Profeti una missione a rischio |
di Marisa Sfondrini
Mettersi totalmente a disposizione del Signore corrisponde, quasi sempre, a vivere in zone-limite, affrontare situazioni estreme, offrire la propria testimonianza in ambienti e condizioni più che difficili.
Riportiamo qui alcune di queste esperienze come esempio di « prossimità possibili ».
Ci sono dei nomi di battesimo, non ci sono i cognomi, non ci sono altri segni per identificare i vari protagonisti se non alcune citazioni dai racconti da loro stessi fatti.
Sono infatti persone ancora viventi, che offrono la loro testimonianza non certo per diventare « personaggi pubblici ».
Ciò che conta quindi non è tanto - e si comprende benissimo - individuare un volto probabilmente amico, ma dire che alla fantasia del Signore non si possono porre limiti: ogni campo deve essere arato con pazienza e vigore.
Gli « esempi » - chiamiamoli così, con una bella e antica parola che forse fa storcere il naso a chi non la sente abbastanza moderna - sono raccolti in tre grandi « categorie » ( anche in questo caso il sostantivo è inadatto, ma non pare vi sia di meglio ): i piccoli « regni del male » che però non sorgono tanto lontano dai nostri occhi ( alcolismo, droga, AIDS, carcere ), i luoghi dell'ingiustizia ( come la fabbrica, il grande caseggiato popolare ), i luoghi delle nuove speranze ( chi accoglie i neonati, i bambini, chi lavora alla ricerca ).
Oggi all'alcolismo non si da troppa importanza: eppure ne muoiono più per gli effetti nefasti del « bicchiere » che per droga.
Norma ( professione: caposala in un ospedale ) si è letteralmente buttata in questo mondo di persone che un po' per giorno discendono una china che sembrerebbe senza speranza.
Il condizionale del verbo è d'obbligo perché invece una speranza c'è, in tanti sono risaliti a una vita dignitosa, autenticamente umana; ma generalmente non ci sono riusciti da soli.
Norma ci racconta come e perché si è messa accanto ad alcuni di questi infelici.
« Sulla mia strada ho incontrato gli alcolisti e ho deciso di camminare con loro.
Non è stato facile, e per me c'è stato, in quella che considero origine della mia vocazione, il disagio, il rifiuto di portare una situazione familiare diversa da quella che era la normalità: mio padre spesso eccedeva nel bere ».
Norma, da un disagio familiare, apprende una verità di solito ignorata: l'alcolista è un malato, non un vizioso.
Norma abita poi in una zona dove l'alcolismo è purtroppo molto diffuso ancora oggi.
Sono circostanze « esterne » che l'aiutano a comprendere dove vuole indirizzarla il Signore.
« È provvidenziale la richiesta che il C.R.A. ( Centro recupero alcolisti ) mi fa di collaborare per avviare anche nella mia città questo servizio.
Ciò risponde alle mie attese.
Scelgo di coinvolgermi qui, perché si tratta di un volontariato aconfessionale, che sento a me più congeniale …
Mi trovo così, attraverso la mia professione di caposala in ospedale e nello stesso tempo il mio ruolo di operatrice del C.R.A., a mediare tra ospedale, centro medico sociale e volontariato, libera da contrapposizioni dovute alla difesa delle rispettive competenze, sia pure ancora non ben definite, in un campo dove tutti abbiamo da imparare.
Sperimento l'importanza di legare professione e volontariato, fatto che mi permette di non lasciarmi scappare occasione per sottolineare a tempo opportuno e inopportuno i passi di persone, verso le quali c'è diffidenza, particolarmente da parte del personale medico, per esperienze passate.
« Eppure tra queste diverse difficoltà di avvio è possibile giungere a un gruppo di lavoro che diventi 'accostamento', 'informazione' e poi 'gruppo di motivazione'.
Ci si apre così a un primo concreto dialogo con l'alcolista e con la sua famiglia.
… Non è quello che riesco a dire, a fare, che aiuta chi vive questa terribile dipendenza, quanto il permettere loro di sentirsi ascoltati, accolti e non giudicati ».
È facendo che si impara a fare: la preparazione professionale specifica non è affatto inutile, anzi, tanto più grave è il problema da affrontare, tanto più la preparazione previa è indispensabile.
Nel caso dell'alcolismo si deve, fra l'altro, lottare con la consapevolezza che la malattia è praticamente irreversibile, non la si guarirà mai.
Ma si potrà ampiamente tenere sotto controllo.
Dice ancora Norma: « Per chi ha fatto l'esperienza dell'abbandono, della solitudine e dell'isolamento, della disistima ormai stabile e della vergogna, della derisione e del fallimento, del deserto intorno a sé e spesso dell'aver toccato il fondo, sentirsi soggetto d'amore fa rinascere la capacità di poter sperare ancora.
Per loro è l'inizio di una liberazione … ».
Vivere insieme a questi malati da loro la forza non soltanto di accettare l'ineluttabilità del male, ma soprattutto di superarlo con la fatica dell'astinenza.
Anche le piccole e grandi ricorrenze della vita vissute insieme, le feste fatte insieme; anche il dolore, spartito insieme, per chi non ce la fa e lascia, il confronto nel gruppo: tutto questo è una « terapia » dell'anima che dona salute ai corpi.
Norma si pone un'altra domanda: in questa sua vicenda, c'è chi soltanto dona ( lei stessa ) e chi soltanto prende ( i suoi amici alcolisti )?
La risposta può sembrare paradossale.
Dice Norma: « La fraternità di questi semplici mi fa da specchio: mi fa venire sete e coraggio per viverla e ricrearla continuamente.
Non siamo anche noi chiamate a sperimentare sempre in modo nuovo e testimoniarci a vicenda l'Alzati e cammina? ».
Maria lavora al Ce.I.S., il centro che si « occupa di prevenzione, recupero, reinserimento di tossicodipendenti e coinvolge la famiglia in un processo terapeutico parallelo a quello del giovane in difficoltà ».
Un altro piccolo « regno del male »: la tossicodipendenza, una spirale dalla quale sembra impossibile liberarsi, uscire.
Eppure anche questo mondo - lo sappiamo dalle cronache - non è senza speranze, c'è chi riesce a liberarsi dalla morsa mortale.
Non da solo, anche in questo caso, come per l'alcolismo.
Maria è una che aiuta a « venirne fuori ».
Ma sentiamo dal suo racconto i sentimenti, le sensazioni, le reazioni: « Quando un giovane bussa alla porta dell'Accoglienza ( prima fase del programma ) in cerca d'aiuto, arriva con il carico drammatico dei suoi problemi: paura, frustrazione, solitudine, vergogna di sé, delusioni …
Anche la famiglia porta il peso del dolore, della sofferenza, della vergogna, dei sensi di colpa e tanta, tanta paura …
Il centro li accoglie, in luoghi e tempi diversi, così come sono, con calore, comprensione, solidarietà, e offre la possibilità di un cammino che permetta loro di recuperare o raggiungere la propria pienezza e ritornare nella realtà sociale a pieno titolo.
« Accompagnare questo cammino è essere testimone che la vita è 'mai stanca di nascere'.
Sboccia, fiorisce, si colora di novità, di autenticità, nel cuore di Antonella, Tiziano, Marco, mamma Lina, papa Angelo … ».
Maria riporta il racconto in prima persona di uno dei suoi amici: « Ho 29 anni, 'mi sono fatto' per sette anni, da due anni sono in programma.
Attualmente sono alla terza fase, quella del reinserimento.
È stata dura arrivare fin qui! Credevo di non farcela … ».
Oggi quel giovane non è più un drogato, uno di quelli che ci danno fastidio e ci fanno paura quando chiedono gli spiccioli perché « mi serve per la benzina » e sappiamo invece benissimo che è « roba » quella che cercano!
Dice ancora Maria: « In questa realtà di vita condivisa, giorno per giorno, sento che sto realmente vivendo la storia della salvezza insieme alle tante persone presenti al Centro …
Ristabilire l'uomo al centro della società, esaltare i valori della dignità, della libertà della persona, della tolleranza, della solidarietà, del rifiuto di ogni discriminazione è la proposta che il programma terapeutico fa, non solo a chi fa uso di 'sostanze' e ne vuole uscire, ma alle famiglie, ai volontari, agli operatori, a quanti a esso si avvicinano e quindi anche a me ».
Anche per Maria lo stesso quesito finale di Norma: chi da, chi riceve?
« Sento che è molto bello, da forza e speranza, sentirci insieme a vivere l'appassionata avventura dell'uomo, in costante ricerca di verità, di libertà, di senso, di vita piena ».
Nell'ideale « libro mastro » che è la vita, non esiste un saldo diverso dal pareggio.
Anche Irene è infermiera professionale, caposale in un grande ospedale.
Il piccolo « regno del male » in cui opera è il quadro finale del dramma droga, una scena che si ripete troppo spesso: l'AIDS, la terribile « peste del Duemila » che nessun farmaco riesce ancora a debellare nell'ultimo scorcio del secolo Ventesimo.
Irene si è affacciata su questo mondo quasi controvoglia.
Ci racconta lei stessa: « Lavoravo come caposala presso un reparto di medicina di un grande ospedale, conoscevo bene la realtà legata alla tossicodipendenza, ma rifiutavo palesemente questi ragazzi.
… Personalmente ritenevo ingiusto che ammalati, anche gravi, non riuscissero a ottenere il ricovero, mentre 'loro' occupavano un letto senza nessuna voglia di uscire dal tunnel in cui erano finiti.
Penso di averli giudicati molto severamente, senza pietà e senza possibilità di legittima difesa e di conseguenza li ho trattati in modo duro, distaccato ».
Poi l'impatto con il problema AIDS.
L'Italia vanta un triste primato: è, infatti, dopo la Francia, il paese europeo con il maggior numero di malati AIDS; al 17 dicembre 1992 ( la cifra è dell'Organizzazione mondiale della sanità ) denunciava 14.783 casi ( su di un totale europeo di 80.810 casi ).
Racconta ancora Irene: « La Caritas cercava di aprire le prime case famiglia per accogliere quei malati.
Dentro di me si facevano strada conflitto e inquietudine, forse rimorso per come mi ponevo, spesso mi domandavo cosa avessi fatto per capire, ma la risposta era: poco o nulla.
Fu così che decisi di condividere con loro un po' della mia vita facendo parte di una équipe in una casa famiglia per malati di AIDS.
Ho conosciuto la vera povertà, quella che oggi è spesso compagna dei nostri giovani.
Povertà di affetti, poiché le famiglie sono disgregate, spesso inesistenti o, se presenti, con genitori incapaci di affrontare i problemi connessi alla droga, perciò il figlio o i figli vengono abbandonati alla strada e al loro destino.
Povertà di salute, perché minati nel corpo dalla malattia, bruciati dalla 'roba' e vuoti dentro, privi di qualsiasi desiderio o pensiero che non sia il 'bucarsi'.
Povertà di mezzi di sussistenza, per cui le uniche alternative diventano accattonaggio o malavita intessuta di scippi, borseggio o spaccio spesso intercalati da periodi più o meno lunghi trascorsi in carcere.
Povertà di relazioni umane, per il rifiuto della società che spesso non riesce a leggere al di là delle apparenze e che, come me, è tarda e dura nel capire la grande solitudine e la sofferenza che è dentro ciascuno di loro ».
Con grande semplicità Irene ci fa presente come non sia necessario fare grandi cose per essere i « buoni samaritani » di questi infelici.
La parola-chiave è compatire nella sua eccezione letterale di patire-con, soffrire insieme quindi.
« Dopo i primi giorni di convivenza e di attento studio fatto di lunghi silenzi, di sguardi diffidenti, di atti provocatori, spesso studiati per sondare le nostre reazioni o paure, quasi sempre emergevano delle ricchezze insospettate.
Sentimenti rari e delicati uscivano da quelle persone dall'apparenza rude, quasi animalesca ».
Che fare, allora? « Nulla di eccezionale » risponde Irene « ho molto ascoltato …
Ho condiviso la mensa, il gioco, la preghiera, cercato di riconciliare le famiglie, li ho curati nel corpo malato spesso accompagnandoli fino alla morte ma, in compenso, mi hanno insegnato ad accoglierli così come sono aiutandoli senza giudizi e pregiudizi ».
Ecco il segreto incredibile, il cambiamento diventa totale e la generosità nei confronti degli altri incalcolabile.
« Ciò che più li colpiva di noi era la nostra capacità di amarli gratuitamente, questo li sconcertava, chiedevano come potesse essere possibile, perché si facesse e tutto ciò, piano piano, conquistava la loro stima ».
Per Anna Rita il piccolo « regno del male » contro cui lottare con le « armi della luce » è il carcere.
Narra lei stessa: « Se è vero che ogni povertà ha una sua componente di solitudine e di isolamento, tuttavia, per chi ha la propria vita segnata dall'amara esperienza diretta o indiretta del carcere, questa componente è dominante.
Le sbarre che separano dal mondo esterno una struttura, che è di per sé isolamento e privazione di libertà, sono segno di barriere ancor più profonde e diffuse.
Potrei riassumere la mia esperienza come partecipazione al tentativo di abbattere qualche barriera.
Partecipazione: perché fin dall'inizio ho operato insieme agli altri …
Abbiamo potuto cogliere attraverso storie spesso ingarbugliate, amare e difficili, una lezione di vita; siamo stati stimolati da alcuni interrogativi a riflettere e a trovare risposte concrete.
Come congiungere verità e amore? Come penetrare con la necessaria chiarezza nelle situazioni per capirne le cause senza esprimere giudizi?
Come distinguere ciò che è positivo da ciò che è negativo per favorire il crescere dei germi di bene presenti, ma spesso nascosti?
Come trovare, nella comprensione che nasce da un sincero incontro di amicizia, la via della correzione fraterna, via irrinunciabile per noi che ci ispiriamo a una pedagogia cristiana, ma anche via tanto esigente? ».
A queste domande Anna Rita da una risposta semplice: « Evitando moralismi e giudizi, senza pretesa di insegnare, abbandonando schemi mentali inadeguati a realtà spesso così lontane e diverse dal nostro consueto … ».
In questa maniera nascono rapporti veri e profondi, che aiutano a cambiare vita ( e non è solo la vita dei detenuti a cambiare ).
« È una ricerca difficile, sofferta, sostenuta da una tensione viva a mete che in sé appaiono chiare, ma verso le quali il cammino è molto lento e faticoso, comporta compromessi, esige coraggio per non cedere a delusioni, diventa attesa paziente che cerca di non spegnersi anche nel buio e che raccoglie con gioia e fa tesoro di ogni progresso prezioso anche se piccolo ».
Ma non è soltanto questo; continua Anna Rita: « È una provocazione, che ci porta a domandarci quale avrebbe potuto essere il nostro comportamento, quale lo sbocco di vita in situazioni analoghe di estrema precarietà e povertà.
Non è detto che certe premesse portino come necessaria conseguenza il carcere ma, in vero, ad alcune delle persone con cui siamo in contatto, occorre un coraggio non comune per affrontare la lotta della vita.
Qual è la dovuta attenzione da prestare e da chiedere che sia prestata nei riguardi di chi vive in mezzo a noi nel disagio, nell'emarginazione, in situazioni a rischio che occorre conoscere e prevenire?
Come provvedere ai bisogni urgenti, non accontentandosi di un'assistenza superficiale che, quietando la coscienza, può rivelarsi antieducativa e conservare nel tempo e nell'indifferenza stati di emarginazione?
Come spingersi e spingere la società e le istituzioni ad affrontarli con giustizia nelle loro radici per sradicarli?
Quale giustizia? Noi talvolta siamo riusciti a risolvere concretamente qualche problema, anche con l'aiuto di altri.
« Talvolta invece ci sentiamo impotenti di fronte a problemi gravi come ricerca di lavoro, di casa, di aiuto per l'educazione e l'istruzione dei figli spesso piccoli e costretti a restare soli o mal sorvegliati, nelle ore in cui la madre lavora.
Ci troviamo in certi casi di fronte a problemi che implicano scelte drammatiche ( separazioni, aborti ); a persone sole e isolate dall'indifferenza e dal rifiuto, a partire dai loro vicini di casa o anche dagli stessi parenti … ».
Esperienze diverse quelle delle nostre tre amiche, molti punti in comune: proviamo a trovarne almeno alcuni.
Il primo e più evidente è quello più volte ripetuto: ciò che si da impegnandosi accanto a coloro che la nostra società butta ai margini, viene sempre restituito in qualche misura, qualche volta ad usura, anche in gratificazione personale.
Forse potrebbe sembrare inopportuno questo accenno, ma se vogliamo fare verità in noi stessi, dobbiamo pure riconoscere che una gratificazione, non cercata né voluta, fa però piacere, da coraggio per andare avanti!
Un secondo punto in comune è la relativa semplicità delle azioni da compiere: ascoltare, essere disponibili visibilmente senza tornaconto, attendere, non emettere giudizi, partire senza pregiudizi …
Stati d'animo, atteggiamenti semplici e talvolta difficili.
Ma necessari.
Un terzo punto in comune è la necessità di non impegnarsi da soli: le situazioni che abbiamo definito « piccoli regni del male » sono come le scalate, esigono la cordata.
Mettersi in mente di fare qualcosa singolarmente è spesso inutile, quando anche non addirittura pericoloso.
È una lezione per il nostro orgoglio sempre in agguato.
Le « frontiere » possono essere anche più vicine a noi di quanto non pensiamo.
E forse meno evidenti degli esempi che abbiamo fin qui portato.
Sono rappresentate da quelli che abbiamo definito i « luoghi quotidiani dell'ingiustizia », quelli cioè nei quali il confine tra « normalità » ed « emarginazione » è sottile come un foglio di carta velina, qualche volta impercettibile.
Il primo di questi luoghi che vogliamo visitare in questo ideale viaggio è la fabbrica, cioè il luogo dove ci viene dato « il pane quotidiano ».
E per questa visita ci avvaliamo dell'esperienza di Vittoria, che ha una rispettabile anzianità di lavoro in una grande fabbrica tessile ( quindi con presenza maggioritaria di donne ).
Una fabbrica-chiave nel panorama economico di un territorio, una fabbrica che il processo evolutivo dell'industrializzazione ha messo in crisi.
Dice Vittoria: « Da 10 anni si lavora alternando periodi di cassa integrazione e con orario ridotto e viene usato il prepensionamento obbligatorio: le donne vengono mandate in pensione a 50 anni, gli uomini a 55.
Si continua a vivere nell'incertezza, perché rimane il problema dell'esubero dei dipendenti ( la diminuzione dei dipendenti cresce ogni anno ) ».
Vittoria sta in questa fabbrica da trentun'anni come operaia e dichiara: « Sono contenta di aver fatto l'operaia in questa grossa fabbrica, perché mi è stata data la possibilità di essere in contatto con tante persone.
Direi che nella fabbrica ci sono tutte le componenti della società: ricchi e poveri, non solo in senso economico, ma anche in senso morale e culturale.
Una realtà poco religiosa, anche se negli ultimi anni mi sembra di avvertire un desiderio e un'attenzione maggiori al religioso ».
Anche in questa esperienza si da e si riceve molto; dice ancora Vittoria: « Dalle compagne sposate ho capito tanti aspetti della vita familiare e matrimoniale, aspetti positivi e belli dell'amore e anche quelli dell'infedeltà; le preoccupazioni per i figli; i problemi economici per arrivare allo stipendio, la fatica del doppio lavoro: casa e fabbrica.
Un aspetto che ho sempre avvertito, è stata la poca cultura presente in questa realtà e di conseguenza come è facile essere strumentalizzati dai padroni, dai partiti e anche qualche volta dai sindacati ».
Vittoria conosce bene anche la realtà sindacale: fa parte infatti per molti anni del consiglio di fabbrica, impegno che lascia perché convinta della necessità del ricambio delle persone ma anche « perché mi sembrava giusto liberare un po' la mia vita per altre esperienze ».
Ma questa lontananza dura poco: scoppia la crisi e i compagni di lavoro richiamano Vittoria nel consiglio di fabbrica.
Come reagisce Vittoria? « Credendo nella volontà di Dio, che si manifestava in queste circostanze, ho potuto vedere questa richiesta come volontà del Signore e nella libertà e nella semplicità di spirito, considerando che era un'ultima possibilità ( dovrò andare senz'altro in pensione anticipata ) di impegno secolare nella realtà concreta del lavoro, ho accettato ».
Una realtà, quella della fabbrica ( ma anche ogni altra esperienza di lavoro ) in cui la giustizia e l'ingiustizia vanno a braccetto, in cui è difficile discernere, talvolta, e schierarsi dalla parte « giusta ».
Dice infatti Vittoria: « Mai come oggi la realtà del lavoro e del sindacato è complessa e difficile e richiede di stare dentro con lo spirito delle Beatitudini, cioè con la fame e sete di giustizia, nella libertà e povertà della nostra persona, che si fa forte della forza del Vangelo senza legarsi ai vari poteri ideologici o partitici, cercando di vedere in ogni persona l'uomo e la donna nella sua interezza ».
« Abito in un grande caseggiato delle Case Popolari nella periferia di Milano, formato da 220 famiglie, circa mille persone »; così il racconto di Rosa che ci svela il suo mondo « di quotidiane ingiustizie », proprio quello che dovrebbe invece proteggerci: la casa, il grande caseggiato popolare per lei, ma potrebbe anche essere uno dei tanti anonimi condomini di periferia.
Continua così il suo racconto: « È un piccolo paese, con tutti i problemi e le difficoltà di convivenza a causa delle diversità di provenienza, di cultura, di fede.
Un ambiente molto chiuso.
Ogni famiglia pensa a se stessa, ed è quasi impossibile conoscersi anche tra persone che abitano la stessa scala ».
Una realtà cittadina comune: isolamento difficile da rompere, perché nasce da sentimenti comuni e semplici, come la diffidenza, la paura.
Come infrangere questa cortina?
Rosa e i suoi vicini hanno risolto il quesito facendosi affidare dall'Istituto case popolari la gestione ordinaria del complesso abitativo.
Questo ha costretto a riunioni, per discutere i problemi « che nascono dalla nostra convivenza e per la buona conduzione di tutto il caseggiato ».
Questa esperienza è stata una sorta di « grimaldello » che ha permesso a Rosa di rendersi disponibile alle famiglie dei vicini per poter anche dire « una parola di conforto, di serenità al momento giusto, di sostenere qualche mamma in attesa di una nuova maternità.
Così ho potuto conoscere situazioni più sofferte e più dolorose, non solo per la povertà materiale, ma soprattutto per la povertà morale in cui le persone si trovano.
Situazioni familiari precarie, convivenze, droga, alcolismo, prostituzione.
Tutto questo mi è motivo di sofferenza.
Cerco di venire incontro alle loro richieste di aiuto, con una presenza piena di calore umano, e di attenzioni concrete, pur sapendo che le mie parole non possono bastare a dar loro la forza, il coraggio per superare alcune grosse difficoltà della vita, come la malattia, la sofferenza, la morte ».
Così Rosa ha aperto la sua casa per incontri di fraternità, di preghiera e di catechesi.
Ma si è lasciata anche coinvolgere in avventure inconsuete.
Come quella che lei stessa racconta: « Sulla mia stessa scala abita un padre di famiglia con parecchi figli, spesso ubriaco, che quando si trova in questo stato diventa cattivo e prepotente …
Una sera del mese di dicembre, tornavo a casa molto tardi …
Aprendo il cancello della portineria, mi sono incontrata con questo uomo, ubriaco fradicio, completamente nudo come il Signore l'aveva creato.
I suoi vestiti sono stati ritrovati al mattino sparsi per il cortile e persino sulle piante.
Come lo vidi provai un senso di grande paura.
Ero tentata di scappare … Che fare?
Pur con tanta paura, il Signore mi spinse ad andare verso quest'uomo.
Con coraggio e delicatezza lo presi per mano e, con forza, lo trascinai verso la sua casa.
La cosa che mi stupì, è che man mano lo sentivo più remissivo, più disposto a seguirmi, e a un certo momento, con mia sorpresa, si mise a cantarmi l'Ave Maria di Schubert.
Ho accolto questo canto come un incoraggiamento e forse come un grazie per quello che stavo facendo.
Finalmente arrivati alla sua casa, con l'aiuto della moglie e dei suoi bambini, lo coricammo a letto e coperto bene.
Uscii da quella casa con tanti interrogativi.
Dopo alcuni giorni lo incontrai; mi chiese scusa e mi ringraziò per quanto avevo fatto.
Ma la cosa più bella fu la richiesta di aiuto per uscire da quella situazione che lo umiliava, ma che non aveva né la forza, né il coraggio di affrontare da solo … ».
Ci sono punti in comune fra queste esperienze?
Uno, principalmente: non credersi inutili o inadatti alla necessità che nel momento presente si palesa.
Il Signore sa dare la forza e anche l'astuzia necessarie; e fa trovare, alla fine, anche un « grazie ».
Luoghi di frontiera, esperienze estreme: ma non ci sono soltanto dolore, male da contrastare, lacrime da raccogliere e asciugare.
Esistono anche esperienze di grande bellezza, quelle attinenti, ad esempio, al « mistero » della vita.
Anna aiuta i bambini a venire al mondo, è un'ostetrica, professione antichissima, oggi grandemente rivalutata: dopo le esperienze di « medicalizzazione » quasi assoluta della maternità, in cui le ostetriche avevano un posto ai margini, questa figura professionale è rimessa al suo posto di responsabilità specialmente nelle nuove esperienze di parto « naturale ».
Dice Anna: « L'assistere al travaglio e al parto è per me un'esperienza forte che mi coinvolge tutta: come donna, come cristiana …
L'accompagnare queste persone, queste coppie nell'avventura sofferta e bella, piena di tensioni e paure, senso del mistero, fascino e stupore e meraviglia che è la nascita di un figlio, mi fa sperimentare la 'fraternità con tutti gli uomini'.
Fraternità che è fatta di fiducia in ciò che io opero, dico e so e, da parte mia, disponibilità, accoglienza, comprensione, intuizione del bisogno insieme alla preoccupazione affinché tutto finisca nel migliore dei modi …
Cerco di 'stare' con la mamma da donna come lei, condividendo la gioia e l'ansia di ciò che sta avvenendo; da sorella e amica sostenendola nella fatica e facendole dono dell'esperienza e della tranquillità di chi ha vissuto tante volte questo momento.
Mi sento molto vicina al babbo, così 'perso' e spaurito di fronte a questo evento vissuto da sempre solo da donne; mi sento solidale con lui nel suo essere impotente di fronte alla sofferenza e fatica della sua donna, di colei che ama.
La condivisione con lui mi coinvolge in modo diverso: c'è uno scambio di emozioni, di sentimenti e di affetto che ci completano e arricchiscono l'un l'altra; il maschile e il femminile si compenetrano e danno pienezza.
Il momento culminante del nostro vivere insieme questo pezzetti di vita, è quando il mistero si compie: … inizia una nuova esistenza!
L'esplosione della gioia e della commozione è inevitabile.
E, per me, questo bambino che prende vita tra le mie mani è sempre oggetto di stupore e di contemplazione.
… Ogni volta è ripensare all'incarnazione di Cristo in un uomo così piccolo, è un celebrare la vita che si rinnova, è lodare Colui che non è stanco dell'uomo, Colui che ci da fiducia, è un contemplare la speranza.
C'è in me un senso profondo di meraviglia e di gratitudine di fronte a questo Dio che vuole aver bisogno di lei e di lui e di me, ognuno con la sua vocazione, per ridire al mondo il suo Amore.
… Questo stare ogni giorno a contatto con la maternità mi fa continuamente crescere, mi aiuta a conoscermi e ad accogliermi nella mia femminilità e corporeità fatta perché creata per accogliere, donare, far crescere la vita; mi fa essere ogni giorno più grata per la bellezza e la ricchezza del mio 'essere donna' … ».
Il mistero grande della vita al suo esordio colpisce e coinvolge ogni fibra, in modo diverso e reciproco uomini e donne.
La vita si sviluppa a mano a mano che il tempo passa: e la piccola persona chiede di essere educata, accompagnata cioè a scoprire in sé tutte le potenzialità che il Signore ha piantato, come in un campo meraviglioso.
Vera è un'insegnante elementare, si occupa cioè dei bambini nella fase più delicata della loro « carriera » di « apprendisti del vivere ».
A Vera è anche toccato il compito di affrontare una scuola in cambiamento profondo: fino a poco tempo fa la « signora maestra » era il punto di riferimento unico per gli alunni delle elementari; ora non più, anche i più piccoli hanno un « team docente »; l'orario è prolungato.
Racconta Vera: « Sperimento così la fatica di fronte a inevitabili difficoltà, ma, nello stesso tempo, sento sorgere in me nuovi atteggiamenti, nuove possibilità di rapporto con i colleghi che non avevo ancora provato e che ci aiutano reciprocamente a migliorare il nostro modo di essere e di operare.
Anche il rapporto con gli alunni, in un contesto che cambia, subisce delle modifiche e spesso la preoccupazione delle tante cose da fare mette in ombra proprio lui, il bambino.
A volte, quando la fatica e la stanchezza sembrano prendere il sopravvento su tutta l'esperienza, sento risuonare dentro di me le parole di Gesù: 'Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli'.
… Passano davanti a me, uno ad uno, i miei alunni e vedo occhi limpidi, luccicanti, davanti a una scoperta appena fatta nel vasto mondo delle conoscenze e una spontanea esplosione di soddisfazione e di gioia: 'ho capito!'.
Sento le domande incalzanti; i 'perché' dei bambini sono noti a tutti, ma ogni volta la richiesta si carica di accenti nuovi.
Sento la voglia di giocare, spesso incontenibile.
Sento la proposta di organizzare il lavoro in modo da dare spazio allo stare insieme, alla collaborazione di gruppo …
Ascolto le osservazioni, a volte profonde e sconcertanti, sulla vita di oggi e sento esprimere paure e incertezze, bisogno di sicurezza e di amore.
Vedo la capacità di ristabilire la pace dopo un litigio …
Sento ritornare in me la pace ».
Nei neonati, nei bambini la vita è visibile, le trasformazioni sono palpabili, la possibilità di accoglierli, di aiutarli a diventare uomini e donne è lì, a portata di mano.
Diverso, ma non meno esaltante, è stare dove si ricercano le origini della vita, le risposte ai 'perché' che ci portiamo dentro nella nostra esistenza di adulti, quei 'perché' che hanno fatto progredire le conoscenze dell'uomo su di sé, sul mondo che lo circonda.
È sicuramente esagerato parlare della ricerca scientifica come si è fatto fino a qualche tempo fa in termini di assoluto; la fede nelle « magnifiche sorti e progressive » del nostro mondo, cui l'Illuminismo e il positivismo d'inizio secolo ci avevano portato, è caduta da un pezzo, abbiamo finalmente imparato ( forse ) a relativizzare scienza e tecniche.
Attribuire loro un valore « relativo » non vuoi dire, però, cancellarne il valore.
Significa invece riportarle al loro posto di « mezzi », di strumenti a disposizione dell'umanità.
Omelia si occupa di ricerca scientifica in un laboratorio; ed è dentro le mura di un laboratorio che vive la sua « verità » di donna consacrata: « Scoprire tutta la perfezione che è in noi, anche solo sotto l'aspetto strutturale, mi riempie di meraviglia.
Scoprire che basta una piccola alterazione per evidenziare la 'fragilità' del nostro essere mi pone tanti interrogativi.
La scienza farà passi che oggi non possiamo neppure immaginare, fornirà all'uomo strumenti sempre più sofisticati per intervenire sulla vita ».
Nel suo racconto Omelia fa toccare con mano come anche gli strumenti di una professione possono diventare strumenti di percezione della mano del Signore.
Dice infatti ancora: « Il laboratorio fa parte del mio mondo, non è solo il luogo della mia professione »; il laboratorio, che la impegna per la gran parte del suo tempo, è diventato il luogo in cui fare unità fra i diversi momenti della vita: « lavoro, preghiera, impegni sociali e di volontariato.
… Così è nata l'esigenza di cercare proprio qui le risorse, le motivazioni, le espressioni del mio essere cristiana.
… Nel laboratorio avverto sempre più che non c'è contraddizione tra la ricerca di come siamo, della struttura della nostra composizione fino a livello molecolare e la ricerca di chi è Dio e di quale posto occupa nella nostra vita ».
La ricerca scientifica potrebbe dare un senso di onnipotenza, quella stessa che forse ha spinto i Progenitori a mangiare il frutto di « quell'albero ».
Ma non se si ha fede: « La scienza » ci dice ancora Omelia « apre orizzonti che svelano un mistero sempre più grande.
'L'avanzata sperimentale' continuerà, ma non potrà mai dire all'uomo il senso ultimo dell'esistenza, anche se purtroppo gli potrà insegnare come 'modellare' la vita già a livello genetico.
Questo è un grosso problema che tuttavia non si risolve fermando la scienza.
Credo che gli scienziati debbano essere aiutati a capire il senso della vita.
'Comprendere il senso della vita': è un grosso impegno non solo per chi è a più stretto contatto col mondo della ricerca, ma è un impegno sociale che coinvolge tutti ».
Anche in queste tre esperienze è facile trovare un « filo rosso » comune: il senso del mistero che ci sorprende ogni volta che ci fermiamo a riflettere sul « senso » della vita; quella che lascia il protettivo utero materno per abbandonarsi alle mani provvide di una levatrice, quella affidata per essere educata a un « team docente », quella che si ritrova in una provetta allo stato di molecola, di cellula, di nucleo, di DNA.
Un miracolo quotidiano, invisibile perché ordinario, atteso, ma pur sempre un miracolo.
Come ogni racconto anche questo ha una sua « morale »
Abbiamo gettato lo sguardo su itinerari diversi: come diverse sono le persone che li compiono ogni giorno alla ricerca del proprio « senso della vita », in risposta a quella chiamata che hanno sentito dentro di sé a un certo punto in modo più netto, tanto netto da farle decidere per una completa e assoluta dedizione al Signore.
Sarà facile per il lettore accorgersi di una sorta di anomalia: sono tutte esperienze al femminile.
Un caso, una scelta di discriminazione per il mondo maschile, una ghettizzazione di « genere »?
Un caso, forse, ma un caso fortunato: perché questa declinazione tutta al femminile intorno alle « vite di frontiera » ci permette un'operazione rara, quella di scoprire come i « luoghi comuni » intorno alla femminilità, i « ruoli fissi » appiccicati alla donna come « naturali » ( mentre con buona probabilità sono soltanto « culturali » ) possano trasformarsi da luoghi di discriminazione, cioè di negatività, in positività.
Oblatività, senso del sacrificio, capacità di accoglienza, genitorialità: caratteristiche non soltanto femminili beninteso, ma vissute sicuramente dalla metà femminile del cielo con maggiore intensità, sono diventate in queste donne il momento esemplare in cui vivere la propria vocazione, il luogo in cui la propria vita assume chiaramente il suo « senso ».
Queste donne hanno preso in mano ciò che poteva essere condanna, per farlo diventare momento della più alta, personale, profonda « compagnia con Dio ».
Ciò che poteva essere un ruolo « subito » è diventato una scelta.
Potrebbe tutto questo essere appannaggio maschile?
Probabilmente sì: però al punto in cui si modella la storia dell'umanità, al punto in cui siamo nella nostra cultura occidentale, è operazione più chiara per la donna, e ancora più per la donna consacrata.
Compagnia di San Paolo
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