L'utilità del credere

1.1 - Distinzione tra l'eretico e chi crede agli eretici

Se pensassi, o Onorato, che l'eretico e chi crede agli eretici siano una sola ed identica cosa, non riterrei di dover intervenire nella questione, né a parole né per iscritto.

Ora, però, vi è una grande differenza tra questi due tipi di persone, dal momento che, secondo la mia opinione, l'eretico è colui che, in vista di qualche vantaggio temporale e, soprattutto, per la propria gloria e per il proprio potere, genera o segue opinioni false e insolite, mentre chi crede agli eretici è un uomo ingannato da un'errata rappresentazione della verità e del sentimento religioso.

Appunto per questo ho ritenuto bene di non doverti nascondere quello che penso sul modo di scoprire e di custodire la verità, per la quale, come sai, siamo arsi di grande amore fin dai primi anni della gioventù.

Questa preoccupazione invece è ben remota dalle menti degli uomini vani, i quali, inoltratisi troppo in queste cose materiali e in esse sprofondati, ritengono che non esista niente altro all'infuori di ciò che percepiscono mediante i cinque ben noti messaggeri del corpo; e, anche quando tentano di staccarsi dai sensi, non pensano che alle impressioni e alle immagini che da essi hanno ricevuto, presumendo di misurare in modo assolutamente corretto i misteri ineffabili della verità con il loro criterio mortale e interamente fallace.

Niente è più facile, o mio carissimo, non solo del dire ma anche dell'immaginare di aver trovato la verità; ma quanto in realtà la cosa sia molto difficile, tu lo conoscerai, come confido, da questi miei scritti.

Ho pregato Dio e lo prego ancora, affinché essi ti giovino o che, almeno, non siano affatto di danno per te e per tutti coloro ai quali per caso capitassero in mano.

E sarà così, spero, se sono ben consapevole che ho messo mano a questo scritto con animo devoto e servizievole, e non per desiderio di vana fama e di futile ostentazione.

1.2 - La fiducia nella ragione come motivo dell'adesione di Agostino al manicheismo

È mia intenzione dunque dimostrarti, se posso, perché i Manichei inveiscano in modo empio e sconsiderato contro coloro che, seguendo l'autorità della fede cattolica, si fortificano credendo e si preparano alla futura illuminazione di Dio prima di poter contemplare quella verità che si coglie solo con la mente pura.

Tu sai infatti, o Onorato: noi siamo capitati fra tali uomini unicamente perché promettevano che, messa da parte l'autorità che incute timore, con la pura e semplice ragione avrebbero condotto a Dio e liberato da ogni errore coloro che volessero ascoltarli.

Che altro infatti, una volta rifiutata la religione che mi era stata instillata dai miei genitori fin dall'infanzia, mi avrebbe spinto a seguire ed ascoltare diligentemente quegli uomini per quasi nove anni, all'infuori del fatto che dicevano che siamo dominati dalla paura della superstizione e che la fede ci viene imposta prima della ragione, mentre essi non spingono nessuno a credere se la verità non è stata prima discussa e chiarita?

Chi non sarebbe allettato da queste promesse, soprattutto essendo un adolescente dall'animo bramoso del vero e reso altresì superbo e loquace dalle discussioni sostenute a scuola con alcuni uomini dotti?

Tale allora essi mi trovarono: naturalmente, pieno di disprezzo per quelle che mi parevano favole da vecchierelle e desideroso di possedere, per attingervi, la verità palese e integra da essi promessa.

D'altro canto, quale fondato motivo mi tratteneva dall'attaccarmi interamente a loro?

Tanto che restai in quello stadio che chiamano degli uditori e non rinunciai alle speranze e alle attività di questo mondo.

Senonché vedevo che erano più facondi e ricchi di argomenti nel confutare le dottrine altrui di quanto fossero fermi e sicuri nel dimostrare le proprie.

Ma perché dovrei parlare di me, che ero già cristiano cattolico?

Quasi esausto e arido per una lunghissima sete, mi sono attaccato con grande avidità a queste mammelle e, gemendo e piangendo profondamente, le agitai e spremetti affinché ne uscisse ciò che a me, così indebolito, potesse essere sufficiente per ristabilirmi e per restituirmi la speranza della vita e della salvezza.

Che cosa, dunque, dovrei dire di me stesso?

Tu che, non ancora cristiano, per mio consiglio, benché li detestassi vivamente, a fatica hai acconsentito a ritenerli degni di essere ascoltati e presi in considerazione, da quale altra cosa - cerca di ricordare, ti prego - ti sei sentito attratto se non da una certa grande presunzione e promessa di ragioni?

Ma siccome discutevano per molto tempo e in modo assai esteso e appassionato degli errori degli sprovveduti - cosa che più tardi ho appreso essere facilissima per chiunque sia appena un po' erudito -, se inculcavano in noi qualcuna delle loro dottrine, pensavamo di doverle far nostre per necessità, dal momento che non ci era offerto altro in cui trovare sollievo.

Dunque, con noi essi facevano ciò che sono soliti fare i cacciatori perfidi, i quali configgono i ramoscelli invischiati nei pressi dell'acqua per sorprendere gli uccelli assetati.

Interrano e in qualche modo ricoprono interamente le altre acque che sono intorno, oppure ne tengono lontani gli uccelli con spauracchi, in modo che cadano nei loro tranelli non per scelta ma per necessità.

1.3 - Contro un luogo comune dei Manichei

Ma perché non rispondo a me stesso che queste raffinate e piacevoli similitudini e queste critiche possono essere rivolte, con spirito arguto e mordace, da qualsiasi avversario contro chiunque insegni qualcosa?

Appunto per questo ho ritenuto di dover inserire qualcosa di tal genere nei miei scritti, per ammonirli a non ricorrere a questi sistemi, di modo che, come disse quel tale,1 messe da parte le futilità dei luoghi comuni, le cose combattano con le cose, le cause con le cause, le ragioni con le ragioni.

Rinuncino dunque a dire quella formula che viene loro in bocca quasi necessariamente, quando qualcuno, che è stato a lungo loro uditore, li ha abbandonati: La luce se ne è andata da lui.

Tu, che sei la mia massima preoccupazione ( per loro non mi tormento troppo ), vedi infatti quanto questa formula sia vuota e possa essere facilmente criticata da chiunque; pertanto ne rimetto la discussione alla tua sagacia.

Non penserai, credo, che sia stato abitato dalla luce quando ero impigliato nella vita di questo mondo, nutrendo l'oscura speranza di una bella moglie, di magnifiche ricchezze, di vari onori e di tutti gli altri piaceri nocivi e perniciosi.

Come ben sai, non cessavo di desiderare e sperare tutte queste cose, quando ero loro assiduo uditore; però non ne faccio colpa alla loro dottrina: confesso infatti che anche essi ammoniscono sollecitamente a guardarsene.

Ma dire che ora la luce mi ha abbandonato, quando ho distolto lo sguardo da tutte queste parvenze di realtà e ho deciso di accontentarmi del solo cibo necessario per la salute del corpo, mentre sarei stato illuminato e risplendente quando amavo quelle cose e da esse ero tenuto avvolto, è proprio dell'uomo, per dirla in modo assai benevolo, che considera poco acutamente le cose delle quali ama molto parlare.

Ma veniamo al nostro argomento, se non hai nulla in contrario.

2.4 - I Manichei e l'Antico Testamento

Sai bene che i Manichei, criticando la fede cattolica e, soprattutto, sminuzzando e lacerando l'Antico Testamento, sconcertano gli sprovveduti, i quali, di certo, ignorano fino a qual punto quelle verità devono essere comprese e come esse, una volta afferrate, scorrano utilmente nelle vene e nelle midolla delle anime che, per così dire, ancora vagiscono.

E poiché lì si incontrano passi che turbano gli animi incolti e poco riflessivi - che sono la gran parte -, tali passi possono essere messi sotto accusa facendo riferimento all'uso comune; ma non sono affatto molti quelli in grado di difenderli facendo riferimento all'uso comune, a causa dei misteri che vi sono contenuti.

E quei pochi che ne sono capaci non amano discuterne in dispute pubbliche e note a tutti; per questa ragione non sono in molti a conoscerli al di fuori di quelli che si dedicano appassionatamente a cercarli.

Riguardo dunque alla sconsideratezza di cui i Manichei danno prova col criticare l'Antico Testamento e la fede cattolica, cerca di comprendere, te ne prego, quali cose mi scuotano.

Mi auguro e spero che tu le accoglierai con la stessa disposizione d'animo con cui le dico.

D'altro canto Dio, che conosce i segreti della mia coscienza, sa che non c'è affatto malafede in quello che dico, ma, come penso che si debba ammettere, soltanto il desiderio di rendere manifesta la verità.

È questo il solo scopo al quale già da lungo tempo e con straordinaria sollecitudine abbiamo consacrato la vita, perché non avvenga che, mentre è stata per me cosa molto facile condividere con voi i peccati, sia invece cosa molto difficile, per non usare un'espressione più dura, seguire con voi la giusta via.

Ma oso credere che anche in questa speranza, con la quale spero che voi troviate con me la via della sapienza, non mi abbandoni colui al quale mi sono consacrato: giorno e notte mi sforzo di contemplarlo e, poiché so di esserne incapace dal momento che, a causa dei miei peccati e della mia consuetudine di vita, ho ancora l'occhio dell'anima ferito dai colpi delle mie antiche opinioni, spesso unisco le lacrime alle mie preghiere.

E come gli occhi che sono restati a lungo senza vedere, nell'oscurità, appena aperti rifiutano ancora la luce, che tuttavia desiderano, battendo le palpebre e volgendo lo sguardo altrove, soprattutto se qualcuno cerca di far loro guardare il sole, così accade ora a me: non nego che esista per l'anima un bene ineffabile ed unico che la mente può percepire, tuttavia confesso piangendo e gemendo di non essere ancora capace di contemplarlo.

Egli, dunque, non mi abbandona se sono sincero, se mi faccio guidare dal dovere, se amo la verità, se coltivo l'amicizia, se faccio buona guardia perché non sbagli.

3.5 - I quattro modi di interpretare la Scrittura

Tutta la Scrittura, chiamata Vecchio Testamento, viene tramandata a coloro che si dedicano con zelo a conoscerla secondo quattro modi di intenderla: secondo la storia, l'eziologia, l'analogia, l'allegoria.

Non giudicarmi uno sprovveduto se mi servo di nomi greci.

Innanzitutto è così che li ho appresi e non voglio farteli conoscere diversamente da come li ho appresi.

Poi, tu stesso ti rendi conto che nella nostra lingua non ci sono termini per queste cose: se li formassi ricorrendo alla traduzione, di certo sarei ancora più sprovveduto; se invece mi servissi di circonlocuzioni, la mia esposizione sarebbe meno scorrevole.

Ti prego soltanto di credere che, quale che sia il mio errore, non è affatto compiuto da me per orgoglio e presunzione.

Dunque, si tramanda secondo la storia quando si insegna ciò che è stato scritto o realizzato; e ciò che non è stato realizzato, ma soltanto scritto, è come se fosse stato realizzato.

Si tramanda secondo l'eziologia quando si espone da quale causa una cosa sia stata prodotta o detta; secondo l'analogia quando si dimostra che i due Testamenti, l'Antico e il Nuovo, non sono in contrasto; secondo l'allegoria quando si insegna che, delle cose scritte, alcune non devono essere prese alla lettera, ma vanno intese in modo figurato.

3.6 - Il modo storico e il modo eziologico

Di tutti questi modi si sono serviti il nostro Signore Gesù Cristo e gli Apostoli.

Infatti si servì del modo storico per rispondere quando gli fu obiettato che i suoi discepoli avevano colto le spighe di grano in giorno di sabato: Non avete letto cosa fece David quando ebbe fame insieme ai suoi compagni, come entrò nella casa di Dio e mangiò i pani dell'offerta, che non era consentito mangiare né a lui né ai suoi compagni, ma ai sacerdoti soltanto? ( Mt 12,3-4 )

Rientra di certo nel modo eziologico ciò che Cristo rispose quando proibì di ripudiare la moglie, eccetto che per adulterio, e i suoi interlocutori gli replicarono che Mosè aveva concesso questa possibilità mediante il divorzio: Mosè fece ciò per la durezza del vostro cuore. ( Mt 19,8 )

Questo è infatti il motivo per cui Mosè, in rapporto al momento storico, fece bene ad autorizzarlo: il precetto di Cristo appunto lasciava intendere che ormai i tempi erano cambiati.

Ma sarebbe troppo lungo spiegare questa successione dei tempi e il suo ordine, predisposto e regolato come da un mirabile piano della divina Provvidenza.

3.7 - Il modo analogico

Per quanto concerne l'analogia, con la quale si scopre la congruenza che c'è tra i due Testamenti, perché dovrei dire che se ne sono serviti tutti coloro alla cui autorità essi si rimettono, quando potrebbero considerare da soli le tante integrazioni che, a loro avviso, sono state inserite nelle Sacre Scritture da non identificati corruttori della verità?

Questo argomento invero mi era sempre sembrato molto debole, anche quando ero loro discepolo: e non a me soltanto, ma anche a te ( infatti me ne ricordo bene ), e a noi tutti che nel giudicare ci sforzavamo di operare con un po' più di scrupolosità della gran massa dei credenti.

Ora, però, mi sono state esposte e chiarite molte delle difficoltà che mi turbavano moltissimo - quelle cioè nelle quali la maggior parte di loro eccelle e in cui i loro discorsi tanto più estesamente si sbizzarriscono quanto più sicuramente non hanno avversari -; ebbene niente mi sembra più impudente da parte loro o, per parlare in modo più benevolo, più avventato e privo di fondamento del dire che le Sacre Scritture hanno subito alterazioni, dal momento che non esiste nella nostra epoca, che pure è così vicina, alcun testo che consenta di confermarlo.

Se, infatti, dicessero di non aver ritenuto di doverle accettare interamente, perché scritte da uomini che non reputano che abbiano scritto la verità, il loro tergiversare sarebbe in qualche modo più fondato o il loro errore più umano.

Così infatti fecero a proposito di quel libro intitolato Atti degli Apostoli.

Ma di questa loro decisione, ogni volta che vi rifletto, non mi stupisco mai abbastanza, poiché, relativamente a tale questione, avverto non già la mancanza di sapienza umana, ma di un po' di buon senso.

Questo libro, infatti, contiene tante cose simili a quelle che essi accettano, che mi pare una grande stoltezza sia il non accettarlo sia, se vi è qualcosa che ne urta la sensibilità, il dire che è falso e che è stato interpolato.

O, se è impudente parlare in questo modo, come in effetti lo è, perché nelle epistole di Paolo, nei quattro libri del Vangelo attribuiscono qualche valore a pagine nelle quali forse le cose che vogliono far credere introdotte dai falsificatori sono molte di più, in proporzione, di quelle che hanno potuto essere in quel libro?

Ma di certo il fatto sta come a me sembra, e ti chiedo di considerarlo insieme a me con molta tranquillità e serenità di spirito.

Sai infatti che i Manichei, nel tentativo di includere la persona del loro fondatore nel numero degli Apostoli, dicono che lo Spirito Santo, che il Signore promise di inviare ai discepoli, è venuto a noi per mezzo di lui.

Pertanto, se ammettessero gli Atti degli Apostoli, nei quali la venuta dello Spirito Santo è annunziata in modo evidente, ( At 2,2-4 ) non avrebbero più argomenti per dire che si tratta di un'interpolazione.

Pretendono, infatti, di sostenere che sono esistiti non meglio identificati falsificatori dei libri divini prima del tempo dello stesso Mani, e che quest'opera di alterazione è stata compiuta da coloro che desideravano fare una sola cosa della legge dei Giudei e del Vangelo.

Ma dello Spirito Santo non possono dire ciò, a meno che, per caso, non intendano sostenere che costoro predissero il futuro, mettendo nei loro libri ciò che un giorno si sarebbe obiettato a Mani, che non era ancora venuto e che avrebbe professato di essere l'intermediario attraverso il quale lo Spirito Santo è stato inviato.

Ma della verità sullo Spirito Santo parleremo in maniera più chiara un'altra volta; per ora torniamo a quello che era il mio intento.

3.8 - Allegoria

Si è abbastanza dimostrato, come penso, che sia la storia del Vecchio Testamento sia l'eziologia sia l'analogia si ritrovano nel Nuovo Testamento; resta ora da mostrare la stessa cosa per l'allegoria.

Il nostro stesso Liberatore nel Vangelo si serve di un'allegoria presa dal Vecchio Testamento: Questa generazione, egli disse, chiede un segno!

Ma non le sarà dato altro segno che quello del profeta Giona.

Come, infatti, Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre della balena, ( Gn 2,1 ) così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. ( Mt 12,39-40 )

Che dire poi dell'apostolo Paolo che, nella Prima lettera ai Corinzi, fa sapere che la storia stessa dell'Esodo era un'allegoria del futuro popolo cristiano?

Non voglio, infatti, che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale.

Bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo.

Ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto.

Ora, questi fatti avvennero come esempi per noi, affinché non nutrissimo cattive aspirazioni, come le ebbero loro.

Non diventiamo idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: "Il popolo si sedette per mangiare e bere, poi si alzò per divertirsi". ( Es 32,6 )

Non abbandoniamoci alla fornicazione, come vi si abbandonarono alcuni di essi e ne caddero ventitremila in un solo giorno.

Non mettiamo alla prova Cristo, come fecero alcuni di loro e caddero vittime dei serpenti.

Non mormoriamo, come mormorarono alcuni di loro e caddero vittime dello sterminatore.

Tutte queste cose però accaddero loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è giunta la pienezza dei tempi. ( 1 Cor 10,1-11 )

Vi è ancora un'allegoria presso l'Apostolo, quanto mai pertinente per la nostra questione, poiché i Manichei avevano l'abitudine di proferirla e farla valere nella discussione.

Proprio Paolo infatti dice ai Galati: Sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera.

Ma quello avuto dalla schiava è nato secondo la carne; invece quello avuto dalla donna libera è nato in virtù della promessa.

Ora, tali cose sono dette in senso allegorico; le due donne infatti rappresentano le due Alleanze: una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar ( il Sinai è un monte dell'Arabia che confina con l'odierna Gerusalemme, la quale è schiava insieme ai suoi figli ); invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di noi tutti. ( Gal 4,22-26 )

3.9 - La necessità della legge per tutti coloro ai quali è ancora utile la servitù

Su questo punto quegli uomini, malvagi oltre misura, mentre tentano di invalidare la legge, ci portano ad approvare le Scritture.

Prestano attenzione infatti a ciò che fu detto, ossia che coloro che sono sotto la legge sono in schiavitù, e sventolano sopra ogni altra quest'ultima sentenza: Non avete più nulla a che fare con Cristo, voi che cercate la giustificazione nella legge; avete perduto la grazia. ( Gal 5,4 )

Noi ammettiamo la verità di tutte queste cose, e proclamiamo la necessità di quella legge per tutti coloro ai quali è ancora utile la servitù: diciamo, pertanto, che è stata utilmente promulgata proprio perché gli uomini, che non era stato possibile distogliere dal peccato con la ragione, vi dovevano essere costretti da tale legge, cioè dalla minaccia e dalla paura di pene che persino gli stolti possono capire.

E la grazia di Cristo, quando ci libera da tali pene, non condanna la legge, ma ci invita a sottometterci finalmente alla sua carità e a non essere più schiavi per timore della legge. ( 1 Gv 5,3 )

Proprio in questo consiste la grazia, vale a dire il beneficio la cui provenienza da Dio sfugge a coloro che vogliono ancora restare sotto i vincoli della legge.

A ragione Paolo rimprovera questi uomini come infedeli, perché non credono di essersi ormai liberati, per la mediazione del Signore nostro Gesù, dalla schiavitù a cui, in una determinata epoca, erano stati sottoposti da una giustissima disposizione di Dio.

Di qui la sentenza dello stesso Apostolo: La legge era il nostro pedagogo per condurci a Cristo. ( Gal 3,24 )

Colui dunque che ha dato agli uomini un pedagogo da temere, poi ha dato loro un maestro da amare.

Tuttavia in questi precetti e comandi della legge, che ai cristiani non è più consentito di rispettare, come l'osservanza del sabato, la circoncisione, i sacrifici e altre cose simili, sono contenuti misteri così grandi che ogni uomo pio comprende che nulla è più pericoloso del prendere alla lettera, cioè parola per parola, ciò che vi è esposto, e che nulla invece è più salutare del coglierne lo spirito.

Da qui il detto: La lettera uccide, mentre lo spirito dà la vita; ( 2 Cor 3,6 ) e, ancora: Quel medesimo velo permane, e non è rimosso, alla lettura del Vecchio Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. ( 2 Cor 3,14 )

In Cristo appunto non è il Vecchio Testamento che viene eliminato, ma il suo velo perché, per mezzo di Cristo, si comprenda e, per così dire, venga reso manifesto ciò che, senza Cristo, resterebbe oscuro e coperto.

Subito infatti lo stesso Apostolo aggiunge: Ma quando si convertirà a Cristo, quel velo sarà tolto; ( 2 Cor 3,16 ) e non dice: sarà tolta la legge o il Vecchio Testamento.

Mediante la grazia divina, dunque, non sono essi ad essere tolti via come se ricoprissero cose inutili, ma piuttosto la copertura con cui essi ricoprono cose utili.

Così avviene con coloro che ricercano il senso di quelle Scritture con zelo e pietà e non in modo confuso e perverso: si mostrano loro sollecitamente l'ordine delle cose, le cause dei fatti e delle parole e una tale congruenza tra l'Antico e il Nuovo Testamento che in nessun dettaglio essi risultano discordanti; inoltre si mostrano i significati nascosti delle allegorie, i quali sono così grandi che quanti ne diventano chiari con l'interpretazione costringono a riconoscere la meschinità di coloro che vogliono condannarli prima ancora di conoscerli.

4.10 - Tre errori di interpretazione

Ma, lasciando per ora da parte la scienza e le sue profondità, tratterò con te come credo che si debba trattare con un amico, ossia come ne sono capace e non come ho visto, pieno di ammirazione, che possono fare gli uomini dottissimi.

Tre sono i generi di errori in cui cadono gli uomini quando leggono qualcosa.

Li esporrò ad uno ad uno.

Il primo genere si ha quando si giudica vero ciò che è falso, sebbene questo non fosse il pensiero dell'autore.

Il secondo - che, pur non essendo molto diffuso, non per questo è meno pericoloso - si verifica quando si giudica vero ciò che è falso e questo giudizio è identico a quello dell'autore.

Il terzo genere capita quando dallo scritto di un altro si comprende qualcosa di vero che l'autore stesso non aveva compreso.

In questo genere il vantaggio non è poco; anzi, se lo consideri con maggior diligenza, noti che tutto il frutto del leggere è salvo.

Si ha un errore del primo genere se qualcuno, per esempio, dica e creda, per averlo letto nel poema di Virgilio,2 che Radamanto, presso gli inferi, ascolta e giudica le cause dei morti.

Costui infatti sbaglia per due motivi: perché crede a una cosa che non merita di essere creduta e perché non ha motivo di pensare che l'autore vi abbia creduto.

Il secondo genere di errore può essere visto nel caso in cui qualcuno, poiché Lucrezio scrive che l'anima è costituita di atomi e, dopo la morte, si dissolve negli stessi atomi e scompare, lo ritiene vero e lo reputa meritevole di essere creduto.

Anche costui infatti non è meno misero, se su una questione così importante si è persuaso della certezza di ciò che è falso, benché tale sia l'opinione di Lucrezio, dai cui libri è stato ingannato.

Che giova infatti a costui l'essere certo dell'opinione dell'autore, quando se l'era scelto non per garantirsi dall'errare per mezzo suo ma per errare con lui?

Al terzo genere è adatto l'esempio di qualcuno che, avendo letto nei libri di Epicuro qualche passo dove fa l'elogio della continenza, sostiene che questo filosofo ha riposto il sommo bene nella virtù e perciò non è da biasimare.

Quale danno, infatti, può provocare a costui l'errore di Epicuro, il quale crede che il piacere del corpo sia il sommo bene dell'uomo, dal momento che egli non ha aderito a questa opinione così turpe e pericolosa, ed Epicuro gli piace semplicemente perché non ritiene che egli abbia sostenuto idee che non è opportuno sostenere?

Questo errore non solo è umano, ma spesso è anche il più degno per l'uomo.

Supponiamo che mi venisse riferito di qualcuno che amo che abbia dichiarato in presenza di molti ascoltatori che, sebbene abbia già la barba, la fanciullezza e l'infanzia gli piacciono tanto da risolversi, con giuramento, a vivere in questo modo e che ciò mi fosse provato al punto che sarebbe sfrontato da parte mia negarlo; in tal caso sembrerei forse da rimproverare se pensassi che, con questa dichiarazione, aveva voluto significare che gli piaceva l'innocenza e il cuore non contaminato da quelle cupidigie che travolgono il genere umano e per questo motivo lo amassi molto più di quanto lo amavo prima, anche se lui, forse, negli anni della giovinezza, come uno stolto, si è fatto prendere dall'amore per questa libertà nel giocare e nel mangiare, e per l'ozio indolente?

Supponi poi che egli sia morto dopo che queste notizie mi furono riferite, e che non abbia potuto interrogarlo in modo da fargli manifestare il suo pensiero; ci sarebbe forse qualcuno così perverso da adirarsi contro di me, qualora lodassi il proposito e la volontà dell'uomo proprio in base alle parole che mi erano state riferite?

Di più, anche chi giudica in modo giusto tutte le cose forse esiterebbe a lodare la mia opinione e la mia volontà, qualora mi piacesse l'innocenza e, in un caso dubbioso, io uomo esprimessi un apprezzamento piuttosto favorevole su di un uomo, benché mi sia anche consentito di esprimerne uno sfavorevole?

5.11 - Tre differenti tipi di scritti

Alla luce di quanto detto, fai attenzione ad altrettante connessioni e differenze che ci sono tra le stesse opere degli scrittori.

È necessario appunto che vi sia corrispondenza.

Infatti, o qualcuno ha scritto qualcosa di utile, ma non è stato compreso in modo utile da un altro, oppure sono state fatte entrambe le cose, ma inutilmente; oppure chi legge comprende in modo utile, mentre chi viene letto ha scritto in senso diverso.

Non ho nulla da obiettare nei confronti del primo di questi tre casi e non mi occupo dell'ultimo; infatti né posso biasimare l'uomo che, senza alcuna sua colpa, è stato male compreso, né posso provare contrarietà che venga letto chi non ha visto il vero, se vedo che la cosa non comporta alcun danno per i suoi lettori.

Vi è dunque un solo genere eccellente e, per così dire, completamente libero da impurità: è quello in cui anche gli scritti sono buoni e sono presi in senso buono da chi legge.

Tuttavia, anche questo genere si divide in due parti; infatti non escludo del tutto l'errore.

Di solito appunto capita che, quando lo scrittore ha pensato in modo giusto, anche il lettore pensa in modo giusto, ma diversamente da lui: alcune volte in modo migliore, altre in modo peggiore, tuttavia sempre in modo utile.

Quando invece il nostro pensiero coincide con quello dell'autore del libro - e questo è il caso più adatto per vivere bene - la verità è al suo grado più alto, né, d'altro canto, c'è spazio per la falsità.

Il genere in cui la lettura concerne questioni molto oscure è senz'altro assai raro; ed esso, a mio avviso, non può esser conosciuto con piena certezza, ma può essere solo creduto.

Attraverso quali indizi, appunto, potrei ricostruire la volontà di un uomo assente o morto in modo da poterci giurare sopra, dal momento che, anche se fosse interrogato quando è presente, forse sarebbero molte le cose che nasconderebbe per ragioni di dovere, pur non essendo malvagio?

Del resto, non credo che per conoscere una cosa abbia valore alcuno sapere chi sia stato colui che l'ha scritta, ancorché sia cosa molto onorevole ritenere buono colui che, con i suoi scritti, si è reso utile al genere umano e alla sua posterità.

5.12 - In quale genere i Manichei collocano l'errore che attribuiscono alla Chiesa cattolica

Vorrei dunque che i Manichei mi dicano in quale genere collocano l'errore che attribuiscono alla Chiesa cattolica.

Se appartiene al primo, l'accusa di certo sarebbe grave, ma non richiederebbe una lunga difesa: è sufficiente infatti escludere che noi intendiamo le cose come essi le pensano quando si scagliano contro di noi.

Se appartiene al secondo, l'accusa non è meno grave; ma si può ribattere loro con la medesima argomentazione.

Se rientra nel terzo, non vi è alcuna accusa.

Sta bene e considera le Scritture stesse.

Che cosa infatti obiettano ai libri del cosiddetto Vecchio Testamento?

Forse che sono buoni, ma noi li comprendiamo male? Ma sono proprio loro che non li ammettono!

O forse che non sono né buoni né ben compresi? Ma la precedente difesa confuta questa obiezione in modo sufficiente.

O forse essi dicono: sebbene siano compresi in modo retto, tuttavia sono cattivi?

E che altro è questo se non assolvere gli avversari ancora in vita, con i quali si discute, e accusare quelli morti da molto tempo, con i quali non vi è alcuna contesa?

Da parte mia credo che quegli scrittori abbiano fatto opera utile nel consegnare alla memoria tutti quei fatti e che siano stati grandi e ispirati; credo anche che quella legge sia stata promulgata ed istituita per ordine e volontà di Dio.

E io, malgrado sia molto poco esperto di questo genere di libri, posso tuttavia facilmente convincere chi si rivolge a me, purché lo faccia con animo retto e niente affatto ostinato.

E così farò, quando mi accorderai la benevola disponibilità delle tue orecchie e della tua mente; ma lo farò quando potrò.

Per ora, comunque la questione proceda, non è forse sufficiente per me non essere stato ingannato?

6.13 - Contro l'interpretazione degli avversari delle Scritture

Chiamo a testimonio, o Onorato, la mia coscienza e Dio che abita nei cuori puri, del fatto che non giudico nulla più saggio, più virtuoso, più religioso dell'insieme di quelle Scritture, che la Chiesa cattolica conserva con il nome di Vecchio Testamento.

Ciò ti meraviglia, lo so; non posso infatti nascondere che ci eravamo formati ben altre convinzioni.

Ma, senza dubbio, non c'è niente di più temerario ( e noi allora, come veri bambini, lo siamo stati ) del non tener conto degli interpreti di un libro, i quali professano di conoscerlo bene e di poterlo trasmettere ai loro discepoli, e di chiederne il senso a coloro che, indotti da non so qual motivo, hanno dichiarato una guerra durissima contro coloro che li hanno composti e scritti.

Per parlare di quelle discipline nelle quali forse il lettore può cadere in errore senza sacrilegio, chi ha mai pensato di farsi spiegare i libri inaccessibili ed oscuri di Aristotele dal suo avversario?

E ancora: chi, per leggere o studiare i trattati di geometria di Archimede, ha preso per maestro Epicuro che vi dissertava contro con molta ostinazione, senza peraltro capirci niente, per quanto credo?

Sono forse chiarissimi questi libri della legge, contro i quali costoro danno l'assalto - invero senza alcun profitto - come se fossero accessibili a tutti?

Essi mi sembrano simili a quella donnicciola che sono soliti deridere: adirata perché una donna manichea le lodava il sole e le raccomandava di adorarlo, ella, nella semplicità della sua religiosità, saltò su con impeto e, percuotendo ripetutamente con il piede il luogo illuminato dal sole attraverso la finestra, cominciò a gridare in modo del tutto stolto e - chi lo nega? - da donnicciola: " Ecco io calpesto il sole e il tuo dio ".

Non ti sembra che siano come lei coloro che ritengono di giovare a qualcosa, perché persone sprovvedute li applaudono, quando screditano con discorsi pieni di impeto e con ingiurie scritti di cui non conoscono o la ragion d'essere o, in generale, il carattere, libri che, sebbene simili a quelli alla portata di tutti, tuttavia sono penetranti e divini per chi li sa comprendere?

Quanto c'è in quelle Scritture, credimi, è profondo e divino: vi si trova la pura verità e una dottrina adattissima a ricreare e a rinnovare gli animi e così chiaramente predisposta che non c'è nessuno che non possa trarne ciò che gli è sufficiente, purché vi si accosti con devozione e pietà, come richiede la vera religione.

Per provartelo sarebbero necessari molti argomenti e un discorso più lungo.

Con te, infatti, dapprima bisogna far sì che non odî quegli autori, poi che li ami; e a tale scopo si deve ricorrere a qualsiasi altro mezzo piuttosto che esporre il loro pensiero e i loro scritti.

Perché, se avessimo detestato Virgilio, anzi, se non lo avessimo amato prima di averlo capito, come raccomandavano i nostri padri, per noi non ci sarebbero mai state risposte soddisfacenti intorno a quelle innumerevoli questioni che il suo testo pone e per le quali sono soliti turbarsi e agitarsi i grammatici, né avremmo ascoltato volentieri coloro che, lodandolo, le risolvevano; invece avremmo rivolto il nostro favore a coloro che, attraverso tali questioni, avessero cercato di dimostrare che egli ha sbagliato e delirato.

Ora, però, essendo molti - e ciascuno in modo diverso, in relazione alla sua capacità intellettuale - coloro che si adoperano per risolverle, di preferenza si applaudono coloro che, mediante la loro interpretazione, mettono in miglior luce il poeta, del quale persino quelli che non lo capiscono credono non solo che non abbia commesso errori, ma anche che sia degno di lode tutto ciò che ha composto.

Pertanto, quando in una questione di poco conto il commentatore si smarrisce e non sa cosa rispondere, ce la prendiamo con lui anziché pensare che il suo silenzio dipenda da un difetto di Virgilio.

E qualora, a sua difesa, volesse attribuire l'errore ad un autore di tanto prestigio, a malapena i suoi discepoli rimarranno presso di lui, anche se fossero pagati.

Quanto era importante che dimostrassimo una simile benevolenza per gli autori mediante i quali una così lunga tradizione ci conferma che lo Spirito Santo ha parlato?

Ma naturalmente noi, giovani intelligentissimi e straordinari ricercatori di ragioni, senza neppure sfogliare quegli scritti, senza cercare i maestri, senza incolpare affatto la nostra ottusità e, infine, senza concedere intelligenza, sia pur modesta, a coloro che vollero per così lungo tempo che questi scritti fossero letti, conservati ed esaminati su tutta la terra, giudicammo, in quanto eravamo suggestionati dalle parole di coloro che gli sono nemici ed ostili, che presso di essi non c'era nulla da credere, mentre presso questi, a causa di una falsa promessa di razionalità, eravamo spinti a credere e a onorare migliaia di incredibili favole.

7.14 - Il cammino della vera religione

Ma ora, se mi è possibile, vorrei completare ciò che mi sono riproposto: procederò in modo da non renderti manifesta, per ora, la fede cattolica, ma da mostrare a coloro che hanno cura delle proprie anime la speranza del frutto divino e della scoperta della verità, perché cerchino poi di penetrare i grandi misteri di questa fede.

Nessuno dubita che chi cerca la vera religione o già crede che l'anima, a cui tale religione giova, sia immortale oppure aspira a trovare questa verità nella stessa vera religione.

Ogni religione, pertanto, è per l'anima; la natura del corpo infatti, quale che sia, non suscita né preoccupazione né inquietudine, soprattutto dopo la morte, in colui la cui anima abbia raggiunto ciò che la rende beata.

La vera religione dunque, se una ne esiste, è stata istituita soltanto o soprattutto per l'anima.

Ma quest'anima ( ne esaminerò la ragione e, confesso, è una questione molto oscura ) tuttavia erra e, come constatiamo, è stolta fino a che non raggiunge la sapienza e ne viene in possesso, e forse in questo consiste la vera religione.

Ti rimando a delle favole? Ti obbligo a credere a qualcosa di sconsiderato?

Dico che la nostra anima, prigioniera e immersa nell'errore e nella stoltezza, cerca la via, se c'è, della verità.

Se questo in te non avviene, perdonami e rendimi partecipe, di grazia, della tua sapienza: se invece riconosci in te ciò che io dico, ti scongiuro, cerchiamo insieme la verità.

7.15 - Dovremo cercare coloro che insegnano la vera religione

Supponi che non abbiamo ancora udito nessuno parlare di religione; in tal caso è per noi una cosa nuova della quale ci assumiamo l'impegno.

Dovremo cercare, credo, coloro che insegnano questa cosa, se ve ne sono.

Supponi che ne abbiamo trovati alcuni di un'opinione ed altri di un'altra e che, data la diversità delle opinioni, ciascuno aspiri a portare gli altri dalla sua parte; e fra di essi alcuni eccellano per la grande fama di cui per ora godono e per la posizione raggiunta presso quasi tutti i popoli.

Il grande problema è se essi posseggono il vero; tuttavia, non sono forse essi che devono essere esaminati per primi in modo che, per tutto il tempo che erriamo in quanto siamo uomini, risulti che erriamo insieme a tutto il genere umano?

7.16 - Contro chi obietta che la verità è di pochi

Ma tu mi dirai che sono pochi gli uomini che possiedono la verità.

Pertanto, se sai chi la possiede, tu sai già in cosa essa consista.

Non avevo forse detto poco fa che l'avremmo ricercata come persone che nulla sanno di essa?

Ma se tu presumi che pochi posseggano la verità, data la sua natura, non sai però chi essi siano; e cosa penseresti se i pochi che possiedono il vero sono tali da imporre la loro autorità ad una moltitudine, dalla quale un piccolo numero potrebbe trarsi fuori per dedicarsi a questi misteri e, per così dire, far luce?

Non vediamo forse quanto pochi sono coloro che raggiungono le vette dell'eloquenza, quantunque per tutto il mondo le scuole di retori strepitino per le schiere dei giovani?

È forse per caso che tutti coloro che vogliono diventare buoni oratori, spaventati dal gran numero degli incompetenti, ritengono di dover conseguire quest'obiettivo con i discorsi di Cecilio e di Ermio piuttosto che di Cicerone?

Tutti mirano a ciò che è garantito dall'autorità degli antichi.

Masse di incompetenti cercano di imparare le medesime cose che pochi dotti hanno riconosciuto degne di essere imparate; molto pochi però sono coloro che vi pervengono, meno ancora quelli che le mettono in pratica e pochissimi coloro che vi diventano illustri.

E che dire se qualcosa di simile avvenisse per la vera religione?

E se la moltitudine degli incompetenti frequentasse le chiese, anche se non vi sono prove che qualcuno sia stato reso perfetto da quei misteri?

E tuttavia, se a studiare l'eloquenza fossero tanto pochi quanti sono i buoni oratori, mai i nostri genitori avrebbero pensato di affidarci ai maestri di quest'arte.

Dal momento dunque che fu una moltitudine, composta in prevalenza di incompetenti, a spingerci verso questi studi e a farci amare ciò che pochi sono capaci di raggiungere, perché non vogliamo ammettere che per noi è simile la causa in materia di religione e che forse la disprezziamo con grande rischio per l'anima?

Se infatti il culto più vero e più puro di Dio, benché sia di pochi, tuttavia è di coloro dei quali la moltitudine, per quanto immersa nelle passioni e lontana dalla purezza dell'intelligenza, condivide l'opinione ( e chi dubiterebbe che ciò sia possibile? ), ti chiedo: che cosa possiamo rispondere a chi ci accusa di sconsideratezza e di incongruenza per il fatto che non ricerchiamo con diligenza, presso i loro maestri, la religione che ci sta molto a cuore di scoprire?

Che la moltitudine ce ne ha distolti?

Ma perché dallo studio delle arti liberali, che a malapena portano qualche beneficio alla vita presente, perché dal cercare denaro, dall'ottenere onori, dal procurare e conservare la buona salute e, infine, perché dalla brama stessa della vita beata, cose nelle quali tutti sono impegnati ma pochi eccellono, nessuna moltitudine ci ha mai distolto?

7.17 - Ad Onorato è sembrato che nelle Scritture si dicessero cose assurde

Ma sembrava che lì si dicessero cose assurde.

Chi le diceva? Dei nemici, naturalmente; per un motivo qualsiasi, per una ragione qualsiasi: non è questo infatti che ora si cerca.

Tuttavia dei nemici. Leggendo, me ne sono reso conto da solo.

Proprio così? Del tutto incompetente nella disciplina poetica, non oseresti affrontare Terenziano Mauro senza un maestro.

Bisogna ricorrere ad Aspro, Cerruto, Donato e moltissimi altri per comprendere un poeta, quale che sia, i cui versi sembra anche che vogliano ottenere gli applausi del teatro.

Tu invece ti getti senza alcuna guida su quei Libri che, quali che siano, sono conosciuti come santi e pieni di cose divine, per ammissione di quasi tutto il genere umano e, senza precettore, osi esprimere su di essi un giudizio.

E, se ti capitano passi che sembrano assurdi, non accusi l'ottusità del tuo intelletto e il tuo spirito putrefatto dalla melma di questo mondo, come è quello di tutti gli stolti, ma piuttosto i Libri che per tali uomini forse sono incomprensibili.

Avresti dovuto cercare un uomo ad un tempo pio e sapiente, o che molti concordano nel reputare tale: con i suoi precetti saresti divenuto migliore e con la sua dottrina più esperto.

Non era facile trovarlo? Bisognava cercarlo con ogni sforzo.

Non c'era nella terra in cui abitavi? Quale motivo più conveniente per costringerti a viaggiare?

Era sconosciuto o non esisteva affatto nel continente? Bisognava mettersi in mare.

E se, al di là del mare, non si trovava in una località vicina, dovevi andare in quelle regioni nelle quali si dice che si sono svolti gli avvenimenti contenuti in quei Libri.

Che cosa abbiamo fatto di tal genere, Onorato?

E tuttavia noi, da fanciulli sciagurati, secondo il nostro arbitrario giudizio, abbiamo condannato forse la più santa delle religioni ( ne parlo come se si dovesse ancora dubitarne ), la cui fama ormai si è impadronita di tutta la terra.

E se quei passi, che sembrano urtare alcuni incompetenti, fossero stati posti nelle stesse Scritture per far sì che, leggendo cose che discordano col modo di sentire di qualsiasi uomo e, ancor più, di chi è saggio e santo, ne cerchiamo con molto più zelo il significato nascosto?

Non vedi come gli uomini tentino di interpretare il Catamito delle Bucoliche, per il quale il rude pastore perdette la testa, e come affermino che il giovane Alessi, per il quale si dice che Platone abbia composto anche un carme amatorio, significhi non so che di grande, ma che sfugge al giudizio degli incompetenti, mentre si potrebbe pensare, senza alcun sacrilegio, che un poeta assai facondo abbia composto piccoli componimenti libidinosi?

7.18 - Tutte le leggi divine ed umane autorizzano a ricercare la fede cattolica

Ma era davvero la sanzione di qualche legge o l'autorevolezza degli avversari o la bassa condizione degli iniziati o la loro cattiva reputazione o la novità della dottrina o la sua segreta professione che ci distoglieva e ci vietava la ricerca?

Niente di tutto ciò. Tutte le leggi divine ed umane autorizzano a ricercare la fede cattolica; abbracciarla e praticarla invece, mentre è indubbiamente lecito per la legge umana, non è certo che lo sia, finché erriamo allontanandoci da quella divina.

Nessuno dei nemici spaventa la nostra debolezza ( d'altro canto la verità e la salvezza dell'anima, se non sono state trovate, benché diligentemente cercate in condizioni di assoluta sicurezza, debbono essere cercate a qualsiasi rischio ).

Le autorità e le magistrature di ogni grado attendono con zelo a questo culto divino.

Il nome di questa religione è il più rispettato e illustre.

In conclusione, che cosa impedisce di cercare e discutere, mediante un'indagine onesta e assidua, se qui vi è ciò che inevitabilmente pochi uomini possono conoscere e custodire in modo ben chiaro, malgrado vi aspirino tutti i popoli con buona intenzione e disposizione d'animo?

7.19 - Senza alcun dubbio bisogna cominciare dalla Chiesa cattolica

Stando così le cose, supponi che, come ti ho detto, ora, per la prima volta, cerchiamo a quale religione affidare la purificazione e il rinnovamento delle nostre anime.

Senza alcun dubbio bisogna cominciare dalla Chiesa cattolica.

I cristiani infatti sono ormai più numerosi dei Giudei uniti agli adoratori di idoli.

D'altro canto, come tutti riconoscono, una sola è la Chiesa degli stessi cristiani, sebbene vi siano tra loro parecchi eretici e tutti vogliano presentarsi come cattolici chiamando eretici gli altri.

Questa Chiesa, se consideri il mondo intero, ha non solo più seguito di tutte quanto a moltitudine di persone, ma è anche, come affermano coloro che la conoscono, più pura di tutte quanto a verità.

Senza dubbio, in merito alla verità, la questione è un'altra; invece, ai fini della nostra ricerca, è sufficiente sapere che una sola è la Chiesa cattolica.

Le diverse sette eretiche le impongono nomi diversi, mentre esse hanno ciascuna una propria denominazione che non osano rifiutare.

Da ciò si può capire, se a giudicare sono uomini liberi da qualsiasi influenza, a chi sia da attribuire il nome di " cattolica ", al quale tutti ricorrono.

Ma perché nessuno ritenga che se ne debba discutere molto a lungo o inutilmente, di certo ne esiste una sola, nella quale le leggi stesse in qualche modo anche umane sono cristiane.

Da ciò non voglio che scaturisca alcun pregiudizio; ritengo però che sia un punto di partenza assai opportuno per la ricerca.

Non si deve, infatti, temere che il vero culto di Dio, del tutto sprovvisto di forza propria, appaia bisognoso del sostegno di coloro che esso deve sostenere.

Indubbiamente, la soluzione migliore sarebbe di poter trovare la verità lì dove la sua ricerca e il suo possesso sono assolutamente sicuri; ma se ciò non è possibile, allora ci si dovrà rivolgere altrove e cercarla a prezzo di qualsiasi rischio.

8.20 - L'itinerario personale di Agostino: dal manicheismo al cristianesimo

Stabilite queste premesse che, come credo, sono così giuste che presso di te dovrei vincere la disputa con qualsiasi avversario, ti indicherò, per quanto posso, il tipo di strada che ho seguito quando cercavo la vera religione con quella disposizione d'animo con la quale ho appena esposto che deve essere cercata.

Dunque, non appena me ne andai da voi al di là del mare, mi ritrovai indeciso ed esitante su che cosa dovessi tenere e che cosa abbandonare - indecisione che di giorno in giorno aumentava, da quando ho udito quell'uomo che, come tu sai, ci era stato promesso che sarebbe venuto quasi dal cielo a chiarirci tutto ciò che ci rendeva inquieti e nel quale invece, a parte una certa eloquenza, ho riconosciuto un uomo come tutti gli altri.

Una volta stabilitomi in Italia, mi misi a riflettere dentro di me e ad esaminare seriamente non già se restare in quella setta nella quale mi pentivo di essere capitato, ma in quale modo si dovesse cercare il vero, per il cui amore i miei sospiri a nessuno meglio che a te sono noti.

Spesso mi sembrava che fosse impossibile trovarlo e le grandi onde dei miei pensieri mi inducevano a favorire gli accademici.

Spesso invece, vedendo, per quanto potevo, la mente umana così vivace, così sagace, così perspicace, ritenevo che la verità le rimaneva nascosta soltanto perché non conosceva il modo secondo cui cercarla e che questo stesso modo doveva riceverlo da qualche autorità divina.

Restava da cercare quale mai fosse questa autorità, dal momento che, pur tra tanti dissensi, ciascuno prometteva di darla.

Dinanzi a me, dunque, si apriva un'inestricabile selva in cui appunto mi dispiaceva molto di essermi cacciato; e la mia anima si agitava senza alcuna quiete in mezzo a queste cose, spinta dal desiderio di trovare il vero.

Tuttavia, mi distaccavo sempre più da costoro che mi ero ormai proposto di abbandonare.

In mezzo a tanti pericoli non mi restava altro che implorare l'aiuto della divina Provvidenza con parole accompagnate da lacrime e lamenti, e lo facevo assiduamente.

Già alcune prediche del vescovo di Milano mi avevano indotto a desiderare, con qualche speranza, di fare ricerche su molte cose dello stesso Vecchio Testamento, nei confronti delle quali, come sai, avevamo forte avversione, essendoci state male presentate.

Avevo deciso di restare catecumeno nella Chiesa a cui i miei genitori mi avevano affidato fino a che non avessi trovato ciò che desideravo oppure non mi fossi convinto che non andava cercato.

Se ci fosse stato qualcuno capace di insegnarmi, allora mi avrebbe potuto trovare assai ben disposto e molto docile.

Se, dunque, scopri che anche tu da tempo ti trovi in questa condizione e provi la stessa sollecitudine per la tua anima, e se ti sembra di essere stato ormai abbastanza sbattuto qua e là e vuoi porre fine a questo genere di fatiche, segui la via dell'insegnamento cattolico, che da Cristo stesso, per mezzo degli Apostoli, si è diffusa fino a noi e da qui si estenderà alle generazioni future.

9.21 - La ragionevolezza del credere

È ridicolo, tu dirai, che tutti pretendono di possedere questo insegnamento e di trasmetterlo.

Lo pretendono tutti gli eretici, non posso negarlo, e con la promessa, a coloro che cercano di attrarre, di dar ragione delle cose più oscure.

Perciò lanciano accuse soprattutto contro la Chiesa cattolica, perché prescrive che credano coloro che vengono da lei; essi, invece, si vantano di non imporre il giogo della fede ma di aprire la fonte del sapere.

Ebbene, tu osserverai, che cosa si sarebbe potuto dire di più pertinente a loro lode? Ma non è così.

Essi, infatti, fanno ciò non perché siano provvisti di qualche forza, ma per tirare dalla loro parte una moltitudine di persone in nome della ragione.

Di questa promessa naturalmente l'anima umana gode e, senza tenere conto delle proprie forze e del proprio stato di salute, col desiderare i cibi dei sani che mal si adattano a chi non sta bene, precipita nei veleni dei suoi ingannatori.

In nessun modo, infatti, si può correttamente aderire alla vera religione senza credere a quelle cose che ciascuno poi, se si sarà ben comportato e ne sarà stato degno, raggiungerà e comprenderà, e senza sottomettersi al saldo potere di un'autorità.

9.22 - Enorme è la differenza fra chi è desideroso di apprendere e chi è studioso; enorme è anche la differenza fra il credente e il credulo

Ma forse anche di ciò cerchi di avere qualche motivo dal quale tu sia convinto che non devi essere istruito dalla ragione prima che dalla fede.

E può essere cosa facile, purché tu ti dimostri retto.

Ma perché avvenga in modo proficuo, voglio che tu risponda, per così dire, ad alcune mie domande.

In primo luogo, vorrei che mi dicessi perché ti sembra che non si debba credere.

Perché, tu dirai, la stessa credulità, dalla quale prendono nome i creduli, mi sembra che sia un vizio, altrimenti non avremmo l'abitudine di gettare in faccia questo nome come un oltraggio.

Se, infatti, il sospettoso è in difetto perché sospetta di ciò che non conosce con certezza, quanto più lo è il credulo che, a differenza del sospettoso, non ha dubbi sulle cose che non conosce, mentre il sospettoso ne ha.

Per ora accetto questa opinione e questa distinzione.

Tu sai, però, che abbiamo l'abitudine di chiamare " curioso " qualcuno con senso di biasimo, invece di chiamare " studioso " qualcuno con senso di approvazione.

Perciò, fai attenzione, se lo ritieni opportuno, a quale differenza ti sembra che ci sia fra queste due persone.

Di certo risponderai che, sebbene siano tutti e due mossi da un grande desiderio di conoscere, tuttavia il curioso ricerca le cose che non lo riguardano, invece lo studioso ricerca le cose che lo riguardano.

Ma poiché tutti ammettiamo che all'uomo interessano la moglie, i figli e la loro salute, se un marito, che sta lontano da casa, chiedesse con zelo a tutti quelli che incontra come stiano e come si comportino sua moglie e i suoi figli, certamente diremmo che è indotto a far ciò da un gran desiderio di conoscere; tuttavia non lo chiamiamo studioso, nonostante sia forte la sua voglia di sapere e concerna cose che lo riguardano massimamente.

Così ti rendi conto come la definizione data di studioso vacilli, perché, se è indubbio che ogni studioso vuole conoscere le cose che lo riguardano, non per questo ogni persona che agisce così deve essere chiamata studiosa, ma solo chi ricerca senza risparmio di energie le cose adatte per nutrire convenientemente l'animo ed ornarlo.

Ed allora il nome corretto è " desideroso di apprendere ", soprattutto se aggiungiamo che cosa aspira ad apprendere.

Lo possiamo chiamare anche " studioso dei suoi ", se ama soltanto i suoi: tuttavia, in mancanza di aggiunte, non lo riteniamo degno del nome comune di studioso.

Non chiamerei invece studioso di ascoltare chi è desideroso di ascoltare come stanno i suoi, a meno che, godendo di buona fama, non volesse ascoltare spesso la stessa cosa.

In verità, lo chiamerei desideroso di apprendere, anche se ascoltasse ciò una sola volta.

Ritorna ora con la mente al curioso e dimmi: se uno ascoltasse volentieri una storiella che non gli sarà affatto utile, ossia relativa a cose che non lo riguardano, e se il fatto accadesse non in maniera spiacevole e di frequente ma molto raramente e con grande discrezione, o in un banchetto o in qualche riunione o consesso, ti sembrerebbe forse un curioso?

Non credo; ma, di certo, lo sembrerebbe se si prendesse cura di ciò che ascolta volentieri.

Perciò, anche la definizione di curioso deve esser corretta secondo il criterio adottato per quella di studioso.

E, quindi, considera se non si devono correggere anche le definizioni precedenti: perché, infatti, dovrebbe meritare il nome di sospettoso chi sospetta talvolta qualcosa e il nome di credulo chi crede talvolta a qualcosa?

Dunque, come è enorme la differenza fra chi è desideroso di apprendere qualche cosa e chi è studioso in senso pieno e, ancora, fra chi ha cura di qualcosa e il curioso, così è enorme la differenza fra il credente e il credulo.

10.23 - La fede precede la riflessione critica

Ma ora vedi, tu dirai, se dobbiamo credere quando si tratta di religione.

In effetti, se ammettiamo che sono cose diverse il credere e l'essere credulo, non ne segue che non ci sia nessuna colpa a credere quando si tratta di religioni.

E che diresti se tanto il credere quanto l'esser credulo fossero viziosi, come lo sono l'essere ubriaco e l'essere ubriacone?

Chi ritiene ciò per certo mi sembra che non possa avere alcun amico.

Se, infatti, è turpe credere qualcosa, allora o credere ad un amico è un atto turpe, oppure non vedo come chi, non credendo affatto all'amico, possa ancora chiamare costui, o se stesso, amico.

A questo punto tu dirai: " Ammetto che talvolta si deve credere qualcosa; ma spiegami ora in che modo, in fatto di religione, non sia turpe credere prima di sapere ".

Lo farò, se potrò. Ti chiedo perciò: cosa ritieni più grave, in fatto di colpa, trasmettere la religione a un indegno oppure credere a ciò che dicono coloro che la trasmettono?

Se non ti è chiaro chi io chiami indegno, dico che è colui che si fa avanti con il cuore insincero.

Tu ammetti, io penso, che è colpa più grave svelare i santi misteri, se ve ne sono, a un tale uomo che credere a uomini religiosi che affermano qualcosa della religione stessa.

Di certo, non sarebbe stato degno di te rispondere diversamente.

Perciò immagina ora di avere davanti a te colui che sta per trasmetterti la religione: come riuscirai a rassicurarlo che ti fai avanti con animo sincero e che in te, per quanto attiene a questa cosa, non c'è nessun inganno e nessuna simulazione?

Dirai che, in tutta coscienza, tu non fingi nulla, sostenendolo con quante più parole potrai, ma pur sempre con parole!

Come uomo, infatti, non saresti in grado di aprire all'uomo i segreti del tuo cuore così da farti conoscere interiormente.

Ma se quello ti dicesse, "Ecco, ti credo; ma non è forse più giusto che anche tu creda a me, poiché, se possiedo qualcosa di vero, sei tu che stai per riceverne il beneficio, mentre io sto per dartelo?"; che cosa risponderai, se non che gli si deve credere?

10.24 - La fede è la via più salutare per esser capaci di comprendere la verità

Ma dirai: "Non era forse meglio che me ne avessi data la ragione, perché io la seguissi senza alcuna temerità dovunque essa mi conducesse?".

Forse lo era; ma poiché è una questione tanto grande per te conoscere Dio per via razionale, ritieni forse che tutti siano capaci di comprendere le ragioni mediante le quali la mente è condotta all'intelligenza di Dio, oppure un buon numero o pochi soltanto?

"Ritengo che sono pochi", tu affermerai.

"E pensi forse di far parte di costoro?". "Non spetta a me rispondere", dirai.

Tu, dunque, ritieni che spetti all'altro crederti anche su questo; cosa, appunto, che egli fa.

Ricordati soltanto che già per due volte egli ha creduto a te che dici cose incerte, mentre tu neppure per una volta sei disposto a credere a lui che pure ti ammonisce con grande diligenza.

Ma supponi che la cosa stia così: che tu ti faccia avanti con animo sincero per accogliere la religione e che faccia parte di quei pochi uomini, di modo che tu sia in grado di afferrare le ragioni mediante le quali la natura divina è conosciuta in modo certo.

E che? Ritieni che la religione debba essere preclusa agli altri uomini che sono privi di un'intelligenza così limpida?

Oppure che costoro debbano esser condotti passo dopo passo, come per gradi, a quei sommi misteri?

Tu vedi senza difficoltà quale atteggiamento sia più conforme alla religione, poiché è impossibile che tu pensi che un uomo, chiunque egli sia, in qualche modo venga lasciato nel desiderio di una cosa tanto grande oppure venga respinto.

Ma sei del parere che costui non riuscirà a possedere in altro modo le cose che sono assolutamente vere, se prima non crede che raggiungerà quanto si è proposto, se non presenta una mente supplice e se non si purifica con una ben determinata condotta di vita, sottomesso a certi precetti grandi e necessari?

Indubbiamente sei di questo parere.

E che, dunque, forse ne ricaveranno qualche danno coloro - dei quali credo che ormai faccia parte anche tu - che possono molto facilmente afferrare i misteri divini con sicura ragione, se vi arrivano per la stessa via di coloro che cominciano con il credere? Non penso.

Tuttavia, tu replichi, che bisogno c'è di farli attendere?

Perché, anche se di fatto non nuoceranno a se stessi, tuttavia nuoceranno agli altri con l'esempio.

È difficile trovare chi conosce esattamente le proprie capacità: ma chi si sottovaluta deve essere incoraggiato e chi si sopravvaluta deve essere moderato, in modo che l'uno non si abbatta per la disperazione e l'altro non vada in rovina per l'audacia.

Ciò può facilmente accadere se anche coloro che sono capaci di volare sono costretti a camminare per un po' su una strada sicura pure per gli altri, per evitare che siano un pericoloso allettamento per qualcuno.

È questa la provvidenza della vera religione; e questo è ciò che è stato comandato da Dio, tramandato dai felici antenati, conservato fino a noi: volerlo turbare o sconvolgere equivale a cercare la via sacrilega alla vera religione.

Coloro che si comportano così, neppure se si concede loro ciò che vogliono, possono arrivare dove si propongono di giungere.

Quale che sia l'ingegno per cui eccellono, essi strisciano per terra, se Dio non è con loro.

Ma Dio è con loro se, nel tendere a Lui, hanno a cuore la società umana: non si può trovare nulla di più sicuro di questo gradino per ascendere al cielo.

Da parte mia, invero, non ho alcunché da opporre a questo ragionamento; infatti, come posso pretendere che non si debba credere niente di cui non si ha conoscenza, quando l'amicizia non esisterebbe affatto se non si credesse qualcosa che è impossibile dimostrare con ragione sicura e dal momento che spesso si dà credito ai servi addetti alle dispense, senza colpa alcuna dei padroni?

In materia di religione, poi, che cosa si può compiere di più iniquo del fatto che i sacerdoti credono a noi che promettiamo loro l'animo sincero e ci rifiutiamo di credere a loro che ci insegnano?

Da ultimo, quale via può essere più salutare di quella di divenire prima di tutto capaci di comprendere la verità, confidando in quelle cose che Dio ha istituito per preparare e predisporre l'animo?

O, se ne avessi già la piena capacità, non sarebbe meglio per te fare un piccolo giro per trovare l'entrata più sicura, anziché metterti da solo in una situazione di pericolo ed essere esempio di temerità per gli altri?

11.25 - In che modo si debbano evitare coloro che promettono di condurci con la ragione

Perciò ci resta ormai da considerare in che modo si debbano evitare coloro che promettono di condurci con la ragione.

Si è già detto, infatti, come sia possibile seguire senza colpa coloro che ordinano di credere.

Quanto però al fatto di rivolgersi a coloro che si fanno garanti della ragione, alcuni pensano non solo che non sia da biasimare, ma addirittura che meriti qualche lode; ma non è così.

In materia di religione, infatti, meritano la lode due tipi di persone: quelle che hanno già trovato, che bisogna giudicare anche le più felici e quelle che cercano con il più grande ardore e con la massima rettitudine.

Le prime sono già nel pieno possesso, le altre sono sulla strada per la quale vi si giunge con assoluta certezza.

Vi sono poi altri tre generi di uomini, che sono indubbiamente da censurare e da detestare.

Il primo genere è di coloro che si affidano a congetture, cioè che ritengono di sapere ciò che non sanno; il secondo è quello di coloro che, pur sapendo per certo di non sapere, non cercano in modo da trovare; il terzo è quello di coloro che né ritengono di non sapere né vogliono cercare.

In modo analogo nell'animo umano vi sono tre attitudini, che sono, per così dire, confinanti tra loro, ma che però meritano di essere ben distinte: il comprendere, il credere, l'opinare.

Considerate per se stesse, la prima non è mai in difetto, la seconda lo è talvolta, la terza sempre.

Infatti comprendere ciò che è grande e nobile, o addirittura ciò che è divino, è il colmo della felicità; comprendere, invece, ciò che è superfluo non nuoce affatto, ma forse nuoce insegnarlo perché sottrae tempo a ciò che è necessario.

Quanto alle cose dannose, male non è comprenderle, ma farle o subirle.

Se, infatti, qualcuno comprende come il nemico possa essere ucciso senza che egli corra alcun pericolo, non è colpevole perché lo comprende ma perché ha la cupidigia di farlo.

Se questa cupidigia manca, cosa si può dire di più innocente?

Quanto al credere, esso merita biasimo quando si crede qualcosa di indegno o riguardo a Dio o, piuttosto facilmente, riguardo all'uomo.

In tutti gli altri casi non c'è nessuna colpa se qualcuno crede qualcosa, sapendo di non saperla.

Credo infatti che, grazie al coraggio di Cicerone, un tempo furono uccisi dei congiurati senza scrupoli; eppure non solo ignoro questo fatto, ma so anche per certo che in nessun modo lo posso sapere.

Opinare, invece, è molto turpe per questi due motivi: sia perché chi è persuaso che già sa non può imparare, posto che sia possibile imparare la cosa in questione; sia perché la temerità per se stessa non è il segno di un animo ben disposto.

Prendiamo il caso di qualcuno che reputi di sapere ciò che ho detto di Cicerone: sebbene nulla gli impedisca di apprenderlo, perché il fatto di per sé non può essere materia di nessuna scienza, tuttavia, in quanto non si rende conto della grande differenza che c'è tra il sapere qualcosa con la certezza che deriva da un ragionamento della mente - ciò che noi chiamiamo comprendere - e il trovarlo affidato alla fama o agli scritti per essere utilmente creduto dai posteri, di certo sbaglia, e nessun errore è senza vergogna.

Ciò che comprendiamo, dunque, lo dobbiamo alla ragione; ciò che crediamo all'autorità; ciò che opiniamo all'errore.

Ma chiunque comprende, crede anche; e pure chi opina crede; ma non chiunque crede, comprende, e nessuno che opina, comprende.

Se, dunque, queste tre attitudini le riferiamo ai cinque generi di uomini che abbiamo menzionato poco fa, ossia i due che sono da elogiare e che ho posto per primi, e gli altri tre che invece sono riprovevoli, troviamo che il primo genere, che comprende uomini felici, crede alla verità stessa; mentre il secondo, che comprende uomini che ricercano e amano la verità, crede all'autorità.

In questi due generi il credere è degno di lode; invece nel primo genere di uomini riprovevoli, cioè di uomini che congetturano di sapere ciò che non sanno, vi è di certo una perversa credulità.

Coloro che fanno parte degli altri due generi meritevoli di riprovazione, non credono nulla: tanto quelli che cercano il vero senza speranza di trovarlo, quanto quelli che non lo cercano affatto.

Questa attitudine comunque è possibile solo nelle cose che appartengono a qualche disciplina; infatti, nella vita pratica non so proprio come un uomo possa non credere a nulla.

Del resto, anche quanti affermano che nella pratica seguono ciò che è probabile, preferiscono apparire come coloro che non possono sapere nulla piuttosto che come coloro che non credono a nulla.

Chi infatti non crede ciò che sperimenta? O come è probabile ciò che seguono, se non è sottoposto a prova?

Perciò vi possono essere due generi di avversari della verità: uno costituito da coloro che combattono solo contro la scienza, ma non contro la fede; l'altro da coloro che condannano tutte e due; tuttavia, ancora una volta non so se nelle vicende umane si possano trovare persone di questo genere.

Queste cose sono state dette per farci capire che noi, poiché abbiamo conservato la fede anche relativamente a quelle cose che ancora non comprendiamo, siamo al riparo dalla temerità di coloro che solo opinano.

Quanti infatti dicono che non si deve credere nulla al di fuori di ciò che sappiamo, si guardano soltanto dal nome di opinione, nome che, occorre riconoscerlo, è turpe e molto misero.

Ma se prestassero la dovuta attenzione alla profonda differenza che c'è fra chi ritiene di sapere e chi crede sull'autorità di qualcuno, poiché comprende che non sa, di certo eviterebbero l'accusa di errore, di grossolanità e di presunzione.

12.26 - Grave danno è credere solo a quello che si sa

Se, dunque, non si deve credere a ciò che non si sa, chiedo come i figli possano sottomettersi ai loro genitori e come possano amare con reciproco affetto coloro che non credono essere i loro genitori.

In nessun modo, infatti, è possibile conoscere il padre con la ragione, ma lo si crede tale per l'interposta autorità della madre; e neppure per quanto riguarda la madre stessa, invero, si crede alla madre, ma alle ostetriche, alle nutrici, alle ancelle.

Infatti colei a cui il figlio può essere sottratto e sostituito con un altro, non può forse ingannare, dal momento che è stata ingannata?

Pur tuttavia noi crediamo, e lo crediamo fermamente, ciò che riconosciamo di non poter sapere.

Chi non vedrebbe infatti che, se così non fosse, l'amore, che è il più sacro dei legami del genere umano, sarebbe profanato dalla più insolente delle malvagità?

Chi dunque, anche se insensato, considererebbe colpevole colui che avesse reso le dovute dimostrazioni di affetto a coloro che credeva essere i suoi genitori, anche se non lo erano?

Chi, al contrario, non avrebbe giudicato meritevole di essere scacciato colui che avesse amato pochissimo quelli che forse erano i suoi veri genitori, temendo di amare quelli falsi?

Sono molti gli argomenti che si possono portare per mostrare che non c'è assolutamente nulla dell'umana società che non ne risulterebbe danneggiato, qualora avessimo deciso di non credere a niente che non possiamo considerare come percepito.

12.27 - Soltanto il sapiente, dunque, non pecca

Ma ora ascolta ciò di cui ormai confido di poterti convincere più facilmente.

Quando si tratta di religione, cioè di adorare e di comprendere Dio, quelli che devono essere meno seguiti sono coloro che ci dissuadono dal credere, promettendoci subito la ragione.

Nessuno dubita, in effetti, che tutti gli uomini sono o stolti o sapienti.

Ora però chiamo sapienti non gli uomini avveduti e pieni d'ingegno, ma quelli che possiedono, per quanto è possibile all'uomo, una conoscenza ben salda e provata dello stesso uomo e di Dio, con una vita e dei costumi in armonia con essa; tutti gli altri, invece, quali che siano le competenze e incompetenze di cui dispongono e quale che sia il modo di vivere che tengono, meritevole di elogio o di biasimo, li ascriverai al numero degli stolti.

Stando così le cose, chi, per quanto poco intelligente, non vedrebbe chiaramente che per gli stolti è più utile e salutare sottomettersi ai precetti dei sapienti che non condurre la vita secondo il proprio giudizio?

Poiché tutto ciò che si fa, se non lo si fa in maniera retta, è peccato: e in nessun modo può essere fatto in maniera retta ciò che non procede dalla retta ragione.

La retta ragione, poi, non è altro che la stessa virtù.

Ma in quale degli uomini si trova la virtù, se non nell'animo del sapiente? Soltanto il sapiente, dunque, non pecca.

Di conseguenza, ogni stolto pecca, fuorché in quelle azioni nelle quali ha obbedito al sapiente; tali azioni, infatti, procedono dalla retta ragione, e lo stesso, per così dire, deve essere ritenuto padrone delle proprie azioni, quando è come uno strumento e un servitore del sapiente.

Se, dunque, per tutti gli uomini è meglio non peccare che peccare, di certo tutti gli stolti avrebbero una vita migliore se potessero essere i servitori dei sapienti.

E se nessuno dubita che ciò giova nelle cose di minor conto come nel comprare o coltivare un terreno, nel prendere moglie, nell'accogliere ed educare i figli, infine nella stessa amministrazione del patrimonio familiare, molto di più esso giova in materia di religione.

Nelle cose umane, infatti, la conoscenza è più facile che in quelle divine; e in quelle tra queste che sono più sante ed eccellenti, il peccare è tanto più dannoso e pericoloso quanto maggiore deve essere il nostro rispetto e culto per loro.

Vedi pertanto che, per tutto il tempo in cui siamo stolti, non ci resta altro da fare, se ci sta a cuore una vita ottima e religiosa, che ricercare i sapienti e, obbedendo a loro, potremmo sentire di meno il dominio della stoltezza, finché è in noi, e talora potremmo anche liberarcene.

13.28 - Lo stolto ignora la sapienza

A questo punto sorge di nuovo una questione molto difficile: in qual modo noi stolti potremo trovare il sapiente, se la maggior parte degli uomini, benché quasi nessuno osi farlo apertamente, tuttavia in maniera indiretta rivendicano per sé questo nome; e se proprio sulle cose, nella cui conoscenza consiste la sapienza, sono così in disaccordo tra loro che inevitabilmente o nessuno di essi è sapiente oppure lo è uno soltanto?

Ma chi sia costui, non vedo proprio come possa essere chiaramente riconosciuto e individuato quando è lo stolto che lo ricerca.

Non si può infatti conoscere alcunché attraverso i segni, se non si conosce la cosa stessa di cui essi sono segni.

Ma lo stolto ignora la sapienza. E a chi ne è privo, se gli è concesso di conoscere l'oro e l'argento ed altre cose di questo genere vedendole, pur senza possederle, non è invece possibile vedere la sapienza con l'occhio della mente.

Infatti, tutte le cose che raggiungiamo con i sensi corporei ci provengono dal di fuori: per questo ci è consentito di percepire con gli occhi anche le cose altrui, benché non possediamo nessuna di esse o di genere simile.

Ciò che invece viene colto con l'intelletto è all'interno, nell'animo: e possedere qualcosa nell'animo equivale a vederla.

Ora, lo stolto è privo della sapienza; pertanto non conosce la sapienza.

Infatti, non potrebbe vederla con gli occhi; peraltro, non può vederla senza averla, né averla ed essere stolto.

Dunque non la conosce e, non conoscendola, non può riconoscerla in altro luogo.

Nessuno, dunque, fino a che è stolto, è capace di trovare con certezza assoluta il sapiente, sottomettendosi al quale si libererebbe da quel male che è la stoltezza.

13.29 - Lo stolto ignora la sapienza

A questa così grande difficoltà, dal momento che parliamo di religione, solo Dio può porre rimedio; ma se non crediamo che esista e che aiuti le menti umane, non dobbiamo neppure cercare la vera religione.

Da ultimo, che cosa desideriamo ricercare con tanto sforzo?

Che cosa aspiriamo a raggiungere? Dove vogliamo pervenire?

Forse al punto di non credere che esista o che abbia a che vedere con noi?

Niente è più perverso di un tal pensiero.

O forse tu, non avendo il coraggio di domandarmi un favore oppure avendolo, ma in un modo di certo impudente, vieni a chiedere di trovare la religione, pur ritenendo che Dio né esista né, se esiste, si prenda cura di noi?

E che diremo, se la cosa è tanto grande che non è possibile trovarla se non la si cerca con zelo e con tutte le forze?

E ancora, se la stessa difficilissima scoperta allena la mente di colui che la cerca in modo che possa capire ciò che verrà trovato?

Per i nostri occhi, infatti, che c'è di più piacevole e familiare della luce del sole?

Eppure essi non sono in grado né di sopportarla né di tollerarla, dopo una prolungata oscurità.

Per un corpo debilitato dalla malattia che cosa c'è di più adatto del cibo e della bevanda?

Eppure vediamo che i convalescenti vengono frenati e trattenuti, perché non si azzardino a saziarsi come i sani e a mangiare proprio quei cibi che li farebbero ricadere nella malattia per la quale erano controindicati.

Parlo dei convalescenti; ma i malati stessi non li spingiamo forse a prendere qualcosa?

Di certo, non ci obbedirebbero in ciò con tanta molestia, se non credessero che usciranno da quella malattia.

Quando, dunque, ti darai a questa ricerca tanto faticosa e difficile?

Quando ardirai importi una sollecitudine e un impegno tanto grande, quanto la cosa stessa merita, dal momento che non credi all'esistenza di ciò che cerchi?

Giustamente, dunque, la dottrina cattolica nella sua autorità ha stabilito che coloro che si avvicinano alla religione prima di tutto vanno indotti a credere.

14.30 - Non c'è demenza maggiore di quella di non credere a niente

Pertanto quell'eretico ( poiché il nostro discorso riguarda coloro che vogliono dirsi cristiani ) quale ragione, dimmi, mi potrà addurre?

Qual è il motivo che può allontanare dal credere, come da una temerità?

Se mi ordina di non credere a nulla, non credo neppure che tra le cose umane vi sia questa stessa vera religione e, poiché non credo che vi sia, non la cerco neppure.

Ma egli, come immagino, sarà tenuto ad esporla a chi la cerca; così, infatti, sta scritto: Chi cerca troverà. ( Mt 7,8 )

Dunque, non mi rivolgerei a colui che mi vieta di credere, se non credessi qualcosa.

Ma c'è una demenza maggiore di questa?

Gli dispiaccio, infatti, soltanto per la fede che non è sorretta da nessuna scienza, quando è la fede soltanto che mi ha condotto da lui.

14.31 - Coloro che si avvicinano alla religione prima di tutto vanno indotti a credere

E che dire del fatto che tutti gli eretici ci esortano a credere in Cristo?

Possono essere maggiormente in contraddizione con se stessi?

A questo proposito devono essere incalzati in due modi.

In primo luogo, va loro chiesto dove è la ragione che promettevano, su cosa si basa il biasimo della temerità, su cosa si fonda la presunzione di sapere.

Se, infatti, è cosa riprovevole credere a qualcuno senza ragione, perché ti aspetti e ti adoperi a che io creda a qualcuno senza ragione, di modo che possa essere più facilmente guidato dalla tua ragione?

Oppure la tua ragione costruirà qualcosa di solido sopra un fondamento di temerità?

Parlo come farebbero coloro ai quali la nostra fede dispiace.

Da parte mia, infatti, ritengo che credere prima di ricorrere ai procedimenti razionali, quando ancora manca la capacità di percepirli, ed esercitare l'animo mediante la fede stessa ad accogliere i semi della verità, sia una cosa non solo assai salutare, ma anche assolutamente indispensabile per restituire la salute agli animi ammalati.

E se a loro ciò sembra cosa da ridere e piena di temerità, di certo agiscono in modo impudente nello spingerci a credere in Cristo.

In secondo luogo, confesso che ho già creduto in Cristo, e mi sono persuaso della verità di ciò che ha detto, benché non fossi sorretto da nessuna ragione: ora è questo, o eretico, che all'inizio mi insegnerai?

Concedimi di considerare per un po' tra me e me ( poiché io non ho visto Cristo come volle mostrarsi agli uomini, Lui che, come si dice, è stato visto anche da questi occhi comuni ) a chi ho creduto riguardo a Lui, per venire a te già predisposto da tale fede.

Vedo che non ho creduto a nulla, fuorché all'opinione consolidata e alla fama di gran lunga più diffusa tra i popoli e le genti, popoli che in ogni angolo della terra sono stati conquistati dalla Chiesa cattolica.

Perché, dunque, non dovrei ricercare presso costoro col massimo zelo che cosa Cristo ha insegnato, dal momento che, spinto dalla loro autorità, ho già creduto che Cristo ha insegnato qualcosa di utile? 

i esporrai tu forse meglio ciò che egli ha detto, qualora io escludessi che sia esistito o che esista e tu mi raccomandassi di credervi?

Questo, dunque, come dissi, ho creduto per la fama consolidata dalla diffusione, dal consenso e dalla lunga durata.

Mentre è a tutti evidente che voi, così pochi, così turbolenti e così "nuovi", non proponete nulla che meriti considerazione e stima.

Che è dunque questa così grande demenza?

Credi a loro che si deve credere Cristo, ma da noi impara ciò che ha detto.

Per quale ragione, te ne scongiuro?

Se, infatti, quelli venissero a mancare o si rivelassero incapaci di insegnarmi qualcosa, mi persuaderei di non dover credere a Cristo molto più facilmente che del dover apprendere qualcosa su di Lui da persone diverse da quelle per le quali ho creduto in Lui.

O smisurata impudenza o, piuttosto, stoltezza!

Io ti insegno ciò che ha insegnato Cristo nel quale tu credi.

E che, se io non credessi in Lui, potresti forse insegnarmi qualcosa di Lui?

Ma, si dice, è necessario che tu creda.

Forse perché lo raccomandate voi? No, si dice; noi, infatti, li facciamo procedere con la ragione coloro che credono in Lui.

Perché dunque dovrei credergli? Perché la sua fama è ben fondata.

In virtù vostra o di altri? In virtù di altri, si dice.

Dovrò dunque credere ad altri, perché tu mi istruisca?

Forse lo dovrei fare, se proprio loro non mi sconsigliassero in modo assoluto di rivolgermi a te: dicono, infatti, che voi sostenete dottrine pericolose.

Risponderai che essi mentono.

Allora, in che modo dovrei credere a loro riguardo a Cristo, che non hanno veduto, mentre non dovrei credere a loro riguardo a te, che non vogliono vedere?

Credi agli scritti, si dirà. Ma ogni scrittura, se è presentata come nuova e sconosciuta o se è garantita da pochi, senza però che sia confermata da qualche argomento razionale, è creduta non per sé ma per coloro che la presentano.

Perciò, se siete voi a presentare queste Scritture, voi che siete così pochi e sconosciuti, non sono propenso a credere.

Nello stesso tempo, ordinando di credere piuttosto che rendendo ragione, contravvenite alla promessa.

Mi inviterai di nuovo a considerare la moltitudine e la fama.

Ma frena, una buona volta, l'ostinazione e la troppo smodata voglia di propagare il vostro nome.

Raccomandami, piuttosto, di cercare i capi di questa moltitudine e di cercarli con la massima diligenza e il massimo zelo, perché impari qualcosa da loro anziché dalle loro lettere.

Giacché, se non esistessero, non saprei affatto che c'è qualcosa da imparare.

E tu, ritorna nei tuoi rifugi e non tendere insidie sotto il nome di quella verità che ti sforzi di portar via a coloro ai quali tu stesso riconosci autorità.

14.32 - Tutti gli eretici ci esortano a credere in Cristo

Se, invece, asseriscono che non si deve credere neppure a Cristo in mancanza di una ragione sicura, non sono cristiani.

Questo è infatti ciò che alcuni pagani dicono stoltamente contro di noi, ma di certo in maniera coerente con se stessi.

Ma chi può tollerare che professino di appartenere a Cristo coloro che pretendono che non si creda a nulla fino a che non avranno offerto agli stolti ragioni assolutamente evidenti a proposito di Dio?

Al contrario, vediamo che Cristo, secondo quanto insegna quella storia alla quale anch'essi credono, non volle nulla prima e con più forza della fede in Lui, perché quelli con i quali aveva a che fare non erano ancora capaci di comprendere i misteri divini.

Quale altro effetto, infatti, provocano così grandi e così numerosi miracoli, quando egli stesso diceva che li compiva soltanto perché si credesse in Lui?

Egli guidava gli stolti con la fede, voi li guidate con la ragione.

Egli chiamava ad alta voce per essere creduto, voi gridate in segno di opposizione.

Egli aveva parole di lode per i credenti, voi li rimproverate.

Invero, non avrebbe cambiato l'acqua in vino ( Gv 2,7-9 ) - per non parlare degli altri miracoli -, se gli uomini fossero stati in grado di seguirlo non in quanto autore di cose di questo tipo ma in quanto maestro: oppure non si deve dare nessuna importanza alla frase: Credete a Dio e credete a me, ( Gv 14,1 ) o va accusato di temerità chi non volle che andasse a casa sua, credendo che la malattia del figlio sarebbe cessata al suo solo comando? ( Mt 8,8 )

Egli dunque, portando il rimedio che avrebbe risanato i costumi assai corrotti, con i miracoli si procurò l'autorità, con l'autorità meritò la fede, con la fede riunì la moltitudine, con la moltitudine ottenne una lunga durata, con la lunga durata diede forza alla religione, quella religione che non potrebbe in nessun modo scuotere non solo la novità senza alcun valore e perfida degli eretici, ma neppure l'errore delle genti, che restano come in letargo per poi attaccare violentemente.

15.33 - Cristo non volle nulla prima e con più forza della fede

È per questo che, sebbene sia incapace di insegnare, tuttavia ( dal momento che molti vogliono sembrare sapienti e non è facile discernere se sono stolti ) non desisto dall'esortarti a supplicare Dio con tutta la volontà e con tutto il desiderio, perfino con i gemiti o, se è possibile, anche con le lacrime, affinché ti liberi dal male dell'errore, se ti interessa la vita beata.

La cosa avverrà in modo più facile se ti sottometterai di buon cuore ai suoi precetti, che volle confermare con l'autorità così grande della Chiesa cattolica.

Poiché, infatti, il sapiente è così unito a Dio con la mente che nulla si interpone che lo separi da Lui - Dio, infatti, è verità e in nessun modo uno è sapiente se non raggiunge la verità con la mente -, non dobbiamo affermare che fra la stoltezza dell'uomo e la assolutamente integra verità di Dio trova posto, per così dire come un che di medio, la sapienza dell'uomo.

Il sapiente infatti, per quanto gli è concesso, imita Dio; l'uomo stolto invece, se pur vuole imitare qualcosa che giovi alla sua salute, non ha nulla di più prossimo dell'uomo sapiente.

Ma poiché, come si è detto, è difficile discernere Dio con la ragione, bisognava mettere alcuni miracoli davanti agli occhi, ai quali gli stolti ricorrono molto meglio che alla mente, affinché, sollecitati dall'autorità, gli uomini purificassero prima la loro vita e i loro costumi, e così divenissero idonei per accogliere la ragione.

Poiché, dunque, bisogna imitare l'uomo senza però riporre in lui la speranza, che cosa sarebbe potuto accadere di straordinariamente più buono e generoso del fatto che la Sapienza stessa di Dio, pura, eterna e immutabile, alla quale è necessario che aderiamo, si degnasse di farsi uomo?

Ed Egli non solo ha fatto cose che ci invitavano a seguire Dio, ma ha anche sofferto cose che ci sconsigliavano dal seguirlo.

Poiché, infatti, nessuno può conseguire il bene saldissimo e sommo se non lo ha amato in modo completo e perfetto - e ciò non è assolutamente possibile finché abbiamo paura dei mali e degli accidenti del corpo -, Egli, nascendo e operando in modo straordinario, si è procurato l'amore; morendo e risorgendo ha eliminato il timore.

E anzi, in tutte le altre cose che sarebbe lungo ricordare, si è presentato in modo da farci capire fin dove può arrivare la clemenza divina e fin dove può essere sollevata l'umana debolezza.

16.34 - La Sapienza stessa si è incarnata per farsi maestra nella vita

È questa, credilo, l'autorità più salutare, questa la prima elevazione della nostra mente dalla sua dimora terrestre, questa la conversione dall'amore per questo mondo all'amore per il vero Dio.

L'autorità è l'unica che induce gli stolti ad affrettarsi verso la sapienza.

Finché non siamo in grado di comprendere le cose nella loro purezza, è indubbiamente sgradevole essere ingannati dall'autorità, ma è di certo ancora più sgradevole non esserne toccati.

Se infatti la divina Provvidenza non presiede alle cose umane, non c'è affatto motivo di preoccuparsi per la religione.

Se invece, da una parte, la bellezza di tutte le cose - che si deve credere sicuramente emanata da una qualche sorgente di autentica bellezza - e, dall'altra, una non so qual coscienza interiore sollecitano, per così dire in forma collettiva e individuale, gli animi migliori a cercare Dio e a servirlo, allora non si deve perdere la speranza che esista una qualche autorità, costituita da Dio stesso, sulla quale appoggiarci, come su un solido gradino, per elevarci verso Dio.

Ora, questa autorità, se si prescinde dalla ragione che, come spesso abbiamo detto, molto difficilmente è compresa dagli stolti nella sua purezza, ci tocca in due modi: in parte con i miracoli, in parte con la moltitudine di quelli che la seguono.

È indubitabile che il sapiente non ha bisogno di nessuna di queste cose.

Ma ora per noi si tratta di riuscire ad essere sapienti, cioè di aderire alla verità, cosa che di certo è irrealizzabile per un animo abietto.

L'abiezione dell'animo, per dirla in breve, consiste nell'amore per qualsiasi oggetto all'infuori dell'anima e di Dio; ebbene, quanto più uno ne è immune, tanto più facilmente attinge il vero.

Pretendere, quindi, di vedere il vero per purificare lo spirito, quando invece bisogna essere puri per vederlo, di certo significa sconvolgere l'ordine e procedere alla rovescia.

All'uomo, dunque, che non è capace di attingere la verità, viene in aiuto l'autorità, perché ne divenga capace e si lasci purificare.

E, come ho detto poco fa, tutti ammettono che essa riesce a far ciò in parte con i miracoli e in parte con la moltitudine.

Chiamo miracolo tutto ciò che appare oltremodo difficile o insolito, che va al di là delle aspettative o delle facoltà di chi ne rimane sorpreso.

In questo genere di cose niente è più adatto al popolo e, in particolare, agli uomini stolti di ciò che è avvertito mediante i sensi.

Ma, dal canto loro, i miracoli si dividono in due specie: ve ne sono alcuni, infatti, che provocano solo meraviglia; altri invece che ispirano anche gratitudine e benevolenza.

Infatti, se qualcuno vede un uomo che vola si meraviglia soltanto, dal momento che la cosa non porta allo spettatore altro vantaggio all'infuori dello spettacolo in se stesso.

Se qualcuno invece, affetto da una malattia grave e incurabile, guarisce immediatamente non appena ne è stato dato l'ordine, proverà per la sua guarigione, nei confronti di colui che lo ha guarito, un amore superiore alla meraviglia.

Di questo genere sono i fatti accaduti nel tempo in cui Dio si mostrava, per quanto era consentito, agli uomini come vero uomo: furono guariti gli ammalati, purificati i lebbrosi; agli zoppi fu restituita la capacità di camminare, ai ciechi la vista, ai sordi l'udito.

Gli uomini di quel tempo videro l'acqua cambiata in vino, una folla di cinquemila persone saziata con cinque pani, i mari attraversati a piedi, i morti che risuscitavano.

Alcuni di questi miracoli erano di aiuto al corpo con benefici ben manifesti, altri invece alla mente con segni meno espliciti, ma tutti giovavano agli uomini, a testimonianza della maestà divina.

Così allora l'autorità divina faceva muovere verso di sé le anime erranti dei mortali.

Perché, mi dirai, queste cose ora non avvengono?

Perché esse non toccherebbero nessuno, se non fossero straordinarie; e non sarebbero straordinarie, se fossero consuete.

Immagina un uomo che veda e percepisca per la prima volta l'alternanza del giorno e della notte, l'ordine perfettamente costante degli astri, il succedersi delle quattro stagioni durante l'anno, la caduta e la rinascita delle fronde sugli alberi, l'infinita forza dei semi, la bellezza della luce, la varietà dei colori, dei suoni, degli odori, dei sapori; supponi che possiamo parlare con lui: resterebbe stupito e quasi sommerso dai miracoli.

Noi invece non facciamo più caso a tutte queste cose; non perché ci sia facile conoscerle ( non c'è infatti niente di più oscuro delle loro cause ), ma di certo perché ne facciamo esperienza continuamente.

Quei miracoli, dunque, sono stati compiuti nel più opportuno dei momenti, così che, riunita ed ampliata per mezzo loro la moltitudine dei credenti, l'autorità si rivolgesse in modo utile agli stessi costumi.

17.35 - Influenza dei costumi. Autorità della Chiesa cattolica

I costumi poi, quali che siano, influiscono tanto sulle menti umane che possiamo con più prontezza biasimare e condannare come riprovevole quanto in essi c'è di perverso - cosa che accade quasi sempre per il prevalere di desideri sfrenati - che abbandonarlo o cambiarlo.

Ritieni forse una decisione di poco conto per le vicende umane che non solo pochi dottissimi uomini discutano, ma anche tutta una folla incolta di uomini e di donne, appartenenti a tanti e diversi popoli, creda e proclami che nulla di terreno, nulla di celeste, infine nulla di ciò che si percepisce con i sensi deve essere adorato al posto di Dio, al quale ci si deve accostare con il solo intelletto?

E che la continenza arrivi fino al più povero dei nutrimenti fatto solo di pane e di acqua, che i digiuni si prolunghino non per un giorno soltanto ma anche per più giorni di seguito; che la castità giunga fino alla rinuncia del coniuge e della prole, che la pazienza fino a non curarsi delle croci e delle fiamme, che la liberalità fino alla distribuzione dei patrimoni ai poveri, che, infine, il disprezzo di tutto questo mondo si spinga fino al desiderio della morte?

Pochi fanno queste cose, meno ancora le fanno bene e con saggezza, ma i popoli le prendono in considerazione, i popoli le approvano, i popoli le favoriscono, i popoli infine le amano: i popoli incolpano la propria debolezza del fatto che non riescono a farle, non senza però elevare la mente a Dio e non senza qualche scintilla di virtù.

Tutto ciò fu realizzato dalla divina Provvidenza per mezzo dei vaticini dei profeti, della vita umana di Cristo e della sua dottrina, dei viaggi degli Apostoli, degli oltraggi, delle croci, del sangue, delle morti dei martiri, della condotta encomiabile dei santi e, secondo le circostanze, dei miracoli degni di avvenimenti e virtù così eccelse.

Considerando, dunque, un aiuto di Dio così grande, un progresso ed un esito altrettanto grande, esiteremo a metterci al sicuro nel grembo della sua Chiesa, che, dalla sua istituzione come Sede apostolica, attraverso la successione dei vescovi fino al riconoscimento del genere umano, malgrado le invettive degli eretici - che peraltro sono stati condannati in parte dal giudizio del popolo stesso, in parte dall'autorevolezza dei concili, in parte anche dalla grandiosità dei miracoli - ha ottenuto il massimo grado di autorità?

Rifiutarle questo ruolo preminente di certo è indice di somma empietà o di una sconsiderata arroganza.

Infatti, se gli animi hanno una via certa alla sapienza e alla salvezza solo quando sono predisposti dalla fede alla ragione, in che altro consiste l'ingratitudine verso l'opera e l'aiuto divino se non nel voler resistere ad un'autorità che dispone di tanta energia?

E se ciascuna disciplina, per quanto di poca importanza e facile, richiede un insegnante o un maestro per poter essere compresa, c'è un atteggiamento più gonfio di temeraria superbia di quello di rifiutarsi di conoscere i Libri dei divini misteri dai loro interpreti e di ardire di condannarli senza conoscerli?

Vorrei che mi ascoltassi e ti affidassi ai buoni maestri della cristianità cattolica.

18.36 - Favola persiana

Perciò, se il mio ragionamento o la mia esposizione ti ha colpito e se, come credo, tu hai vera cura di te stesso, vorrei che mi ascoltassi e ti affidassi ai buoni maestri della cristianità cattolica con pia fede, con viva speranza e con carità semplice, senza mai smettere di pregare l'unico Dio: dalla sua bontà siamo stati fatti, secondo la sua giustizia espiamo le pene e per la sua clemenza siamo liberati.

In questo modo non ti mancheranno né gli insegnamenti né le dissertazioni di uomini dottissimi e veramente cristiani, né i libri, né le stesse serene riflessioni con le quali facilmente troverai ciò che cerchi.

Quanto poi a questi miseri parolai (  che altro, infatti, potrei dire di più benevolo? ), abbandonali definitivamente, essi che, mentre cercano con insistenza l'origine del male, non trovano altro che il male.

In questa ricerca spesso incoraggiano gli uditori a porre domande: ma una volta svegliatili, danno loro insegnamenti per cui sarebbe meglio che dormano sempre, anziché star svegli in quel modo.

Da persone in letargo, infatti, ne fanno persone frenetiche, e queste due malattie, malgrado siano per lo più entrambe mortifere, tuttavia sono differenti tra loro perché colui che è in letargo muore senza tormentare gli altri, mentre il frenetico è pericoloso per molti sani e soprattutto per coloro che vogliono portargli aiuto.

Ma Dio non è autore del male e non si è mai pentito di aver fatto qualcosa; il suo animo non è turbato dalla tempesta di qualche emozione, né il suo regno è una particella di terra; non approva o comanda nessuna azione turpe o malvagia; né mente mai.

Queste e altre cose simili, infatti, ci turbavano, quando le investivano con grandi invettive e le presentavano come se questa fosse la dottrina del Vecchio Testamento: cosa che è del tutto e assolutamente falsa.

Ammetto, pertanto, che a buon diritto essi criticano queste cose.

Ma che cosa ho dunque imparato?

E che cosa, a tuo avviso, se non che, quando si criticano queste cose, non è la dottrina cattolica che è criticata?

Così, ciò che ho appreso di vero da loro, lo conservo; ciò che ho considerato falso, lo respingo.

Ma la Chiesa cattolica mi ha insegnato molte altre cose, alle quali quegli uomini dai corpi sottili ma dalle menti crasse non possono aspirare: che Dio non è corporeo, che niente di Lui può essere percepito con gli occhi del corpo, che niente della sua sostanza e della sua natura è in alcun modo contaminabile o mutevole, composto o plasmato.

Se mi concedi queste cose ( non si può infatti pensare diversamente di Dio ), tutti i loro artifici sono distrutti.

Come poi sia possibile che il male non sia stato generato o fatto da Dio, che non vi sia o vi sia mai stata alcuna natura e sostanza che non sia stata generata o fatta da Dio e che, tuttavia, Egli ci liberi dal male, lo dimostrano argomenti così inconfutabili che non è assolutamente possibile dubitarne, specialmente da parte tua e di persone simili a te, purché però al buon ingegno si aggiungano la pietà ed una certa serenità di spirito, senza la quale non è possibile comprendere assolutamente nulla di cose tanto grandi.

E, a questo proposito, non si tratta di fama venuta dal nulla e di non so quale favola persiana, per la quale è sufficiente porgere l'orecchio e una mente non perspicace, ma addirittura infantile.

Ben altra cosa, assolutamente ben altra cosa è la verità, non quale la vaneggiano i Manichei.

Ma poiché questo nostro discorso si è esteso molto più di quanto pensassi, poniamo qui fine al libro, nel quale, voglio che non te ne dimentichi, io non ho ancora cominciato a confutare i Manichei, non ho ancora attaccato le loro futilità, né ho fatto conoscere alcunché di grande della stessa Chiesa cattolica, ma ho solo voluto toglierti, se possibile, la errata opinione sui veri cristiani, inculcata in noi per malizia o per ignoranza, e indirizzarti ad apprendere le cose grandi e divine.

Appunto perciò questo libro può restare così come è: quando il tuo animo sarà divenuto più calmo e sereno, io forse sarò più pronto per il resto.


1 Cicerone, Pro Caelio 9, 22
2 Virgilio, Aeneid. 6, 566-569