusità di coloro contro i quali egli discute.
Eppure egli afferma una verità che, se i suoi avversari avessero potuto aprire gli occhi alla luce, sarebbe bastata per dimostrare loro quest'altra verità: tutto ciò che si presenta alla mente come una sostanza corporea vivente, si deve pensare necessariamente come dotata d'anima, ossia come una sostanza animata, ma non come anima.
Ecco come si esprime: '' Se l'Intelletto è dotato d'anima, ci sarà una potenza intima per cui quella sostanza possa chiamarsi un essere animato ".
Subito però soggiunge: '' Ma quale potenza è più interna dell'intelligenza?
" L'Intelletto dunque non può avere un'anima nel suo intimo, per cui essa possa chiamarsi un essere animato, poiché proprio esso è la sostanza più intima.
Occorre perciò ch'esso abbia un corpo esterno al quale l'Intelletto possa essere intimo e possa così renderlo animato.
Ecco perché Cicerone soggiunge: '' Esso è quindi rivestito d'uno corpo esterno ", come se Anassàgora avesse affermato che non può sussistere intelletto se non appartiene a qualche essere animato.
Potrebbe darsi che pensasse che l'Intelletto è la stessa somma Sapienza, la quale non può esser propria di alcun essere animato, poiché la verità si mostra indistintamente a tutte le anime capaci di goderla.
Nota perciò come Cicerone conclude con fine arguzia: '' Siccome però ciò non piace ", cioè non piace ad Anassàgora che l'Intelletto, da lui chiamato Dio, sia rivestito d'un corpo esterno in forza del quale possa risultare un essere animato, '' pare che un Intelletto puro e semplice, senza aggiunta di nessun elemento che lo renda capace di sentire ", senza cioè l'aggiunta d'alcun elemento materiale per virtù del quale possa sentire, '' sia un concetto che superi il limite della nostra facoltà speculativa! ".3
È verissimo: tale concetto supera il limite della facoltà speculativa degli Stoici e degli Epicurei, che sanno concepire solo sostanze materiali.
Dicendo '' nostra ", Cicerone vuol farci intendere la facoltà speculativa umana, e fa bene a non dire: '' supera ", ma '' Pare che superi ".
Sì, è vero: a quei filosofi pare che nessuno possa comprendere una simile sostanza e perciò pensano che non esista, ma, per quanto è possibile all'uomo, non supera l'intelligenza di alcuno ch'esista una pura e semplice sapienza e verità, la quale non è propria di alcun essere animato, ma comune a tutti, e in virtù della quale ogni anima, che n'è capace, diviene sapiente e verace.
Può essere che Anassàgora arrivasse a conoscerla e capisse ch'essa è Dio e la chiamasse Intelletto.
Ma a renderci dotti e sapienti non sarà né il nome di Anassàgora, che tutti i maestrucoli vanno strombazzando volentieri - mi si perdoni il termine militaresco - per dare l'impressione di conoscere la letteratura antica, né le nozioni ch'egli possedeva e le nozioni filosofiche da lui possedute e in base alle quali arrivò a conoscere questa verità!
È naturale: la verità mi deve essere cara non perché fu conosciuta da Anassàgora, ma perché è la verità, anche se nessuno di quei filosofi l'avesse mai conosciuta!
Non dobbiamo quindi gonfiarci di orgoglio perché conosciamo chi forse arrivò alla conoscenza della verità, per apparire dotti agli occhi della gente; ma non ci deve inorgoglire neppure il solido possesso della verità in se stessa, in grazia della quale possiamo essere realmente dotti.
Tanto meno possono giovare alla regola della nostra fede religiosa, e renderci chiare le cose oscure, i nomi e le opinioni di quei filosofi che insegnarono il falso.
Se invece avessimo veri sentimenti di umanità, dovremmo piuttosto rattristarci degli errori di tanti illustri filosofi, quando ne sentissimo parlare, anziché indagarli con tanta passione, per vantarcene tanto stoltamente con quelli che non li conoscono!
Quanto sarebbe stato meglio per me se non avessi neppure sentito il nome di Democrito!
Ora non proverei il dolore che provo nel pensare come ai suoi tempi fosse reputato non so qual grande sapiente, mentre credeva che gli dei fossero immagini emananti da oggetti solidi: esse, pur non essendo solide, vagando qua e là con moto loro proprio, penetrerebbero nell'animo umano e vi farebbero sorgere l'idea di una potenza divina.
Ora l'oggetto fisico da cui emanerebbe l'immagine, non dovrebbe essere giudicato tanto più eccellente quanto più è solido?
I critici perciò affermano che nella sua opinione Democrito fu sempre incerto ed esitante, poiché talvolta diceva pure che Dio sia una certa natura da cui emanino delle immagini, che egli crea e fa svanire, immagini, s'intende, che si sprigionano senza posa a guisa di vapori per emanazione da quella natura.
Io però non riesco a comprendere come egli possa considerare corporea ed eterna e quindi anche divina una siffatta natura.
Egli soggiunge che tali immagini vagano e penetrano nel nostro animo, come se le persone che ragionano non potessero concepire molte, anzi innumerevoli sostanze [ spirituali ], quali la verità e la sapienza, senza immaginarle fisicamente e con la sola facoltà intellettiva!
Se tali filosofi non arrivano a concepire in qualunque modo si voglia; se poi ne discutono, vorrei mi dicessero da quale corpo provenga e di che natura sia l'immagine della verità che entra nella loro intelligenza!
Si dice d'altronde che Democrito, riguardo alle questioni cosmologiche, differisca da Epicuro anche perché crede che nell'incontro degli atomi sia insita una forza animale e vitale.
Egli afferma, a mio parere, che in virtù di tale forza anche le immagini sono dotate di divinità, sebbene non lo siano tutte le immagini di tutte le cose, ma solo quelle degli dèi, le quali sarebbero elementi intelligenti di tutti quanti gli esseri ai quali egli attribuisce la divinità; le reputa immagini animate che sogliono esserci benefiche o malefiche.4
Epicuro invece, come princìpi delle cose non pone se non gli atomi, cioè corpuscoli talmente sottili e piccoli che non possono essere divisi ulteriormente e non possono essere percepiti né con la vista né col tatto: afferma pure che dall'incontro casuale di questi corpuscoli si formano gli innumerevoli mondi, gli esseri animati, le stesse anime e perfino gli dèi, ai quali attribuisce forma umana e li colloca non già in qualche mondo, ma fuori dei mondi, negli intermondi, ossia negli spazi tra i mondi.
Egli inoltre non vuol concepire se non esseri materiali, ma perché possano essere immaginati afferma che dagli esseri, formati, secondo lui, da atomi, emanano immagini più sottili di quelle che arrivano ai nostri occhi, poiché la causa del vedere sarebbero, secondo lui, immagini così enormi che possono abbracciare il mondo intero.
Intendi ormai, credo, che specie d'immagini immaginano costoro.
Mi stupisco poi che Demòcrito non avvertisse quanto fosse falsa la sua tesi anche solo per il fatto che se l'anima umana è corporea come pretendono gli atomisti, dev'essere per conseguenza pure piccola, essendo racchiusa in un corpo sì piccolo: è quindi impossibile che le enormi immagini, che entrano in essa, vengano interamente a contatto con l'anima per poterla impressionare.
È un fatto incontestabile che quando una massa corporea piccola viene a contatto con una grande, non può assolutamente essere toccata da tutte le parti di essa.
Come mai dunque le immagini vengono percepite dallo spirito tutte insieme, se in tanto sono percepite con la mente in quanto, venendo e penetrando, si mettono a contatto con lo spirito?
Non dimenticare che io parlo secondo il modo di pensare dei sensisti, poiché non penso affatto che lo spirito sia come è immaginato da essi! Se invece Demòcrito pensa che l'anima sia incorporea, col mio argomento può venire confutato il solo Epicuro.
Ma perché mai Demòcrito non comprese come non è necessario né possibile che l'anima, se incorporea, concepisca delle idee come immagini corporee, che toccano e penetrano il nostro spirito?
Riguardo poi al senso della vista, essi vengono confutati entrambi con lo stesso argomento, poiché immagini materiali tanto enormi non possono in nessun modo toccare con tutti i loro punti gli occhi, che sono tanto piccoli!
Quando poi si domanda a tali filosofi perché mai di un corpo si veda una sola immagine, mentre ne emanano innumerevoli, rispondono che il passaggio di tali immagini, sempre emananti, si compie così rapidamente che, accumulandosi e addensandosi, per così dire, le une sulle altre, di molte appare all'occhio una sola.
Questa panzana Cicerone la confuta col dire che il loro dio non può pensarsi eterno, proprio perché è pensato come risultante d'innumerevoli immagini che emanano e poi scompaiono.
Fanno poi consistere l'eternità delle forme degli dèi nel concorso d'una innumerevole moltitudine d'atomi, i quali si staccherebbero dalla massa divina in modo che agli uni ne succederebbero sempre degli altri, sicché a causa dell'ininterrotto loro succedersi, quella natura non potrebbe mai dissolversi. ''
Tutte le cose dunque - deduce logicamente Cicerone - sarebbero eterne! ",5 perché a nessuna mancherebbe la moltitudine d'innumerevoli atomi, la quale di volta in volta riparerebbe le continue perdite!
Un po' più oltre Cicerone soggiunge: ''Come mai questo loro dio non dovrebbe temere d'andare in rovina a forza d'essere incessantemente percosso e sconvolto dall'eterno incontro degli atomi?"
A ragione dice che quel corpo è percosso dagli atomi che precipitandoglisi addosso lo colpiscono; a ragione dice che sconvolto, perché se li sente penetrare nell'interno; '' e poi - soggiunge infine - se da questo dio emanano continuamente delle immagini "6 di cui abbiamo parlato abbastanza, come può sperare d'essere immortale?
In tutti questi deliramenti di simili filosofi è soprattutto da deplorare che, mentre dovrebbe essere sufficiente esporli per essere rigettati senza alcuna possibilità di difesa, persone d'acutissimo ingegno si sono prese al contrario la briga di combattere, con ricchezza d'argomenti e con l'eloquenza, teorie che anche i più ottusi avrebbero dovuto mettere in burla e rigettare appena enunciate.
Anche ammesso, per ipotesi, che gli atomi esistano e che possano accozzarsi e agitarsi nel loro incontro casuale, sarebbe forse giusto pensare con tali filosofi che gli atomi, incontrandosi casualmente, possano comporre qualche sostanza e perfino formare una figura regolare, uniformemente levigata, darle un colorito e una vita animata?
Tutte queste cose non possono assolutamente esser compiute se non dalla potenza e abilità della divina Provvidenza.
Questa verità la comprende solo chi ama vedere più con l'intelligenza che non con gli occhi del corpo e ne chiede la grazia a Colui dal quale è stato creato.
Non si deve poi ammettere assolutamente l'esistenza degli atomi, come si può dimostrare anche in base alla stessa teoria di tali filosofi, lasciando da parte le sottili teorie che i dotti insegnano sulla divisibilità delle sostanze materiali.
Gli atomisti affermano che in natura non esistono se non sostanze corporee, il vuoto e le loro qualità inseparabili: con quest'ultimo termine intendono, a mio parere, il movimento e l'urto degli atomi, oltre alle forme che ne derivano.
Ebbene, mi dicano: In quale categoria pongono le immagini che, a quanto essi dicono, emanano dai corpi solidi senz'essere affatto solide ma percepibili solo mediante il loro contatto con l'occhio, allorché vediamo, e mediante il loro contatto con lo spirito, allorché pensiamo, dal momento che sono corpi anch'esse?
Domando ciò, poiché essi credono realmente che tali immagini, emanando da un corpo arrivano all'occhio o all'animo, anch'esso corporeo secondo le loro affermazioni.
Orbene, io domando ancora: forse le immagini emanano pure dagli atomi?
Se ne emanano, in qual modo sono atomi, dal momento che da essi emanano dei corpi?
Se invece non emanano dagli atomi, potrebbe pensarsi pure qualcosa senza bisogno di immagini, ma essi respingono assolutamente una tale ipotesi: in caso diverso come possono conoscere gli atomi, se non hanno potuto pensarli?
Ma ormai mi vergogno di dover confutare simili fandonie, anche se i sensisti non si vergognano di pensarle; ma dato che ebbero perfino l'audacia di difenderle, ne provo vergogna non solo per loro, ma anche per lo stesso genere umano, che ha potuto dare ascolto a tali scemenze!
Talmente enorme è l'accecamento dell'intelligenza umana a causa della colluvie dei peccati e dell'amore carnale, che teorie sì mostruose poterono far perdere ai dotti tutto il loro tempo in discussioni!
Potrai forse tu dunque, o Dioscoro, potrà forse chiunque altro, dotato d'ingegno sveglio, dubitare che, per far arrivare il genere umano a seguire la verità, non lo si poteva aiutare in modo migliore di quello usato dall'uomo assunto in modo mirabile ed ineffabile dalla stessa Verità?
Egli, impersonando e incarnando la Verità sulla terra, coi suoi precetti di bontà e con le sue opere divine, ha persuaso gli uomini a credere per mezzo della fede, la quale è inizio di salvezza, ciò che non potevano ancora comprendere con l'intelligenza.
Orbene, io che mi glorio d'essere al suo servizio, esorto anche te a credere fermamente e senza esitazioni in Lui.
Egli ha fatto in modo che non poche persone ma interi popoli, incapaci di giudicare con la ragione simili problemi, credono per la fede fino a quando, aiutati dai suoi precetti salutari, possono uscire dalle perplessità e respirare all'aperto e alla luce della purissima e sincerissima verità.
Occorre quindi sottomettersi alla sua autorità con tanto maggior sentimento religioso, in quanto vediamo che ormai nessun errore osa più alzare il capo per trascinarsi dietro folle d'ignoranti senza coprirsi del nome cristiano.
Fra tutte le antiche sette solo gli Ebrei continuano a rimanere fuori della religione cristiana e si radunano in piccole riunioni; essi ritengono per vere le Sacre Scritture, ma fanno finta di non conoscere e non capire che proprio da esse è stato preannunciato lo stesso Gesù Cristo.
Inoltre quelli che, pur non essendo nell'unità e nell'unione cattolica, si gloriano tuttavia del nome di Cristiani, sono costretti a opporsi ai credenti e osano sedurre gl'ignoranti con lo specchietto della ragione [ come unico criterio di verità ], mentre la medicina ordinata agli uomini dal Signore è soprattutto quella di credere per fede.
Ma gli eretici si vedono costretti, come ho già detto, a usare questo metodo, perché s'accorgono in quale discredito cadrebbero, se mettessero la loro autorità a confronto con quella della Chiesa cattolica.
Ecco perché si sforzano di mettersi al di sopra dell'inconcussa autorità della Chiesa, stabilita sui più saldi fondamenti, col proclamare quale unico criterio di verità la ragione e col prometterne l'acquisto.
Tale temerità è la regola per così dire degli eretici.
Ma il Signore, clementissimo sovrano della nostra fede, ha munito come d'una roccaforte l'autorità della Chiesa, non solo per mezzo di numerosissime comunità, ossia chiese cristiane, d'ogni popolo e nazione e delle stesse sedi apostoliche, ma l'ha pure dotata di numerosissimi mezzi di difesa nelle argomentazioni irrefutabili di alcuni personaggi piamente istruiti e veramente spirituali.
La norma migliore è comunque di mettere anzitutto i deboli e i vacillanti a riparo dagli attacchi entro la roccaforte della fede, e dopo averli messi al sicuro, combattere per essi con tutte le forze della ragione.
Siccome poi i Platonici erano ai loro tempi circondati da ogni parte da false e discordanti teorie filosofiche e non avevano un'autorità così potente da imporre la fede, preferirono occultare la propria dottrina affinché fosse oggetto di ricerca anziché esporla al volgo per essere profanata.
Quando però la religione di Cristo cominciò a propagarsi tra lo stupore e la commozione dei regni di questo mondo, cominciarono essi pure a uscir fuori alla luce, a manifestare e a spiegare a tutti la dottrina di Platone.
Allora fiorì a Roma la scuola di Plotino, che ebbe per discepoli molti spiriti assai acuti e sagaci.
Alcuni di essi però si lasciarono, purtroppo, corrompere dalla curiosità delle arti magiche; altri invece, riconoscendo che in Gesù Cristo nostro Signore era personificata la stessa immutabile verità e sapienza cui avevano aspirato con ogni sforzo, passarono al suo servizio.
L'autorità più eccelsa e la luce della ragione sono riposti quindi nell'unico nome che salva e nella sua Chiesa per ricreare e riformare il genere umano.
Non mi pento d'averti esposto di preferenza questi particolari punti, sebbene tu forse desiderassi altre spiegazioni.
Quanto più progredirai nella verità, tanto più apprezzerai la mia esposizione: allora apprezzerai pure questo mio proposito che adesso ritieni poco utile ai tuoi studi. Ho cercato del resto di rispondere nel modo più breve possibile e con le opportune osservazioni anche agli altri quesiti, cioè non solo a quelli indicati nella tua lettera ma pure a quasi tutti gli altri annotati in tutti i foglietti staccati.
Se ritieni ch'io abbia risposto troppo brevemente o in modo diverso da quanto avresti voluto, non rifletti esattamente, caro Dioscoro, a chi hai rivolto i tuoi quesiti.
Ho però tralasciato tutti i quesiti tratti dai libri dell'Orator e del De Oratore, poiché, se mi fossi occupato a spiegarli, mi sarebbe sembrato d'essere un ciarlatano qualunque.
Riguardo poi ad altre questioni potrei essere interrogato anche senza sconvenienza, se mi si proponesse di trattare e risolvere problemi considerati in se stessi, ma non in relazione ai libri di Cicerone.
Trattare tali problemi così come presentati in quei libri non si addice più alla mia condizione di vescovo.
Mi sarei astenuto pure dal trattare i quesiti rivoltimi, se non avessi dovuto allontanarmi per un po' di tempo da Ippona per una convalescenza, dopo una malattia in cui mi trovò il tuo servo quando venne da me.
Durante quei giorni poi ebbi pure una ricaduta con nuovi attacchi di febbre.
Ecco perché la presente è stata spedita più tardi di quanto altrimenti avrebbe potuto essere spedita.
Ti prego caldamente di farmi sapere come l'hai accolta.
Indice |
1 | Pers., Sat. 1, 27 |
2 | Plutarco, Themist. 2; cf. Cic., Tuscul. 1, 2, 4. |
3 | Cic., De nat. deor. 1, 11, 26 s |
4 | Cic., De nat. deor. 1, 43, 120 |
5 | Cic., De nat. deor. 1, 39, 109; 37, 105 |
6 | Cic., De nat. deor. 1, 41, 114 |