Lettere |
Scritta nella primavera del 411.
A. espone ad Albina i particolari che accompagnarono il giuramento di Piniano nella basilica d'Ippona e scagiona i propri fedeli dalle accuse mosse loro dall'illustre matrona ( n. 1 ); spiega il suo comportamento equanime verso i fedeli e verso Piniano ( n. 2-3 ), il quale, vinta l'ansia e i dubbi da cui era agitato ( n. 4 ), firmò la promessa di rimanere a Ippona qualora si fosse deciso a farsi ordinare sacerdote ( n. 5 ).
Dimostrata poi falsa qualsiasi travisazione dei fatti ( n. 6 ), A. difende i suoi fedeli e se stesso dalle accuse di cupidigia lanciategli indirettamente ( n. 7-9 ) e infine ricorda a Piniano la santità del giuramento esortandolo ad adempierlo ( n. 10-14 ).
Agostino saluta nel Signore la santa e venerabile serva di dio Albina.
È giusto consolare, non accrescere il dolore dell'animo tuo, ( che, a quanto mi scrivi, non riesci a esprimere ), in modo da guarirti, se mi è possibile, dai tuoi sospetti, senza adirarmene in favor mio per non turbare di più il tuo santo cuore consacrato a Dio.
Al santo fratello nostro e figlio tuo Piniano nessuna minaccia di morte fu lanciata dagli Ipponesi, anche se egli temette qualcosa di simile: ché anch'io ebbi paura che, ad opera di alcuni facinorosi, che spesso si mescolano alla folla con segreta cospirazione, scoppiasse un violento tumulto, appena avessero trovata un'occasione di sedizione provocata quasi da un giusto motivo di sdegno.
Ma, come mi riuscì di venire a sapere in seguito, nulla di simile fu detto o tramato da alcuno.
È vero invece che contro il mio caro fratello Alipio scagliarono urlando molte ingiurie, e Dio voglia che per le preghiere sue meritino di essere assolti da una colpa tanto grave.
Io poi, dopo le loro prime grida, quando ebbi loro spiegato che non potevo ordinare sacerdote uno che non voleva esserlo, legato com'ero da una precedente promessa, quando ebbi aggiunto che, se avessero avuto lui come sacerdote facendomi violare la mia parola, non avrebbero più avuto me come vescovo, lasciata la folla, me ne ero tornato al mio seggio.
Allora quelli, alla mia inattesa risposta, rimasti esitanti e un po' turbati, come fiamma abbattuta per un attimo da una folata, presero poi a risvegliarsi con un fremito molto più impressionante, credendo di potermi costringere con la forza a non mantenere la promessa o, nel caso in cui io serbassi fede alla promessa, a farlo ordinare prete da un altro vescovo.
Io cercavo di dire a coloro ai quali mi riusciva, cioè ai notabili e ai maggiorenti che frattanto erano saliti fin da me sul coro, che né io potevo recedere dalla santità della promessa né quello poteva essere ordinato da un altro vescovo nella chiesa a me affidata, se non ne fossi stato richiesto personalmente e non lo avessi permesso; che nondimeno, anche se lo avessi permesso, avrei egualmente tradito la parola data.
Aggiungevo altresì che essi non volevano altro se non che quello, una volta ordinato contro sua voglia, rinunziasse subito dopo l'ordinazione.
Ma essi non credevano che ciò potesse accadere.
Frattanto la folla assiepata davanti ai gradini, persistendo nella medesima volontà e gridando con un pauroso e ostinatissimo strepito, ci rendeva dubbiosi e irresoluti sul da fare.
Fu allora che presero a lanciare vituperi contro il mio caro fratello; fu allora che da me si temette il peggio.
Ma, benché fossi agitato da una si grande sommossa dei fedeli e da tanto sconvolgimento della chiesa, benché nient'altro avessi detto a quella massa di gente tranne che io non potevo ordinarlo prete senza la sua volontà, nondimeno neppure in tale frangente fui indotto a dargli qualche consiglio a farsi ordinare; poiché, se fossi riuscito a persuaderlo, non sarebbe stato più ordinato sacerdote contro il suo volere.
Serbai fede all'una e all'altra promessa, non solo a quella che aveva già manifestata ai fedeli, ma anche a quella a cui ero vincolato da un unico testimone per quanto riguarda gli uomini.
Serbai, dico, in un pencolo così grave, la fedeltà della promessa, non del giuramento.
Infatti, quantunque i miei timori fossero infondati, come seppi in seguito, il pericolo, se c'era, sovrastava a tutti egualmente e il timore stesso era comune e io, temendo soprattutto per la chiesa nella quale mi trovavo, pensavo di allontanarmene.
C'era però da temere che, in mia assenza, un rispetto minore da parte dei fedeli e un dolore più cocente provocassero qualche danno ben più grave.
Aggiungi che, se me ne fossi andato col fratello Alipio stipato in mezzo ai fedeli, bisognava badare che qualcuno non osasse mettergli le mani addosso; se poi me ne fossi andato senza di lui, in che conto mi avrebbero tenuto nel caso che gli fosse capitato qualche incidente e avessi data l'impressione di averlo abbandonato, per lasciarlo in balia dei fedeli furenti?
Fra queste mie agitazioni e dolorose angustie, che mi mozzavano il respiro e m'impedivano di prendere una decisione, ecco che d'improvviso, senza che me l'aspettassi, il santo nostro figlio Piniano mi manda un servo di Dio a dire di voler giurare avanti ai fedeli che avrebbe lasciato definitivamente l'Africa qualora fosse ordinato prete a suo dispetto.
Credo che lo facesse con la persuasione che quelli, considerato che non poteva certo spergiurare, non avrebbero gridato più oltre con un'ostinatezza infruttuosa per cacciare via di qui una persona che avremmo dovuto avere almeno vicina.
Sembrando però a me che, dopo un simile giuramento, ci sarebbe stato da temere un dolore più acuto da parte dei fedeli, rimasi senza proferir verbo, e siccome Piniano mi aveva chiesto di recarmi anche da lui, mi affrettai a farlo.
Mi ripeté le parole di prima e aggiunse al medesimo giuramento un'altra clausola, che mi aveva fatto conoscere per mezzo d'un secondo servo di Dio, mentre mi affrettavo ad andar da lui, che cioè sarebbe rimasto tra noi, se nessuno gli avesse imposto suo malgrado il pesante carico del sacerdozio.
Allora io, quasi rinfrancato da un alito di brezza in mezzo a tante angustie, non gli risposi nulla, ma mi diressi a passi affrettati dal fratello Alipio e gli riferii esattamente le sue parole.
Ma egli, per evitare, a quanto io penso, che in seguito a un suo consiglio nascesse qualche complicazione da cui, a suo avviso, potevate essere offesi: " Su ciò esclamò, nessuno chieda il mio parere ".
Udita la sua risposta, corsi dai fedeli tumultuanti e, imposto il silenzio, manifestai la promessa fattami con l'impegno anche del giuramento.
GI'Ipponesi però, che avevano solo in animo e desideravano che divenisse sacerdote, non accettarono la proposta come io credevo, ma borbottando a bassa voce per un certo tempo fra loro chiesero che alla promessa e al giuramento si aggiungesse questa condizione: che, se mai a Piniano fosse piaciuto di dare l'assenso ad abbracciare la carriera ecclesiastica, non acconsentisse a farlo se non nella Chiesa d'Ippona.
Lo riferii all'interessato; senza esitare egli disse di si.
Riportai l'ambasciata ai fedeli; fecero festa e richiesero subito il giuramento promesso.
Come tornai presso il figliuolo nostro, lo trovai molto agitato ed esitante sulla scelta delle parole, con cui formulare quella promessa giurata, per l'eventualità di bisogni urgenti che potevano indurlo ad andarsene via.
Mi manifestò contemporaneamente il suo timore che potesse essere sferrato qualche assalto ostile, al quale dovesse sottrarsi con la partenza.
La pia serva di Dio Melania voleva che si aggiungesse anche il motivo del clima malsano ma egli rispose rimproverandola.
Io poi osservai che da lui era stato avanzato bensì un motivo serio e nient'affatto disprezzabile d'un bisogno urgente, capace di costringere anche i cittadini a trasferirsi, ma se un tal motivo fosse stato esposto ai fedeli, c'era da temere che dessimo l'impressione di essere profeti di sciagure; se poi la scusa fosse addotta sotto il pretesto generico di " caso di forza maggiore ", non l'avrebbero considerata se non come uno stratagemma per ingannarli.
Si decise tuttavia di saggiare a questo proposito l'animo dei fedeli e non si ebbe altro se non la conferma di ciò che avevo pensato.
Difatti, quando furono riferite le parole sue dal diacono, piacquero tutte; ma appena risonò la parola " caso di forza maggiore " che vi era stata inserita, subito si alzò un coro di proteste, non piacque più la promessa e il tumulto tornò a farsi violento, poiché i fedeli credevano che in nessun altro modo si volesse venire a patti con lui che con la frode.
Come quell'ottimo figlio nostro ebbe costatato questo, ordinò che si togliesse via il pretesto di " caso di forza maggiore" e i fedeli tornarono di nuovo a rallegrarsi.
Benché mi scusassi dicendo d'essere spossato, Piniano non volle presentarsi ai fedeli senza di me.
Ci appressammo insieme.
Disse loro che le parole che avevano udite dal diacono le aveva fatte pronunciare lui, ch'egli aveva giurato e avrebbe adempiuto la promessa; e ripeté subito ogni parola nello stesso tenore con cui le aveva dettate.
Fu risposto: Deo gratìas, e si reclamò che l'intero scritto venisse da lui firmato.
Congedai i catecumeni e Piniano pose subito la firma sotto lo scritto.
Si cominciò in seguito a reclamare con grida non già dai fedeli bensì dai notabili cristiani, sobillati però dai fedeli, che firmassi anch'io, loro vescovo.
Ma appena mi accinsi a sottoscrivere, la pia serva di Dio Melania si oppose.
Mi meravigliai come si fosse decisa così tardi a opporsi, quasi che io, non sottoscrivendo, potessi rendere nulli la promessa e il giuramento.
Ciò nondimeno ubbidii, e così la mia firma rimase in tronco né ci fu alcuno che stimò opportuno si dovesse insistere più a lungo con me, perché sottoscrivessi.
Quali siano state poi le impressioni e i commenti della gente il giorno dopo che si seppe della partenza di Piniano, mi sonO preso cura, nella misura da me creduta sufficiente, d'informare la santità vostra mediante una lettera.
Chiunque vi ha per caso raccontato cose contrarie a queste che vi ho narrate io, o dice bugie o s'inganna.
Comprendo d'aver tralasciato certi particolari che non mi sono parsi pertinenti al nostro ministero, ma ho tuttavia la coscienza di non aver detto falsità di sorta.
È vero insomma che il pio nostro figlio Piniano giurò alla mia presenza e col mio permesso, ma è falso che giurasse per mia imposizione.
Lo sa egli stesso, lo sanno i servi di Dio, ch'egli m'inviò per primo il santo fratello Barnaba e quindi Timasio, per mezzo del quale mi comunicò anche la promessa di rimanere tra noi.
I fedeli stessi con le loro grida lo costringevano al sacerdozio, non al giuramento.
Ma allorché questo gli fu offerto, non lo rifiutarono, sia perché speravano che potesse maturare in lui medesimo, abitando presso di noi, la volontà di consentire ad essere ordinato, sia perché volevano evitarne la partenza, come egli aveva giurato, nel caso che prendesse gli ordini forzatamente.
Per questa ragione e per il servizio di Dio - poiché anche la ordinazione di un sacerdote è servizio di Dio - gl'Ipponesi innalzarono alti strepiti.
Quanto al fatto poi che non si rallegrarono della permanenza da lui promessa senza l'aggiunta che, qualora un giorno si disponesse a prendere il sacerdozio, non vi assentisse se non nella Chiesa d'Ippona, è abbastanza manifesto che speravano ch'egli sarebbe rimasto ad abitare presso di loro e perciò non recedettero da quel desiderio del servizio di Dio.
Come mai dunque affermi che essi abbiano agito cosi per la turpe cupidigia del denaro?
In primo luogo essa non può riferirsi affatto ai fedeli.
A quel modo che i fedeli di Tagaste non ricevono dai beni che avete devoluti alla chiesa di Tagaste nient'altro che la gioia della vostra buona azione, così avviene pure dei fedeli d'Ippona e di qualsivoglia altro paese, dove voi avete già messo in pratica o dovunque metterete in pratica i comandamenti di Dio intorno alla ricchezza dell'iniquità. ( Lc 16,9-11 )
I fedeli non pretesero dunque da quella ragguardevole persona il proprio vantaggio pecuniario sollecitandola con soverchio ardore per provvedere alla loro Chiesa coi beni di un uomo così ricco, ma ebbero caro in voi il disprezzo del denaro da parte vostra.
Se i fedeli d'Ippona furono contenti d'aver sentito dire a mio riguardo che, dopo aver rinunciato ad alcuni campicelli lasciatimi da mio padre, mi ero consacrato a servire liberamente il Signore né invidiarono riguardo a ciò la chiesa di Tagaste, che è la mia patria carnale, anzi, mentre questa non mi aveva investito del sacerdozio, si precipitarono essi, appena poterono, a impadronirsi di me, con quanto maggiore ardore poterono esser contenti che il nostro Piniano avesse vinto e calpestato, con una conversione così bella, tante passioni di questo mondo, tante ricchezze, tante speranze!
Secondo quanto pensano molti che si paragonano con se stessi, ( 2 Cor 10,12 ) sembra che io non abbia lasciato le ricchezze, ma che ci sia arrivato.
Difatti il mio patrimonio paterno si può a stento considerare una ventesima particella a paragone dei beni della Chiesa, i quali ora si crede che io li possegga come se ne fossi padrone.
Ma in qualunque Chiesa, soprattutto dell'Africa, questo nostro Piniano potrà essere non dico prete, ma vescovo, sarà poverissimo, se si paragona alle sue ricchezze di prima, anche se si comporterà con l'animo di farla da padrone.
Molto più serenamente e sicuramente viene amata dunque la povertà in quest'uomo, nel quale è impossibile immaginare una cupidigia di beni maggiori.
Questo fu il sentimento che accese gli animi dei fedeli, questo li spinse a persistere nei loro strepiti ostinati e assordanti.
Non accusiamoli per giunta di turpe cupidigia ma lasciamo che quel bene, che essi non hanno, lo amino almeno in altri senza colpa.
Ammesso pure che in questa folla fossero mescolati dei poveri o mendicanti, che gridavano con gli altri e speravano dalla vostra venerabile sovrabbondanza un aiuto alla loro miseria, neppure questa, io credo, è turpe cupidigia.
Resta dunque solo la possibilità che questa accusa di turpissima cupidigia del danaro è rivolta indirettamente contro i membri del clero e in modo particolare contro il vescovo.
Si crede infatti che noi siamo padroni dei beni della Chiesa e che godiamo dei loro frutti.
Ma a dirla in breve, qualunque sia la parte che di essi abbiamo ricevuta, o la possediamo ancora o l'abbiamo distribuita come ci è parso più opportuno; nulla di questi beni abbiamo largito ai fedeli che non erano membri del clero o del monastero, ma solo a pochissimi bisognosi.
Non dico che simili calunnie dovettero essere dette da voi proprio contro di noi, ma dico solo che poterono essere dette in modo credibile solo contro di noi.
Che fare dunque?
Con quale argomento ci potremo giustificare almeno presso di voi, se non lo possiamo presso i nemici?
Si tratta di una questione di coscienza, tutta interiore, completamente lontana dagli occhi dei mortali, nota solo a Dio.
Che ci rimane dunque se non chiamare a testimone Dio, al quale solo è nota?
Se così pensate di noi, voi non ci raccomandate ( cosa che sarebbe molto meglio e che tu hai creduto dovermi rinfacciare come una colpa nella tua lettera ) ma ci obbligate assolutamente a giurare, non incutendoci la paura della morte corporale, come si è creduto che avessero fatto i fedeli di Ippona, ma incutendoci paura della morte della nostra reputazione, che è da preporre senz'altro anche alla vita di questa carne a difesa dei deboli, ai quali ci sforziamo di offrirci come esempio di buone opere ( Tt 2,7 ) in tutti i contatti con essi.
Nondimeno noi non ci sdegniamo con voi come voi vi sdegnate con gli Ipponesi, sebbene ci obblighiate a giurare.
Voi infatti a guisa di uomini che giudichino altri uomini, credete bensì a ciò che in noi non è, mentre non credete a ciò che in noi non può essere.
Queste vostre debolezze devono essere guarite, non accusate, e la nostra reputazione deve tornare pura presso di voi, come la coscienza lo è - almeno lo suppongo - presso il Signore.
Egli, come io e il mio fratello Alipio dicemmo in un colloquio prima che capitasse questa prova, forse mi concederà che risulti ben chiaro non solo a voi, carissimi membri come noi di un sol corpo, ma anche agli stessi nemici più accaniti che negli affari concernenti la Chiesa non ci lasciamo giammai macchiare da cupidigia per il danaro.
In attesa di questa grazia, finché il Signore non ce la concederà, per adesso intanto facciamo ciò a cui siamo costretti per non rimandare neppure per un brevissimo tempo la medicina per l'anima vostra.
Mi è testimone Dio che tutta questa amministrazione dei beni ecclesiastici, sul quali si crede che amiamo, farla da padroni assoluti, io la sopporto, non la desidero, per il servizio che devo alla carità verso i fratelli e al timore di Dio.
Per conseguenza, se lo potessi senza venir meno al mio dovere, vorrei disinteressarmene.
Non diversamente penso nei riguardi del mio confratello Alipio e me ne è testimone Dio stesso.
Eppure contro di lui, pensando di lui proprio il contrario, i fedeli, e ciò che più addolora, proprio quelli di Ippona, proruppero in tante ingiurie.
Ma voi pure, santi e pieni di profondi sentimenti di misericordia, prestando fede a simili infamie, parlando solo dei fedeli, che non hanno niente a vedere con una imputazione siffatta di cupidigia, avete voluto pungermi e rimproverarmi per correggermi, s'intende, non per odio, il che non penso affatto di voi.
Per conseguenza non devo adirarmi ma ringraziarvi, perché non avreste potuto comportarvi con maggior delicatezza e franchezza, non rinfacciando a un vescovo quasi con insolenza i vostri sentimenti, ma lasciandoglieli capire indirettamente.
Non vi sia molesto nemmeno reputarvi in certo modo afflitti per aver io creduto che si dovesse giurare.
Infatti l'Apostolo non voleva affliggere né amava poco coloro ai quali diceva: Non abbiamo usato mai parole di adulazione, come ben sapete, in mezzo a voi né abbiamo cercato occasione di cupidigia.
Dio mi è testimone. ( 1 Ts 2,5 )
Per un fatto manifesto prese a testimoni gli stessi fedeli, ma per una faccenda occulta chi altro poteva prendere a testimonio se non Dio?
L'Apostolo aveva giustamente timore che degli individui ignoranti potessero nutrire sentimenti così ignobili sul conto di lui, la cui fatica era palese a tutti, tant'è vero che non prendeva nulla per i suoi bisogni personali, se non in caso di estrema necessità, dalle elemosine dei fedeli ai quali dispensava la grazia di Cristo, ma tutto il resto che gli era necessario per vivere se lo procurava con le proprie mani; quanto più noi dobbiamo adoperarci che si presti fede a nei, che per merito di santità e virtù d'animo siamo di gran lunga inferiori a Paolo né possiamo procurarci con le nostre mani alcunché per sostentare questa vita, ( At 20,34 ) ed anche se lo potessimo, ne saremmo impediti del tutto da tante occupazioni, quante credo ne abbiano dovuto sopportare al loro tempo gli Apostoli stessi!
Non si rinfacci dunque più oltre in questo caso ai fedeli cristiani, che sono la Chiesa di Dio, la bruttissima cupidigia di danaro.
Se questa accusa fosse lanciata contro di noi, sui quali sarebbe potuto cadere il sospetto, sebbene falso ma tuttavia verosimile di tal vizio, sarebbe più sopportabile che quando è lanciata contro coloro che, si sa bene, sono alieni da una cupidigia e da un sospetto così volgari.
Non è lecito a persone che hanno una qualsiasi fede, tanto meno se hanno la fede cristiana, rinnegare il giuramento, non dico affermare alcunché di contrario, ma dubitarne minimamente.
Su tale argomento ho esposto il mio pensiero con la maggiore chiarezza possibile - almeno lo credo - nella lettera scritta al mio fratello; la Santità tua mi ha scritto domandandomi " se io o gl'Ipponesi crediamo che si debba osservare un giuramento estorto con la violenza".
Che ne pensi tu stessa? Ti piacerebbe che, anche sotto la minaccia di morte sicura e imminente, minaccia che allora era temuta senza motivo, un cristiano si servisse del nome del Signore Dio suo per ingannare?
Che un cristiano prendesse a testimone per la sua falsità il suo Dio?
In realtà, se un cristiano, indipendentemente dal giuramento, fosse costretto dalla morte imminente a una falsa testimonianza, dovrebbe aver paura di macchiare anziché di terminare la propria vita.
Eserciti fra di loro nemici ed armati combattono certo sotto la minaccia evidentissima di morte e, tuttavia, quando si legano con giuramento reciproco, li approviamo se osservano la parola data, ma se non la mantengono, giustamente li detestiamo.
Ma che cosa ha spinto i due eserciti a giurare, se non il timore d'essere tagliati a pezzi o presi prigionieri l'uno dell'altro?
Perciò se non si rispetta il giuramento estorto col timore della morte o della prigionia, se non si mantiene la parola data nel giuramento, sono colpevoli di sacrilegio e di spergiuro anche siffatti individui che temono più di spergiurare che di uccidere un altro individuo, ed ecco che noi, quasi dovessimo discuterlo, ci poniamo il problema se si debba adempiere un giuramento estorto ai servi di Dio e ai monaci, superiori agli altri per il dono della santità, che corrono verso la perfezione dei comandamenti di Cristo anche col distribuire i propri beni?
Orbene, ti scongiuro, perché mai il domicilio nella nostra città promesso da Piniano è reso odioso col chiamarlo esilio o deportazione o relegazione?
lo sono convinto che il sacerdozio non è un esilio.
Il nostro amico dovrebbe dunque preferire l'esilio al sacerdozio?
Non sia mai che si dica che quel santo uomo a noi carissimo preferì l'esilio al sacerdozio o lo spergiuro all'esilio.
Direi ciò, se io o i fedeli gli avessimo veramente estorto di giurare la promessa che sarebbe rimasto fra noi.
È vero al contrario che il giuramento non gli fu estorto mentre si rifiutava di farlo, ma fu accettato quando venne spontaneamente offerto; e ciò, come ho detto poco prima, nella speranza che, qualora Piniano fosse rimasto fra noi, potesse cedere al desiderio dei fedeli e acconsentire ad assumere la dignità clericale.
Alla fine, checché si pensi di me o degli Ipponesi, ben diversa è la responsabilità di coloro che lo hanno costretto a giurare da quella di coloro che lo hanno, non dico costretto, ma persuaso a spergiurare.
Lo stesso Piniano, di cui si tratta, non rifiuti di considerare se sia più grave il giuramento sotto la spinta d'un timore qualunque o lo spergiuro, quando non sussiste più il timore.
Ringraziamo Dio perché gl'Ipponesi pensano che la promessa nei loro riguardi non è adempiuta in nessun altro modo se non nel senso che egli stia tra loro col proposito di fissare la sua residenza ad Ippona, libero d'andare dove sarà necessario, ma animato dal proposito di tornare.
Se invece dovessero badare alle parole del giuramento ed esigerne l'esecuzione, in nessun modo il servo di Dio si sarebbe dovuto allontanare, in nessun modo spergiurare.
Ma sarebbe per gl'Ipponesi delittuoso trattenere in una tale schiavitù, non dico una persona di tanto riguardo, ma chiunque altro; essi invece hanno dimostrato coi fatti ch'era la sola cosa che si aspettavano quando si rallegrarono nell'udire che era partito ma con l'intenzione di tornare, né un giuramento sincero esige per essi altro all'infuori di ciò che sperarono dal giuramento stesso.
Che significa poi ciò che si va dicendo, che nel giuramento espresso con le sue parole egli aveva eccettuato il caso di " forza maggiore "?
Come se egli stesso non avesse ordinato di propria bocca per la seconda volta che si cancellasse quella parola.
Certo l'avrebbe potuta inserire anche allora, quando parlò di persona al popolo.
Se l'avesse fatto, la risposta non sarebbe certo stata: Deo gratias, ma sarebbero tornati alle grida di disapprovazione che si erano sollevate quando la proposta fu letta con quella clausola dal diacono.
Ma che importa che sia stata inserita o no la scusa di " forza maggiore " d'una partenza?
Non ci si aspettò da lui altro che quanto ho detto poc'anzi.
Chiunque poi abbia deluso l'attesa di coloro per i quali si giura, non può non essere spergiuro.
Si adempia dunque la promessa e si guariscano le anime dei deboli affinché con un esempio così pericoloso non siano spinti a imitare lo spergiuro quelli che lo approveranno, né quelli che lo disapprovano abbiano il pieno diritto di dire che non si deve credere a nessuno di noi non solo quando promettiamo, ma neppure quando giuriamo.
In ciò bisogna piuttosto guardarsi dalle lingue dei nemici, di cui il nemico più forte, Satana, si serve come di frecce per uccidere i deboli.
Lontano da noi il pensiero di sperare per un'anima tanto cara se non quello che ispira il timore di Dio e che consiglia la straordinaria eccellenza della santità ch'essa possiede.
Tu dici che io avrei dovuto impedire un tal giuramento ma, lo confesso, non arrivai ad esser tanto saggio da preferire di lasciare che la Chiesa che io servo fosse messa a socquadro da uno scompiglio e scandalo si gravi anziché accettare l'offerta che ci veniva fatta da una persona tanto rispettabile.
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