Il paradosso delle Beatitudini |
di Anna Maria Canopi
Forse nessuna pagina del Vangelo ha raggiunto un'ampia divulgazione e notorietà pari a quella delle beatitudini.
Il discorso della montagna richiama in certo modo quello di Mosè dopo la promulgazione della Legge, da parte di Dio, sul monte Sinai.
Si tratta di una « magna charta », di una consegna riguardante la condotta dei seguaci di Cristo, i quali vivono in una perpetua e irriducibile tensione tra la situazione presente, in un mondo empio e ostile, e quella futura, dell'eterna beatitudine, raggiungibile con la fedele osservanza della legge del Signore e la totale dedizione alle cause del suo Regno di giustizia e di pace, di verità e di amore.
Tutte le beatitudini sono formulate in modo che risulti chiaramente evidenziata questa tensione escatologica in un contesto attuale di estrema precarietà.
« Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti … Beati …».
I beni della vita futura non sono però soltanto « visti da lontano », ma in certo modo già anticipati e goduti nella speranza.
E questo perché la speranza cristiana non è un'utopia, un sogno o un'illusione, ma una reale partecipazione, in Cristo risorto, all'eredità della vita eterna.
Vedendo le folle che lo seguivano, avide di ascoltarlo, Gesù salì sulla montagna e prese ad ammaestrarle.
Il discorso gli sgorgò dal cuore proprio posando lo sguardo su tutta quella povera gente che portava i segni di molte tribolazioni e proprio per questo era avida di ascoltare da qualcuno un messaggio di consolazione.
Una situazione ricorrente che, ai nostri giorni, è resa nota dai mass media nella sua enorme dimensione mondiale.
E forse non meno che ai tempi di Gesù, oggi le moltitudini dei poveri e tribolati cercano - più o meno consapevolmente - una possibilità di sopravvivenza in qualsiasi messaggio religioso o ideologico, sociale o politico che venga loro offerto.
Si tratta, purtroppo, di altre « beatitudini » svendute a buon mercato, ma che sono di fatto fuochi d'artificio, effimeri quanto vistosi e abbaglianti.
Oppressa dalla stessa eccedenza prodotta dal progresso tecnico e scientifico, e soprattutto delusa nel presuntuoso tentativo di carpire le chiavi del mistero dell'essere e della vita, l'umanità del nostro tempo ha, sia pur confusamente, una struggente nostalgia di semplicità e di sobrietà, di ritorno a uno stile di vita che sia a misura d'uomo - non di superuomo - e che permetta di guardare al futuro, immediato e lontano, con la sicurezza di chi lo sa non in balia delle orgogliose progettazioni umane, ma guidato dalla provvida e sapiente regia di un Dio creatore e salvatore.
Beati i poveri in spirito … ! Non il possedere molto qui, ora, ma l'essere insieme con tutti gli altri uomini impegnati nella collaborazione per fare dei beni di questo mondo un mezzo idoneo a raggiungere quelli del regno dei cieli.
Quali sono, allora, i « poveri » di oggi che, anelando a quel possesso, si tengono liberi dalle nuove schiavitù e idolatrie che proliferano senza misura sotto l'influsso di una mentalità dominata dall'egoismo e dall'utilitarismo?
È una domanda cui si vorrebbe trovare una risposta chiara e concreta specialmente nell'ambiente cristiano.
Le beatitudini urtano fortemente contro la logica dell'autoaffermazione e della prepotenza che sta alla radice di tutte le tensioni in atto nella società - di oggi come di ieri - quando rifiuta la relazione di dipendenza da Dio.
Esse operano un profondo sconvolgimento in coloro che accolgono il Regno come un seme e si aprono nella speranza del fiore e del frutto che tale seme darà.
Il fascino di questa « novità » promana dalla stessa persona di Gesù nel quale tutte le beatitudini hanno piena realizzazione.
Nessuno più di lui è vissuto sulla terra in totale apertura al Cielo - cioè al Padre, nello Spirito - essendo il Verbo divino venuto nella carne per introdurre nel nuovo « eone » l'umanità e il cosmo riscattati dal disordine e dalla caducità causati dal peccato ( Rm 8,18-27 ).
È proprio questo processo di rinnovamento e di trasformazione - che avviene sotto l'azione dello Spirito Santo - a rendere possibile la gioia nella sofferenza, la « speranza contro ogni speranza » nella drammaticità delle situazioni in cui il cristiano si trova a vivere e a testimoniare la propria fede.
Quanto più la mentalità del mondo esalta, ad esempio, la ricchezza, la forza, la potenza e le persegue calpestando senza scrupoli la verità e la giustizia, la libertà e la pace, tanto più il cristiano, che voglia essere tale non solo di nome ma anche di fatto, deve affrontare il conflitto che si crea nel rifiuto dei falsi valori e nell'assunzione di quelli veri.
La povertà in spirito - che è la beatitudine nella quale si possono vedere incluse tutte le altre - rende veramente liberi e quindi capaci di trascendere le cose provvisorie, ossia di scorgere in esse l'ambiguità ed evitare di subirne i più rischiosi condizionamenti.
È allora che si realizza la parola di Gesù: « Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà.
Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia.
La donna, quando partorisce è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo » ( Gv 16,20-21 ).
Il figlio di Dio, l'uomo nuovo, libero e felice è il risultato di una dolorosa gestazione.
Beati i poveri in spirito …, quindi beati gli afflitti, i miti, i perseguitati per amore della giustizia, ossia per la ricerca sincera di Dio, del suo regno di santità, di amore e di pace.
Beati, sì, ma a prezzo di una lotta incessante, di un travaglio quaggiù mai pienamente risolto.
Il presente e il futuro dei verbi delle beatitudini indicano appunto questo già e non ancora che tiene in forte tensione la vita del cristiano nel mondo.
Sta qui la ragione dell'angoscia che non risparmia nemmeno quanti, secondo un certo modo di intendere la vita di fede, dovrebbero avere un'incrollabile sicurezza davanti alle alterne vicende della storia.
Di fatto sono molti i cristiani che sembrano fare naufragio insieme a quelli che non credono.
Segno di debolezza o mistero di solidarietà?
L'uno e l'altro, forse, poiché nella Chiesa continua il mistero dell'incarnazione, il coinvolgimento di Cristo con la precarietà della condizione umana, il suo inabissarsi nell'estrema povertà e miseria dell'uomo, il suo 'grido dal profondo' della solitudine e dello smarrimento: « Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? ».
È infatti nel suo corpo mistico che Egli prolunga sulla terra, fino alla consumazione dei secoli, la sua kenosi.
Ma questa è ormai per sempre attraversata dal raggio della nuova luce esplosa dal sepolcro rimasto vuoto.
Per quanto oscura, l'angoscia del cristiano non può più essere senza uno spiraglio di speranza; per quanto amara, non può più essere senza un qualche sapore di beatitudine.
Lo si può constatare ogni giorno nel vedere come, in analoghe situazioni di prova, si comportano le persone che credono veramente o che non credono.
Si tratti di una grave malattia o di drammi familiari o sofferenze morali, tutto può essere vissuto in una prospettiva diversa, secondo la concezione che si ha della vita.
Per chi crede in Dio e nella vita eterna « le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi » ( Rm 8,18 ); esse sono anzi il mezzo provvidenziale scelto da Dio « allo scopo di renderci partecipi della sua santità » ( Eb 12,10 ), poiché lo stesso Verbo incarnato - rivestito della nostra debolezza ( Eb 5,3 ) - è stato reso perfetto mediante la sofferenza fino alla morte, a vantaggio di tutti, cioè per « portare molti figli alla gloria » ( Eb 2,9-10 ).
In questo modo di situarsi tra il presente e il futuro, come sulla frontiera dell'angoscia che sfocia nell'impossibile speranza, il cristiano non evade dalla cruda realtà del quotidiano e quindi dall'impegno di costruire la storia, lo fa anzi con maggiore efficacia tenendosi costantemente orientato verso il fine che le da senso e valore.
A proposito della beatitudine degli operatori di pace - che include quella dei poveri, degli afflitti, dei miti, dei puri di cuore, dei perseguitati per amore della giustizia … - Olivier Clément poté affermare: « La dolcezza dei forti trasforma l'uomo in un albero di pace [ … ].
Il nostro tempo ha bisogno di uomini che siano come alberi, carichi di una pace silenziosa che metta radici contemporaneamente in piena terra e in pieno cielo » ( Riflessioni sull'uomo, Jaca Book, Milano 1975, p. 28 ).
Mettere radici contemporaneamente in piena terra e in pieno cielo non significa affatto tenere il piede in due staffe, scendere cioè al compromesso di non essere ne totalmente di Dio ne totalmente del mondo.
È invece lo sforzo continuo di trasfigurare le realtà presenti impregnandole di spirito di fede, immergendole nella grazia, facendo loro compiere, insieme con noi, il passaggio liberatore ( Rm 8 ).
E non è proprio questa la dimensione contemplativa che svela il vero volto della Chiesa pellegrinante nella storia verso l'escaton e la ricapitolazione di tutto in Dio?
Quali conseguenze si avrebbero a tutti i livelli della vita sociale, politica, ecclesiale, familiare … se il Vangelo delle beatitudini forgiasse veramente le menti e i cuori dei credenti! Il capovolgimento della logica che traspare dal discorso della montagna è tale da richiedere a ciascuno una profonda conversione, una metanoia senza concessioni al vecchio uomo.
Giustamente osserva J. Dupont che « le beatitudini, portatrici di un messaggio teologico e cristologico, di un insegnamento che richiede una trasformazione delle nostre maniere di pensare e di agire, sono anzitutto una proclamazione di felicità.
Non dobbiamo dimenticarlo.
Proclamazione di felicità e non solo promessa di felicità.
Le beatitudini proclamano beati quelli di cui parlano.
I poveri … sono beati e lo sono effettivamente nel momento in cui viene loro detto.
Tutt'al più questi hanno bisogno di prenderne coscienza » ( 'Le beatitudini', EP, voi. n, pp. 1055-1056 ).
È questo bisogno che molti hanno di prenderne coscienza a far sentire l'urgenza di una nuova evangelizzazione.
Ogni indugio in questo impegno lascia sempre più spazio ad altre proposte ( sètte, religioni esoteriche, magia ecc. ) che offrono illusioni di felicità e hanno facile accoglimento in mezzo a tanta gente pressata dalle prove della vita e priva di autentica formazione cristiana.
Tale è il bisogno che l'uomo del nostro tempo ha di trovare uno sbocco al non-senso e all'infelicità che lo invade, da non darsi il tempo di riflettere e di discernere: si aggrappa a ciò che si trova davanti come a un'ancora di salvezza, e spesso vi trova la totale alienazione.
Non rientra forse in questo anche il fenomeno dilagante della droga?
Si cerca un 'paradiso' effimero quanto un respiro cui segue la morte!
L'impazienza, l'incapacità di sopportare ogni genere di sofferenza spinge a buttarsi nell'opposta direzione della salvezza.
Se, infatti, si perde la prospettiva del futuro e il contatto con il mistero di Cristo redentore, nessuna delle situazioni presentate dalle beatitudini appare accettabile.
All'orizzonte delle beatitudini c'è il regno di Dio, c'è un futuro legato a una promessa che impegna chi la riceve a vivere in conformità al Vangelo, a Cristo stesso, nel quale ogni beatitudine ha raggiunto il massimo splendore attraverso il patire.
Proprio per questo Egli è la nostra 'beata Speranza'.
La paziente attesa del pieno compimento della gioia promessa comporta un continuo superamento della logica puramente umana, soprattutto della logica dell'utilitarismo egoistico.
Si potrebbe perciò affermare che tutte le beatitudini - già strettamente coordinate tra di loro e quasi intrinseche le une alle altre - si concentrano sostanzialmente nell'unica, sovrana beatitudine dell'amore.
È questa che ci fa varcare la frontiera della morte e che ci fa vincere « in virtù di Colui che ci ha amati » ( Rm 8,35-59 ), poiché in forza dell'amore diventiamo capaci di passare attraverso «la tribolazione, l'angoscia, la fame, la nudità, il pericolo, la spada », senza venir meno, senza rinnegare la nostra identità di cristiani.
Nella gioia del regno eterno si entra quindi fin d'ora, istante per istante, a condizione di essere 'servi fedeli' che lavorano alacremente, vigilando giorno e notte per non cedere alla tentazione della stanchezza e del disamore durante l'assenza del Padrone.
L'amore che persevera nella fedeltà a tutta prova è già beatitudine per chi ama, perché è la Realtà che rimane in eterno e ci fa quindi già fissare lo sguardo 'sulle cose invisibili', su Dio stesso ( 2 Cor 4,17-18; Eb 12,1-4.22-24 ).
Infatti « non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura » ( Eb 13,14 ) e già ci andiamo configurando ad essa quali cittadini del cielo che sono sulla terra come 'coloni'.
Mentre si va già delineando in noi l'immagine dell'uomo celeste ( 1 Cor 15,49; 2 Cor 5,1-5 ); pregustiamo la gioia della piena comunione con Dio e tutti i suoi santi.
Vivere nello spirito delle beatitudini evangeliche significa, quindi, rendere visibile fin d'ora - almeno in trasparenza - il mondo nuovo, anticipare nel gemito il canto dei redenti, nel pianto il sorriso di coloro ai quali Dio stesso tergerà le lacrime, nella dura fatica del combattimento della fede la pace della vittoria riportata dall'amore su tutte le forze ostili del male.
L'amore, l'agape divina, straripando dal seno della SS. Trinità si è riversata sulla terra.
Il fiume limaccioso uscito dalla bocca del drago ha tentato e ancora tenta di ingoiarlo, ma non ha potuto e non potrà mai prevalere.
Le acque vive dell'agape divina zampillano nel cuore della Chiesa, nel cuore dei credenti, e il loro canto è lo stesso che udirono gli ebrei al passaggio del Mar Rosso e del Giordano, lo stesso che risuona nella Gerusalemme celeste sulla bocca di coloro che hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell'Agnello ( Ap 7,14 ).
Beatitudine dell'amore raggiunta in pienezza attraverso il combattimento della fede e la sfida dell'impossibile speranza, attraverso la trama della storia, ciascuno avanzando a piccoli passi, ma lasciando una chiara impronta indicante la giusta direzione a quelli che passeranno dopo, anch'essi feriti dalla nostalgia della vera felicità, che è solo in Dio, anzi: Dio solo.
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