Prima catechesi cristiana |
Mi hai chiesto, caro fratello Deogratias, di scriverti qualcosa che possa esserti utile sulla catechesi da fare a chi è nuovo nella fede.
Infatti, come hai detto, spesso a Cartagine, dove sei diacono, ti sono condotte persone da iniziare in tutto e per tutto alla fede cristiana, per il fatto che hai fama d'essere un ottimo catechista, per la dottrina che metti in opera nell'esporre la fede e per il fascino che eserciti nel porgere il discorso.
Ma, come hai aggiunto, da parte tua quasi sempre ti trovi in difficoltà sul come debba essere opportunamente presentato ciò che, se vi aderiamo, ci fa cristiani.
Ti chiedi da dove abbia a cominciare e fin dove abbia da esser condotta l'esposizione storica; se terminata quest'ultima, dobbiamo ricorrere a qualche esortazione oppure solamente a precetti, osservando i quali chi ascolta sappia poi mantenere cristiana la propria vita e la propria professione di fede.
Inoltre mi hai confidato, lamentandotene, che spesso ti è accaduto, durante un lungo discorso privo di calore, di svilirti ai tuoi occhi e di esser colto da fastidio tu stesso e tanto più coloro che con la tua parola iniziavi e gli altri che stavano ad ascoltare.
Messo alle strette da tali necessità, ti sei sentito spinto a forzare il mio volere, perché in nome della carità che ti devo, di buon grado tra le mie occupazioni, ti scrivessi qualcosa sull'argomento.
1.2 Per quanto mi compete, mi sento costretto da quella carità e da quel servizio che debbo prestare non solo a te personalmente, ma universalmente alla nostra madre Chiesa a non rifiutare in alcun modo il compito propostomi, ma anzi ad accoglierlo con volontà pronta e fedele, se tramite l'opera mia, che per la generosità del Signore nostro sono in grado di adempiere, il Signore stesso mi ordina di aiutare in qualcosa coloro che mi ha dato come fratelli.
Infatti quanto più desidero ardentemente che il tesoro del Signore sia dispensato con larghezza, ( Mt 25,14ss ) tanto più, se so che i miei confratelli trovano difficoltà nel dispensarlo, ( 1 Cor 4,2; 1 Pt 4,10 ) occorre che faccia quanto sta in me perché essi possano compiere con facilità e prontezza ciò che desiderano con diligenza e zelo.
Dunque, per venire alla tua osservazione, non vorrei che fossi turbato dal fatto che spesso ti è parso di fare un discorso trascurato e fastidioso.
Infatti, può darsi che non sia parso tale a chi rivolgevi il tuo insegnamento, ma poiché tu desideravi far udire qualcosa di meglio, può darsi che ti sia parso immeritevole d'essere ascoltato da altri ciò che andavi esponendo.
Del resto anche a me quasi sempre i discorsi che faccio non piacciono dal momento che è mio ardente desiderio farne altri migliori: e molte volte li gusto interiormente prima di cominciare a svilupparli con il suono delle parole; se poi mi riescono inferiori rispetto a quelli che avevo concepito dentro di me, mi rattristo perché la lingua non è in grado di corrispondere al mio sentire profondo.
Vorrei infatti che chi mi ascolta vedesse con la mente ciò che io vedo; invece mi accorgo di non esprimermi in modo da riuscire nell'intento, soprattutto perché la visione pervade l'animo, per così dire, con la rapidità di un baleno, mentre l'espressione è tarda, prolissa e molto diversa; mentre questa si sviluppa, quella già si è ritirata nei suoi recessi.
Tuttavia, poiché la visione della mente in modo mirabile lascia impresse nella memoria tracce pur labili, queste permangono nella durata delle sillabe; da tali tracce ricaviamo quel complesso di segni fonetici che si chiama lingua, sia essa la latina o la greca o l'ebraica o qualsivoglia altra, sia che tali segni vengano pensati sia che vengano anche vocalmente proferiti.
In vero, le tracce di cui si è detto non sono né latine né greche né ebraiche e neppure appartengono ad alcun'altra gente, ma si producono nell'animo così come nel corpo si produce l'espressione del viso.
Di fatto la collera è designata con un termine in latino, con un altro termine in greco e con altri termini ancora in altre lingue.
Ma l'espressione del viso di un uomo adirato non è né greca né latina.
Pertanto se uno dice: Iratus sum ( Sono adirato ), non tutti lo capiscono, ma solo i latini; al contrario, se la passione di un animo in collera si manifesta sul volto e ne cambia l'espressione, tutti si accorgono di trovarsi di fronte ad un uomo adirato.
Certo, però, non è possibile con il suono prodotto dalla voce esprimere e, per così dire, porgere alla percezione di chi ascolta quelle tracce impresse nella memoria della visione intellettuale nella forma chiara e manifesta con cui le rende l'espressione del viso; le une, infatti, si trovano dentro, nell'animo, l'altra fuori, nel corpo.
Per la qual cosa possiamo opinare quale sia il divario tra il suono della voce e l'impronta della visione intellettuale, dal momento che non è simile neppure all'impressione lasciata nella memoria.
Per quanto ci riguarda, desiderando di solito ardentemente giovare a chi ci ascolta, vorremmo parlare secondo ciò che ci suggerisce la visione intellettuale, mentre, a causa della tensione stessa del nostro spirito non possiamo.
E poiché la cosa non riesce, ci angustiamo e, nella convinzione di spenderci in un'opera vana, ci snerviamo nel disgusto e a causa di questo stesso disgusto il nostro discorso diviene più smorto ed inespressivo di quanto non fosse dal punto in cui aveva preso a disgustarci.
2.4 Ma l'attenzione di coloro che hanno desiderio di ascoltarmi spesso mi rende manifesto che il mio parlare non è così noioso come mi pare, e, dal godimento che ne traggono, mi accorgo che vi trovano qualche utilità e con ogni cura impegno me stesso per non venir meno nell'offrire questo servizio, nel quale vedo che chi ascolta accoglie bene quel che viene presentato.
Allo stesso modo anche tu per il fatto stesso che frequentemente ti sono condotte persone da iniziare alla fede, devi capire che il tuo discorso non è sgradito agli altri come è sgradito a te, né devi ritenerti inutile se non riesci a rendere come vorresti ciò che vedi con la mente, dal momento che forse neppure sei in grado di vedere come desidereresti.
Chi infatti in questa vita vede se non in modo enigmatico e come per riflesso? ( 1 Cor 13,12 )
Neanche l'amore è tanto grande da penetrare, squarciata la caligine della carne, nella serenità eterna, di dove comunque traggono luce anche le cose transeunti.
Poiché d'altronde i buoni progrediscono di giorno in giorno ( 2 Cor 4,16 ) verso la visione di un giorno che non conosce il muoversi circolare del cielo né l'irrompere della notte, che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo, ( 1 Cor 2,9; Is 64,1-3; Is 65,17 ) non vi è motivo per cui, nell'iniziare alla fede chi ne è lontano, il nostro discorso diminuisca per noi di valore, se non questo: che piace discernere cose inusitate ed annoia parlare delle consuete.
E, inoltre, indubbiamente siamo ascoltati molto più volentieri allorché anche noi traiamo diletto dal parlare, giacché il filo del nostro eloquio vibra della gioia stessa che proviamo e riesce più facile e più gradito.
Per ciò non è cosa difficile raccomandare da dove e fino a dove si debba narrare ciò che è insegnato come materia di fede; o come si debba variare la narrazione di modo che sia ora più breve, ora più lunga, ma sempre risulti compiuta e perfetta; e quando occorra valersi di quella più breve e quando di quella più lunga.
In quali modi piuttosto ciò debba essere fatto perché il catechista insegni con gioia ( infatti, quanto più sarà pieno di gioia tanto più riuscirà accetto presso chi lo ascolta ): è questo il massimo impegno a cui occorre dedicarsi.
Ed in proposito la regola è evidente e nota.
Se Dio, infatti, ama chi dispensa con gioia ( 2 Cor 9,7 ) i beni materiali, quanto più amerà chi dispensa in egual modo i beni spirituali?
Quanto poi al fatto che una tale gioia sia presente al tempo opportuno, dipende dalla misericordia di Colui che la raccomanda.
Tratteremo pertanto in primo luogo del metodo con cui affrontare l'esposizione storica, secondo il desiderio che hai espresso, poi dei temi relativi all'insegnare e all'esortare, infine del modo di ottenere la gioia a cui si è fatto cenno: tutto ciò seguendo l'ispirazione che Dio ci darà.
L'esposizione storica è compiuta quando la catechesi comincia dal versetto: In principio Dio creò il cielo e la terra ( Gen 1,1 ) e prosegue fino al tempo presente della Chiesa.
Tuttavia, non dobbiamo per questo citare a memoria, nel caso li si conosca parola per parola, tutto il Pentateuco, e tutti i libri dei Giudici, dei Regni e di Esdra, e tutto il Vangelo e gli Atti degli Apostoli; neppure dobbiamo narrare e spiegare tutto ciò che è contenuto in questi libri esponendolo con nostre parole.
Il tempo non lo consente né alcuna necessità lo esige.
Dobbiamo, invece, abbracciare l'insieme per sommi capi e in linea generale, in modo da scegliere gli eventi più mirabili, che si ascoltano con maggior diletto e che d'altra parte si situano nelle articolazioni cruciali della storia, non mostrandoli come manoscritti nei loro involucri, per poi sottrarli subito alla vista; al contrario conviene, indugiandovi alquanto, chiarirli e spiegarli e offrirli all'attenzione degli ascoltatori perché li considerino e se ne meraviglino.
Al resto possiamo accennare con rapide battute inserendolo nel contesto.
In tal modo gli elementi che vogliamo mettere soprattutto in evidenza emergono di più per la minor rilevanza degli altri; né stancamente giunge a possederli chi desideriamo stimolare con la nostra esposizione storica, né rimane confusa la mente di chi dobbiamo ammaestrare con il nostro insegnamento.
Indubbiamente in tutte le cose non solo occorre che non perdiamo di vista il fine del precetto, vale a dire la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera ( 1 Tm 1,5 ) ( ad esso dobbiamo ricondurre tutto ciò che diciamo ), ma occorre pure che verso quel medesimo precetto sia avviato e diretto lo sguardo di colui che ammaestriamo con la parola.
Non per altro, infatti, tutto quello che leggiamo nelle Sacre Scritture è stato scritto, prima della venuta del Signore, se non per assicurare la sua venuta e per prefigurare la Chiesa futura, cioè il popolo di Dio in mezzo alle universe genti, che è il suo corpo; ( Col 1,18 ) popolo che unisce ed annovera tutti i santi che vissero in questo mondo anche prima dell'avvento del Signore e credettero che egli sarebbe venuto, come noi crediamo che è venuto.
Difatti Giacobbe, nascendo, mise fuori dal grembo materno dapprima la mano, con cui teneva il piede del fratello già nato, poi il capo e infine necessariamente le altre membra; ( Gen 25,26 ) e nondimeno il capo supera per dignità e valore non solo le membra che lo hanno seguito, ma anche la mano stessa che nel momento della nascita l'ha preceduto; esso ha il primo posto nell'ordine della natura, benché non lo abbia avuto rispetto al tempo in cui è apparso.
Allo stesso modo anche il Signore Gesù Cristo prima di apparire nella carne e in certa maniera uscire dal grembo del suo mistero, uomo dinanzi agli occhi degli uomini, mediatore fra Dio e gli uomini, ( 1 Tm 2,5 ) lui che è sopra tutti Dio benedetto nei secoli, ( Rm 9,5 ) nei santi Patriarchi e Profeti mandò avanti una parte del suo corpo tramite cui, preannunciando la sua nascita come con la mano, tener a freno con i vincoli della legge, come con le cinque dita, il popolo che lo precedeva orgoglioso.
Poiché nel corso delle cinque articolazioni decisive della storia non cessò di preannunciare e profetare la sua venuta: e in accordo a ciò, colui tramite il quale fu data la legge ( Gv 1,17 ) scrisse cinque libri e quegli uomini superbi che sentivano secondo la carne ( Rm 8,5 ) e volevano stabilire la propria giustizia ( Rm 10,3 ) non furono provveduti abbondantemente di benedizioni dalla mano aperta di Cristo, ma tenuti a bada dalla sua mano saldamente serrata, e così i loro piedi furono impediti ed essi caddero, ( Sal 20,9 ) ma noi ci siamo levati e restiamo in piedi.
Dunque, benché - come ho detto - Cristo Signore abbia mandato avanti una parte del suo corpo nella figura dei santi che lo hanno preceduto rispetto al tempo della sua nascita, egli tuttavia è il capo del corpo della Chiesa; ( Col 1,18 ) e tutti quei santi si sono uniti a quel medesimo corpo, di cui è capo, credendo in Colui che preannunciavano.
L'averlo, infatti, preceduto non ha comportato la loro separazione da lui; al contrario, l'avergli reso testimonianza ha comportato un maggior legame con lui.
Poiché, per quanto la mano possa essere mandata avanti rispetto al capo, tuttavia la sua articolazione sta sotto il dominio del capo.
Di conseguenza tutte le cose che sono state scritte prima, sono state scritte perché ci fossero di insegnamento ( Rm 15,4 ) e hanno rappresentato figure esemplari per noi; esse accadevano a loro in modo di prefigurazione, ma sono state scritte per noi, ( 1 Cor 10,6 ) cui è venuta incontro la fine dei tempi. ( 1 Cor 10,11 )
Ora, qual è il motivo più grande della venuta del Signore se non quello di mostrare da parte di Dio l'amore che ha per noi, raccomandandocelo sommamente?
Perché mentre eravamo ancora suoi nemici, Cristo è morto per noi. ( Rm 5,8-9 )
E per ciò fine del precetto ( 1 Tm 1,5 ) e pienezza della legge è la carità, ( Rm 13,10 ) così che pure noi ci amiamo l'un l'altro ( Gv 13,34; 1 Gv 4,11 ) e, come egli ha dato la propria vita per noi, anche noi diamo la nostra per i fratelli; ( 1 Gv 3,16 ) se un tempo si provava riluttanza ad amarlo, almeno ora non la si deve più provare nel rendere l'amore a quel Dio che per primo ci ha amati e non ha risparmiato il suo unico Figlio, ma lo ha dato per noi tutti. ( 1 Gv 4,10.19; Rm 8,32 )
Non vi è infatti invito più efficace ad amare che esser primi nell'amare; e troppo duro è il cuore che, non avendo voluto spendersi nell'amare, non voglia neppure contraccambiare l'amore.
Lo vediamo anche negli amori scandalosi e sordidi: chi vuol essere riamato non fa altro che manifestare e ostentare, per mezzo di ogni prova a sua disposizione, quanto ami; questi cerca di addurre come giustificazione un motivo apparentemente legittimo, per cui, in certo modo, pretende d'essere corrisposto da quel cuore che si sforza di sedurre; egli stesso si infiamma di più ardente passione quando si accorge che il cuore bramato già è arso dal medesimo fuoco.
Se quindi per un verso un cuore intorpidito si desta, quando senta d'essere amato, e per altro verso un cuore già ardente di passione s'infiamma maggiormente, quando sappia d'essere riamato, è evidente che non vi è motivo più grande perché l'amore cominci o aumenti con il sapere d'essere amati, da parte di chi ancora non ama, oppure, da parte di chi ama per primo, con lo sperare di poter essere riamato o con l'averne già prova.
E se ciò accade anche negli amori turpi, quanto più accade nell'amicizia!
Infatti, per non scalfire l'amicizia, di che ci preoccupiamo se non di evitare che il nostro amico creda che non lo amiamo meno di quanto ci ami lui?
Poiché se avesse quest'impressione, quell'amore, sulla cui base gli uomini instaurano rapporti di mutua amicizia, sarebbe in lui più freddo.
E se pure quegli non è tanto inconsistente da permettere che una tale ferita smorzi in lui ogni affetto, si comporterà come uno che ama non perché ne gioisce, ma perché lo vuole.
Inoltre vale la pena osservare che, quantunque i superiori vogliano essere amati dagli inferiori, dilettandosi dell'ossequio zelante di cui sono fatti oggetto, e li amino tanto più quanto più ne avvertono le manifestazioni, nondimeno un inferiore, quando si accorge di essere amato da un superiore, corrisponde con un affetto molto più grande.
Di fatto l'amore è più accetto là dove non arde per l'arsura provocata dalla necessità, ma dove sgorga abbondante dalla ricchezza della benignità: giacché l'uno nasce dal bisogno, l'altro dalla benevolenza.
Oltre a ciò, se l'inferiore disperava di poter essere amato dal superiore, sarà mosso ad amarlo al di là di ogni dire quando questi, di propria volontà, si sia degnato di mostrargli quanto ami lui, che mai avrebbe osato sperare un bene così grande.
Ora, che cosa è più grande di Dio giudice, che cosa più privo di speranza dell'uomo peccatore?
Quell'uomo che tanto più si era messo nelle mani di potenze superbe incapaci di dare felicità, per essere tutelato e soggiogato, quanto più aveva disperato che quella potenza, la quale intende esser eccelsa non per la sua malvagità, ma per la sua bontà, potesse aver cura di lui.
Se dunque Cristo è venuto perché l'uomo conoscesse quanto Dio lo ami e lo sapesse per infiammarsi d'amore verso chi per primo lo ha amato ( 1 Gv 4,10.19 ) e per amare il prossimo secondo il precetto e l'esempio di lui che si è fatto prossimo dell'uomo amandolo quando non gli era vicino, ma andava errando da lui lontano; se tutta la Scrittura divina che è stata redatta prima, lo è stata per preannunciare la sua venuta ( Lc 24,27 ) se ciò che in seguito è stato tramandato per iscritto e confermato dall'autorità divina narra di Cristo e raccomanda l'amore, è evidente allora che in quei due precetti riguardanti l'amore di Dio e del prossimo si raccolgono non solo tutta la legge e i profeti ( Mt 22,40 ) ( la sola Scrittura esistente quando il Signore diceva quelle cose ), ma anche tutti i restanti libri delle lettere divine, composti più tardi per la salvezza degli uomini e tramandati ai posteri.
Per ciò nell'Antico Testamento è adombrato il Nuovo e nel Nuovo Testamento è reso manifesto l'Antico.
Conformemente al velo che oscura l'uno, gli uomini carnali che pensano alle cose della carne ( Rm 8,5 ) sono stati allora e sono ora assoggettati dal timore dei castighi.
Al contrario, conformemente alla rivelazione manifestata dall'altro, gli uomini spirituali che pensano alle cose dello spirito sono stati resi liberi dal dono della carità: e quelli che a quel tempo per il loro devoto atteggiamento videro aprirsi le cose ancora occulte e quelli che ora con atteggiamento non superbo sono in ricerca perché non si chiudano di nuovo le porte.
Poiché dunque nulla è più contrario alla carità dell'invidia - e madre dell'invidia è la superbia -, lo stesso Signore Gesù Cristo, Dio uomo, è segno dell'amore di Dio verso di noi e in mezzo a noi esempio dell'umiltà che l'uomo deve avere, al fine che la grande superbia che ci è propria sia sanata da un più forte e contrario rimedio: infatti grande disgrazia è un uomo superbo, ma più grande misericordia è un Dio umile.
Pertanto, dopo esserti proposto un tale amore come fine a cui orientare tutto ciò che dici, esponi ogni cosa in modo che chi ti ascolta ascoltando creda, credendo speri e sperando ami. ( 1 Cor 13,13 )
Anche sulla base della severità di Dio, che incute ai cuori degli uomini un sacrosanto timore, deve essere edificata la carità.
In tal modo chi gode d'essere amato da Colui che teme, avrà l'ardire di riamarlo e non avrà il coraggio di dispiacere all'amore di lui, anche potendolo fare impunemente.
In vero accade molto raramente, anzi mai, che qualcuno venga con l'intenzione di diventare cristiano senza essere toccato nel profondo da un certo timore di Dio.
Se infatti ha intenzione di diventare cristiano perché attende qualche vantaggio dalle persone che gli stanno intorno, alle quali ritiene altrimenti di non essere gradito, oppure perché vuol evitare danni da altre, dalle quali teme offesa o inimicizia, questi non vuole diventare veramente cristiano quanto piuttosto fingere di esserlo.
Giacché la fede non è espressa da un corpo che si prostra, ma da un animo che crede.
Spesso però, tramite l'opera del catechista, subentra la misericordia di Dio, cosicché il candidato, colpito dal discorso, vuol ormai diventare ciò che aveva stabilito di fingersi: quando un tale desiderio abbia preso in lui il sopravvento, allora possiamo ritenere che egli sia mosso da motivi genuini.
Certo a noi rimane nascosto il momento in cui aderisca con il cuore quegli che già vediamo presente con il corpo; nondimeno dobbiamo agire con lui in modo che nel suo animo si sviluppi questo desiderio, seppure non c'è.
Se poi già esiste e noi lo confermiamo con la nostra opera, non è fatica sprecata, anche se non sappiamo in quale tempo e in quale ora sia sorto.
Senza dubbio è utile essere possibilmente avvertiti in precedenza, da coloro che conoscono il candidato, su quali siano le disposizioni interiori o su quali motivi lo abbiano spinto ad abbracciare la religione.
E se non ci fosse persona da cui avere queste informazioni, occorre interrogare lui stesso per condurre l'inizio del nostro discorso secondo il tenore delle sue risposte.
Se si è accostato con falsa intenzione, spinto dal desiderio di ottenere vantaggi umani o di evitare eventuali danni, in ogni caso ha l'intenzione di mentire; tuttavia, proprio dal fatto che mente si deve trarre lo spunto iniziale del discorso; non già per contraddire la sua menzogna, quasi tu ne fossi certo, ma, se egli dice d'essere venuto con una certa intenzione che si deve apprezzare, sia vero o falso ciò che dice, occorre approvare e lodare tuttavia quell'intenzione manifestata nella sua risposta.
E ciò per far sì che egli si rallegri d'esser tale quale desidera apparire.
Se poi manifesta motivi diversi da quelli che dovrebbero pervadere l'animo di chi deve essere iniziato alla fede cristiana, occorre riprenderlo con dolcezza e moderazione, come uomo privo di esperienza e di cognizioni, mettere in evidenza e raccomandare con brevità e convinzione il fine della dottrina cristiana in tutta la sua verità; e ciò senza occupare il tempo destinato all'esposizione storica e senza volerla imporre ad un animo non disposto in precedenza: bisogna che tu ti adoperi perché egli voglia quello che o per errore o per dissimulazione non voleva ancora.
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