Osservazioni sulla morale Cattolica

Capitolo VIII

Sulla dottrina della penitenza

La dottrina della penitenza fu causa di un nuovo sovvertimento nella morale, già sconvolta dalla distinzione arbitraria dei peccati.

Senza dubbio era promessa consolante per il ritorno alla virtù, la promessa del perdono celeste; e questa opinione è talmente conforme ai bisogni e alle debolezze dell'uomo, che ha fatto parte di tutte le religioni.

Ma i casisti avevano snaturata quella dottrina con imporre forme precise alla Penitenza, alla confessione ed all'assoluzione.

Un solo atto di fede e di fervore fu dichiarato sufficiente per cancellare una lunga lista di delitti.

Non avendo l'erudizione necessaria per discutere l'asserzione dell'illustre autore, che la promessa del perdono celeste per il ritorno alla virtù è un'opinione comune a tutte le religioni, la lascio da una parte.

Da quel poco che ho raccolto nei libri, sulle varie religioni e sulla pagana in ispecie, m'è rimasta l'idea che alcune avessero delle cerimonie, per mezzo delle quali si potessero espiare le colpe, senza che ci abbisognasse il ritorno alla virtù; e che l'idea della conversione si deva, non meno che la parola, alla religione cristiana.

A ogni modo una tale questione, quantunque importante, non ha una relazione necessaria con l'argomento; e si può, senza toccarla, difendere pienissimamente la dottrina cattolica sulla penitenza dalle censure che qui le vengono fatte: anzi queste saranno un'occasione per mettere in chiaro la sua somma ragionevolezza e perfezione.

Tre sono principalmente queste accuse:

che l'avere imposte forme precise alla penitenza ne abbia snaturata la dottrina;

che i casisti abbiano imposte queste forme;

che un atto di fede e di fervore sia stato dichiarato bastante a cancellare i delitti.

Noi le esamineremo partitamente, non seguendo però l'ordine con cui sono presentate, ma quello che ci pare più adattato all'intento d'esporre la vera dottrina della Chiesa su questo punto.

1. Chi abbia imposte forme precise alla penitenza.

Dall'essere nel Vangelo espressamente data ai ministri l'autorità di rimettere e di ritenere i peccati, ne segue la necessità di forme per esercitarla; ma chi ha potuto imporre queste forme?

Se i casisti si fossero arrogato un tale diritto, avrebbero alterata tutta l'economia del governo spirituale; ma come si può supporre che i casisti, i quali non costituiscono un corpo, e non hanno alcun mezzo di deliberare in comune, si siano intesi a stabilire queste forme con gli stessi princìpi, e in una stessa maniera?

Come si può supporre che tutte le chiese le abbiano ricevute da persone senza autorità, che le autorità stesse ci si siano assoggettate, di maniera che nessuna se ne crede esente?

che i papi stessi si siano lasciati imporre da loro una legge, per la quale si confessano ai piedi d'un loro inferiore, e ne implorano l'assoluzione, e ne ricevono le penitenze?

Oltre di che, come mai si può supporre che i Greci, pur troppo divisi, e divisi qualche secolo prima che si parlasse di casisti, abbiano poi accettate da questi le forme della penitenza, che hanno comuni con noi in tutte le parti essenziali?

In che tempo i casisti hanno commesso quest'atto d'usurpazione?

Finalmente, come si esercitava l'autorità di sciogliere e di legare prima che venissero i casisti a inventarne le forme?

Le forme della penitenza, della confessione e dell'assoluzione sono state imposte dalla Chiesa fino dalla sua origine, come lo attesta la sua storia: né poteva essere altrimenti; giacché senza di esse è impossibile l'esercizio dell'autorità d'assolvere e di ritenere i peccati; ed é impossibile immaginarne di più semplici e di più conformi allo spirito di quest'autorità; come è impossibile immaginare chi, se non la Chiesa, avrebbe potuto ingerirsi a regolare un tale esercizio.

2. Condizioni della penitenza secondo la dottrina cattolica.

Veniamo ora alla dottrina che è tacciata d'aver corrotta la morale; e vediamo se è quella della Chiesa.

Un solo atto di fede e di fervore fu dichiarato bastante a cancellare una lunga lista di delitti.

Di questa opinione, una parte è stata condannata; l'altra parte, né la proposizione intera, non è stata insegnata mai.

In quanto alla prima, basti per ora ricordare che il concilio di Trento proscrisse la dottrina che l'empio sia giustificato con la sola fede, e la chiamò vana fiducia e aliena da ogni pietà.

In quanto alla proposizione intera, non solo nessun concilio, nessun decreto pontificio, nessun catechismo, ma, ardirei dire, nessun libricciolo di divozione ha dettto mai che un atto di fede e di fervore basti a cancellare i peccati.

È bensì dottrina della Chiesa che possono esser cancellati dalla contrizione, col proposito di ricorrere, appena si possa, alla penitenza sacramentale.

Chi credesse che questa sia una questione di parole s'ingannerebbe di molto: è questione di idee quanto nessun'altra.

Fervore non significa altro che intensità e forza d'un sentimento: suppone bensì per l'ordinario un sentimento pio, ma non ne individua la qualità; contrizione invece esprime un sentimento preciso.

Attribuire quindi al fervore l'effetto di cancellare i peccati, sarebbe proporre un'idea confusa e indeterminata, e che non ha una relazione immediata con quest'effetto; attribuirlo alla contrizione, è specificare quel sentimento che, secondo le Scritture e le nozioni della ragione illuminata da esse, dispone l'animo del peccatore a ricevere la giustificazione.

Per avere dunque un'idea giusta della fede cattolica in questa materia, bisogna cercare cosa sia la contrizione, e cercarlo nelle definizioni della Chiesa:

« La contrizione è un dolore dell'animo, una detestazione del peccato commesso, col proponimento di non peccar più … Dichiara il Santo Sinodo che questa contrizione contiene, non solo la cessazione dal peccato, e il proponimento e il principio d'una vita nova, ma l'odio della passata …

Insegna inoltre che, quantunque avvenga qualche volta, che questa contrizione sia perfetta di carità, e riconcilii l'uomo a Dio, prima che questo sacramento ( della penitenza ) sia ricevuto in fatto, non si deve attribuire la riconciliazione alla contrizione, senza il voto del sacramento, che è inchiuso in essa ».

La ragione sola non poteva certamente trovare questa dottrina, perchè il suo fondamento è nella carità, la quale è fondata essa medesima in quella più elevata e più pura cognizione di Dio, e delle relazioni dell'uomo con Dio, che non poteva venirci se non dalla rivelazione.

Ma quando questa dottrina le sia annunziata, la ragione è costretta, o ad approvarla, o a rinnegare le sue proprie e più evidenti nozioni.

L'uomo che trasgredisce i comandamenti di Dio, gli diviene nemico, e si rende ingiusto.

Ma quando riconosce i suoi falli, ne è dolente, li detesta e, ciò che viene di conseguenza, propone di non commetterne più; quando propone di ritornare a Dio per quei mezzi che, nella sua misericordia, Dio ha instituiti a ciò; quando propone di soddisfare alla giustizia divina, di rimediare, per quanto può, al mal fatto, allora non è più, per dir così, lo stesso uomo, non è più ingiusto; tanto è vero che, non solo del peccato in generale, ma dei suoi propri in particolare, ha un sentimento dello stesso genere che ne ha Dio, fonte d'ogni giustizia.

È dunque sommamente ragionevole che quest'uomo così mutato sia riconciliato a Dio.

Ma la conseguenza immorale di questa dottrina, è stato detto tante volte, è che molti credono che sia facile l'aver questo sentimento di contrizione, e s'incoraggiscono a commettere il male, per la facilità del perdono.

Perchè lo credono? Chi gliel ha detto?

Se credono alla Chiesa quando insegna che la contrizione riconcilia a Dio, perchè non le credono quando insegna che l'effetto naturale del peccato è l'indurimento del core, che il ritorno a Dio è un dono singolare della sua misericordia, che il disprezzo delle sue chiamate lo rende sempre più diffìcile?

Se, a ogni conseguenza storta che gli uomini deducono dalle dottrine della Chiesa, essa avesse voluto abbandonare una verità, per evitare un tale abuso, la Chiesa le avrebbe da gran tempo abbandonate tutte.

Essa s'oppone bensì a questo miserabile traviamento, con l'inculcarle tutte; e in questo caso singolarmente, chi può non riconoscere la sua cura materna nelle precauzioni che usa affinchè il peccatore non inganni se medesimo, e non cambi in ira i doni della misericordia?

Di queste precauzioni parleremo or ora, trattando dell'amministrazione della penitenza.

Ci si permetta intanto d'osservar qui un esempio dell'instabilità, anzi della contraddizione che si trova non di rado nell'accuse fatte alla dottrina della Chiesa.

Ciò potrà servire, dei resto, a provare in un'altra maniera la verità di quella di cui si tratta.

Quelli tra i novatori del secolo XVI, ch'ebbero più seguito, combatterono appunto, quasi dal principio, la dottrina cattolica della penitenza, e sopratutto la parte che la contrizione deve avere in questa.

E con quali argomenti?

Forse come una dottrina che lusingasse le passioni, che offrisse al vizioso un mezzo tanto illusorio in effetto, quanto facile in apparenza, di cancellare una lunga lista di delitti?

Tutt'altro, anzi l'opposto.

La combatterono come dura, come tirannica, come tale che imponesse arbitrariamente alle coscienze una legge impossibile ad adempirsi.

È un'ingiuria al Sacramento, e un strumento di disperazione, il non credere efficace l'assoluzione, se non è certa la contrizione, disse Lutero nelle sue tesi.

Per la ricerca della verità e per consolare le coscienze aggravate.

Calvino accusò ugualmente la dottrina cattolica che richiede la contrizione per la remissione dei peccati, di tormentare e d'agitare stranamente le coscienze, di ridurle a dibattersi con se stesse, e ad affannarsi in lunghi contrasti, senza trovar mai un porto, dove finalmente posarsi.

E quale dottrina vollero poi sostituire alla cattolica, così riprovata da loro?

Quella appunto che abbiam visto essere, così a torto, attribuita ai cattolici, e che i cattolici non conoscono, se non per la condanna della Chiesa, cioè che il peccatore sia giustificato per la sola fede.

E si noti che, attribuendo alla fede l'efficacia, non solo sufficiente, ma unica e esclusiva, di cancellare i peccati, intendevano per fede il credere ognuno, con intera sicurezza, che i suoi peccati gli siano rimessi, in virtù della promessa del Redentore.

Ecco alcuna delle proposizioni di Lutero su questo proposito.

È certo che i peccati ti sono rimessi, se li credi rimessi; perche è certa la promessa di Cristo Salvatore.

- Vedi quanto sia ricco l'uomo cristiano a battezzato, che, anche volendo, non può perdere la sua salvezza, con quanti peccati si sia, solo che non voglia lasciar di credere; poiché nessun peccato lo può dannare, se non la sola incredulità.

- Secondo l'ordine istituito da Cristo, non c'è altro peccato che l'incredulità, ne altra giustizia che la fede.

- La sola fede in Cristo c'è necessaria per esser giusti.

- Calvino affermò ugualmente, e sostenne che l'Vuomo è giustificato per la sola fede, intesa nella stessa maniera, cercando poi d'eludere alcune delle conseguenze naturali d'una tale dottrina.

E su cosa si fondava poi l'accusa che facevano alla dottrina cattolica d'imporre alla penitenza una condizione impossibile?

Unicamente sulla autorità di questo loro domma medesimo, cioè sulla supposizione, che per ottenere la remissione dei peccati sia necessario credere, con certezza di fede, che siano rimessi; e che sia, per conseguenza, necessario il credere, con uguale certezza, d'avere adempita la condizione richiesta.

E non c'è dubbio che, posta una legge simile, la condizione voluta dalla dottrina cattolica sarebbe, in regola generale, impossibile a adempiersi; giacché qual uomo, senza una particolare rivelazione, senza che l'infallibile Conoscitore dei nascondigli del core gli abbia detto: Tu hai amato molto, e perciò ti sono rimessi i tuoi peccati ( Lc 7,47-48 ), qual uomo può conoscere, con certezza assoluta e di fede, d'avere una contrizione adequata delle sue colpe?

Senonchè, con una legge simile, non la sola contrizione, ma qualunque condizione sarebbe impossibile; giacché qual uomo può conoscere, con certezza assoluta e di fede, la perfezione e, dirò così, l'adequatezza d'un suo sentimento qualunque?

E quindi impossibile anche la condizione predicata dai due novatori, come unica e sufficiente, cioè la fede.

Ho qui il vantaggio di potermi servire di parole del Bossuet: « Ma ( risponde a Lutero ) il fedele può dire: io credo, e così la sua a fede gli riesce sensibile; come se lo stesso fedele non potesse nello stesso modo dire: io mi pento, e non avesse lo stesso mezzo d'assicurarsi del proprio pentimento.

Che se poi si rispondesse che gli resta sempre il dubbio di essersi pentito davvero, io direi altrettanto della fede; e tutto finisce nel concludere che a il peccatore si tiene sicuro della propria giustificazione, senza poter esser sicuro di aver compito, come abbisogna, la condizione che Dio esigeva da lui per ottenerla ».

E non si prenda questo per un semplice argomento ad hominem, col quale si possa bensì render comune la difficoltà all'avversario, ma senza levarla da sé.

La difficoltà cade tutta quanta sulla dottrina che vuol imporre quella legge; non tocca appunto la dottrina cattolica, la quale non l'ha mai ne immaginata, né accettata; e secondo la quale, il fedele, applicando la fede al suo oggetto proprio, escludendola da ciò che non lo é, né lo può essere, crede la remissione dei peccati, e, pentito, spera d'averla ottenuta, per i meriti del Redentore.

E di qui chiunque rifletta è condotto a vedere che in questa dottrina sola può trovare il suo luogo la speranza; essendo una cosa d'immediata evidenza, che la certezza l'esclude, e che non si può, senza la più aperta contradizione, applicar l'una e l'altra a un fatto medesimo.

La quale abolizione virtuale della speranza è più manifesta nella dottrina di Calvino, il quale, o estendendo, o applicando più logicamente quel novo domma ( il che non occorre qui di ricercare ), pronunziò che, non solo della sua attuale giustificazione, ma della sua perseveranza finale, e della sua eterna salute, deva il fedele avere un'assoluta certezza.

Una bella fiducia, dice, ci rimane della nostra salvezza, se, in quanto al presente, non abbiamo che una congettura morale d'essere in grazia, e non sappiamo ciò che potrà essere nel futuro.

E più espressamente ancora in un altro luogo: In conclusione, non e veramente fedele, se non chi affidato alle promesse della divina benevolenza verso di lui, aspetta anticipatamente, con piena certezza la sua eterna salute.

E dovendo però ritenere la parola « speranza », tanto solenne e tanto ripetuta nelle Scritture, non lo potè fare, se non levandole il suo significato essenziale, e cambiandolo in una contradizione.

La speranza, disse, non è, in conclusione, altro che l'aspettativa di ciò che la fede ha creduto esser veramente promesso da Dio.

Ma l'intimo senso e il senso comune replicano, a una voce, che l'aspettativa d'un bene che uno avesse la certezza assoluta di possedere, sarebbe desiderio, non sarebbe speranza.

Ogni uomo, infatti, senza eccezione, conosce per propria esperienza e, se ce ne fosse bisogno, per un consenso non mai contradetto, uno stato dell'animo relativo a un bene desiderato e, più o meno, probabile, che è quanto dire, non certo.

Ed è appunto questo stato dell'animo, che è significato dal vocabolo « speranza »; vocabolo che ha, senza dubbio, un equivalente in tutti i linguaggi; giacché, come supporre una società d'uomini, nella quale non si senta il bisogno di significare uno stato dell'animo così universale, così frequente, così inevitabile?

Quanto non sarebbe assurdo il dire: Credo, con certezza di fede, che possederò la vita eterna, e spero d'ottenerla!

Eppure sarebbe la vera e unica maniera d'esprimere in atto la speranza cristiana, secondo quella dottrina.

E sarebbe assurdo ne più né meno il dire: Credo, con certezza di fede, la resurrezione dei morti, e spero che i morti risorgeranno.

Applicare la certezza a una promessa condizionata, e la speranza a una predizione assoluta e infallibile, sono due forme d'un assurdo medesimo, cioè della confusione di queste due distintissime essenze.

Dopo tali premesse, non c'è da maravigliarsi, per quanto la cosa sia strana, che Calvino accusi di contradizione la dottrina del Concilio di Trento, appunto perchè c'è mantenuta la distinzione tra la speranza e la certezza.

Non vogliono, dice, che alcuno si riprometta da Dio, con certezza assoluta, la perseveranza, quantunque non disapprovino il riporre in Dio una speranza fermissima.

Ma, prima di tutto, ci facciano vedere con qual cemento si possano fare stare insieme due cose tanto repuganti tra di loro, una speranza fermissima, e un'aspettativa sospesa.

Cemento tra due idee, una delle quali è inclusa nell'altra?

Perchè, di nuovo, chi non sa che la sospensione o, vogliam dire, la non certezza, è un elemento essenziale della speranza?

che questa non è altro appunto, che l'aspettativa non certa d'una cosa desiderata?

Ma dove gli par di cogliere la contradizione, è in quel « fermissima »; tanto una preoccupazione, principalmente quando è superba, può far dimenticare ciò che è impossibile d'ignorare!

Chi non sa che la speranza, come ogni altro affetto umano, è capace di gradi indefiniti?

Il linguaggio ha, per dii così, esauriti tutti gli aggiunti, è andato in cerca di tutte le figure che potessero servire, in qualche maniera, a distinguerli e a determinarli.

E, essendo poi la speranza cristiana, non un semplice affetto umano, ma una virtù soprannaturale, come non sarà desiderabile che arrivi al più alto grado?

Perciò il Concilio non si restringe a non disapprovare ( espressione che fa parer quasi una concessione quello che è un precetto ) che si riponga nell'aiuto di Dio una fermissima speranza; dice che tutti lo devono.

E la ragione del precetto è evidente.

Ogni speranza d'un bene promesso condizionatamente ( e qual promessa più espressamente e ripetutamente condizionata, di quella della salute eterna? ) si fonda, da una parte, sulla fedeltà e sulla potenza dell'autore della promessa, e dall'altra, sulla fedeltà di chi deve adempire la condizione.

Quindi la speranza cristiana dev'esser fermissima, senza paragone con nessun altro sentimento possibile dello stesso genere, in quanto si fonda sull'infallibilità e sull'onnipotenza dell'Autore della promessa; è speranza e nulla più, o, per parlar più esattamente, speranza e null'altro ( giacche la certezza non è un ultimo e supremo grado della speranza, ma un'altra essenza, e incompatibile con essa ), in quanto l'adempimento della condizione dipende dalla libera volontà dell'uomo.

Ma speranza fermissima con tutto ciò, perchè quella promessa, data per un'infinita carità, e per i meriti infiniti del Redentore, non ha per unico oggetto la ricompensa.

Imponendoci la condizione Dio non ci ha abbandonati alle sole nostre forze per adempirla; ma ha promesso ugualmente d'aiutare ogni nostro sforzo, purché sincero, e d'accordare alla preghiera tutto, senza eccezione, ciò che possa esser necessarlo a quell'adempimento.

E perchè la cognizione più elevata della verità fa trovare una concordia tra quelle verità subordinate che, a prima vista, possono parere opposte, il fedele istruito da Dio, per mezzo della Chiesa, sa che quell'incertezza la quale rimane nella speranza cristiana, anzi ne è una condizione, quell'incertezza che non ha altra ragione, che nella nostra debolezza, non solo è necessaria a mantenere l'umiltà e la vigilanza; ma ha la virtù di render più ferma la speranza medesima.

In altri termini, intende che la diffidenza di noi medesimi, se il core è veramente cristiano, serve a fortificare e accrescere la nostra fiducia in Dio.

Infatti, quanto più l'uomo conosce che debole, che incerto, che sproporzionato assegnamento possa fare sulle sue proprie forze, e insieme sa e crede che gli è, non già permesso, ma comandato di sperare; tanto più si sente mosso a volgersi e, direi quasi, a buttarsi, con un lieto abbandono, da quella parte dove tutto è forza, tutto è fedeltà, tutto è previdenza, tutto è assistenza.

Nelle speranze che hanno per oggetto i beni temporali, quei due opposti e costitutivi sentimenti, fiducia e diffidenza, fanno unicamente il loro ufizio naturale, che è di combattersi, senza mai concorrere, né direttamente né indirettamente, a uno stesso fine.

Nella speranza cristiana, ogni atto di diffidenza porta con sé la ragione d'un atto prevalente di fiducia, rimanendo la prima sempre viva e sempre vinta.

La debolezza finita, senza mai né sconoscersi, né scusarsi, anzi per l'umile confessione di sé medesima, si sente insieme e superata da un'infinita bontà, e sostenuta da un'infinita forza; avverandosi anche in questo senso il detto dell'Apostolo, che la potenza divina arriva, al suo fine per mezzo della debolezza ( 2 Cor 12,9 ).

Così la religione, che innalza al grado di virtù un affetto naturale, qual'è la speranza, dandogli per motivo la suprema Verità, e per termine il supremo Bene, ci manifesta poi, in questo caso, come in tant'altri, ciò che la ragione stessa trova necessario, anche senza conoscerne il modo; cioè che un elemento essenziale d'una virtù ( come l'incertezza lo è della speranza ) non può essere opposto alla perfezione di essa.

Oso credere che, se la dottrina della giustificazione per la sola fede fosse proposta in questi tempi, per la prima volta, con qualsiasi apparato di ragiomenti, e con qualsiasi impeto d'eloquenza, troverebbe difficilmente qualche seguace, non che tirarsi dietro l'intere popolazioni.

E credo ugualmente che ognuno sarà ora facilmente d'accordo con l'illustre autore nel riguardarla come naturalmente sovvertitrice della morale.

Credo ancora, che non avrebbe maggior seguito l'altra dottrina, o conseguente o analoga, della certezza della salute.

Ogni errore, per entrar nelle menti, ha bisogno d'un concorso particolare di circostanze, quantunque possa durare, anche mutate queste; e quantunque possano durare i suoi effetti, anche quando abbia perduta, o affatto o in gran parte, la sua forza; come durano purtroppo le dolorosissime separazioni, delle quali quei novi dommi furono quasi le prime cagioni, e, per qualche tempo, cagioni attive e potenti.

3. Spirito e effetti delle forme imposte alla penitenza.

Quali sono poi finalmente queste forme penitenziali.

La confessione delle colpe, per dare al sacerdote la cognizione dell'animo del peccatore, senza la quale è impossibile ch'egli eserciti la sua autorità;

l'imposizione dell'opere di soddisfazione;

la formula dell'assoluzione.

Io non mi propongo di farne l'apologia; giacché come può mai trovarsi a ridire in esse, che non sono altro che il mezzo più semplice, più indispensabile, più conforme all'istituzione evangelica, per applicare la misericordia di Dio, e il Sangue della propiziazione?

Farò bensì osservare, non già tutti gli effetti di questa istituzione divina ( rimettendomi alle molte opere apologetiche che ne ragionano, e alle lodi che ha avute anche da molti di quelli che non l'hanno conservata ), farò osservare principalmente quegli effetti che sono in relazione col ritorno alla virtù per i traviati, e col mantenimento della virtù nei giusti.

L'uomo caduto nella colpa ha purtroppo una tendenza a persisterci; e l'essere privato del testimonio della buona coscienza l'affligge senza migliorarlo.

Anzi è una cosa riconosciuta, che il reo aggiunge spesso colpa a colpa, per estinguere il rimorso; simile a coloro che, nella perturbazione e nel terrore dell'incendio, buttano nelle fiamme ciò che vien loro alle mani, come per soffogarle.

Il rimorso, quel sentimento che la religione con le sue speranze fa diventar contrizione, e che è tanto fecondo in sua mano, è per lo più o sterile o dannoso senza di essa.

Il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell'altra più terribile ancora: non potrai esserlo più; e riguardando la virtù come una cosa perduta, sforza l'intelletto a persuadersi che se ne può far di meno, che è un nome, che gli uomini l'esaltano perchè la trovano utile negli altri, o perchè la venerano per pregiudizio; cerca di tenere il core occupato con sentimenti viziosi che lo rassicurino, perchè i virtuosi sono un tormento per lui.

Ma per lo più quelli che vanno dicendo a sé stessi che la virtù è un nome vano, non ne sono veramente persuasi: se una voce interna annunziasse loro autorevolmente, che possono riconquistarla, la crederebbero una verità, o, per dir meglio, confesserebbero a se stessi d'averla, in fondo, creduta sempre tale.

Questo fa la religione in chi vuole ascoltarla: essa parla in nome d'un Dio che ha promesso di buttarsi dietro le spalle le iniquità del pentito: essa promette il perdono, e offre il mezzo di scontare il prezzo del peccato.

Mistero di sapienza e di misericordia! mistero che la ragione non può penetrare, ma che tutta la occupa nell'ammirarlo; mistero che, nell'inestimaftilità del prezzo della redenzione, dà un'idea infinita e dell'ingiustizia del peccato e del mezzo d'espiarlo, un'immensa ragione di pentimento, e un'immensa ragione di fiducia.

Ma la religione non fa solamente questo; essa rimuove anche gli altri ostacoli che gli uomini oppongono al ritorno alla virtù.

Il reo sfugge la società di quelli che non lo somigliano, perchè li teme superbi della loro virtù: aprirà egli il suo core a loro, che ne profitteranno per fargli sentire che sono da più di lui?

Che consolazione gli daranno essi, che non possono restituirgli la giustizia?

essi che stanno lontani da lui, per parere incontaminati?

che parlano di lui con disprezzo, perchè si veda sempre più che disprezzano il vizio?

essi che lo sforzano così a cercare la compagnia di quelli che sono colpevoli come lui, e che hanno le stesse ragioni per ridersi della virtù?

La giustizia umana ha purtroppo con sé l'orgoglio del Fariseo che si paragona col Pubblicano, che prende un posto lontano da lui; che non s'immagina che quello possa diventare un suo pari; che, se potesse, le terrebbe sempre nell'abiezione del peccato.

Ma questa divina religione d'amore e di perdono ha istituiti dei conciliatori tra Dio e l'uomo.

Li vuole puri, perchè la loro vita accresca autorità alle loro parole, perchè il peccatore, con l'accostarsi a loro, si senta ritornato nella compagnia dei virtuosi; ma li vuole umili, e perchè possano esser puri, e perchè quello possa ricorrere a loro, senza temere d'esserne respinto.

Egli s'avvicina senza ribrezzo a un uomo che confessa d'esser peccatore anche lui, a un uomo che, dal sentire le di lui colpe, ricava anzi fiducia che chi le rivela sia caro a Dio, e venera nel ravveduto la grazia di Colui che richiama a sé i cori; a un uomo che riguarda in quello che gli sta ai piedi la pecora cercata e portata sulle spalle del pastore, l'oggetto della gioia del cielo; a un uomo che tocca le sue piaghe con compassione e con rispetto, che le vede già coperte di quel Sangue che invocherà sopra di esse.

Sapienza mirabile della religione di Cristo!

Essa impone al penitente delle opere di soddisfazione, che diventano per lui un testimonio consolante del suo cambiamento, e con le quali si rinfranca nell'abitudini virtuose e nella vittoria di se stesso; con le quali mantiene la carità, e compensa, in certa maniera, il mal fatto.

Perchè, non solo la religione non gli accorda il perdono, se non a condizione che ripari, potendo, i danni fatti al prossimo; ma, per ogni sorte di colpe, lo assoggetta alla penitenza, la quale non è altro che l'aumento di tutte le virtù, e quella che fa dell'offensore di Dio un ministro umile e volontario della sua giustizia.

Essa prescrive ai suoi ministri, che s'assicurino il più che possono della realtà del pentimento e del proposito; indagine che tende, non sole a impedire che s'incoraggisca il vizio con la facilità del perdono, ma a dare una più consolante fiducia all'uomo che è pentito davvero: tutto è sollecitudine di perfezione e di misericordia.

E i ministri che riconciliassero leggermente chi non fosse realmente mutato, essa li minaccia che, invece di scioglierlo, saranno legati essi medesimi; tanta è la sua cura perchè l'uomo non cambi in veleno i rimedi pietosi che Dio ha dati alla nostra debolezza.

Chi, con queste disposizioni, è ammesso alla penitenza, è certamente nella strada della virtù; chi s'è sentito dire dal ministro del Signore, che è assolto, si trova come ristabilito nel retaggio dell'innocenza, e principia di nuovo a battere quella strada con alacrità, con tanto più di fervore quanto più si rammenta che frutti amari ha colti in quella del vizio, quanto più sente che gli atti e i sentimenti virtuosi sono i mezzi che la religione gli presenta per crescere nella fiducia che le sue tracce su quella trista strada siano cancellate.

La religione ha ricevuto dalla società un vizioso, e le restituisce un giusto: essa sola poteva fare un tal cambio.

Chi avrebbe tentato, chi avrebbe pensato d'istituire dei ministri per aspettare il peccatore, per invitarlo, per insegnar la virtù, per richiamare a quella chi ricorre a loro, per parlargli con quella sincerità che non si trova nel mondo, per metterlo in guardia contro ogni illusione, per consolarlo a misura che diventa migliore?

Il mondo si lamenta che molti esercitino un cosi alto ufizio come un mestiere; e con questa parola gli rende omaggio senza avvedersene, riconoscendo che ogni mira di guadagno, di vantaggio temporale, anche onestissima in ogni altra professione, è sconveniente nell'esercizio di esso.

Ma forse che sono cessati i ministri degni d'un tale ufizio?

No, Dio non ha abbandonata la sua Chiesa: Egli mantiene in essa uomini che non hanno, che non vogliono altro mestiere che sacrificarsi per la salute dei loro fratelli, e in questa vedono un vero premio dei pericoli, dei patimenti, della vita più laboriosa; qualche volta della morte, del supplizio, e più spesso d'un lento martirio.

Ma il mondo che si lamenta degli altri, guarderà dunque questi con venerazione e con riconoscenza; in ogni ministro zelante, umile e disinteressato vedrà un uomo grande; si rammenterà con tenerezza e con ammirazione quei sacerdoti che scorrono i deserti dell'America per parlare di Dio ai selvaggi; al sentire la fine di quei soldati della Chiesa, che, andati alla Cina per predicar Gesù Cristo, senza una speranza terrena, ci hanno recentemente sofferto il martirio, il mondo se ne glorierà, come fa di tutti quelli che disprezzano la vita per un nobile fine.

Se non lo fa, se deride quelli che non può censurare, se li dimentica, o li chiama intelletti deboli, miseri, pregiudicati, si può credere che il mondo odii, non i difetti dei ministri, ma il ministero.

Ma la penitenza sacramentale non è utile e necessaria solamente a quelli che hanno scosso il giogo della legge divina, e aspirano a riprenderlo: lo è non meno ai giusti.

In guerra continuamente con le prave inclinazioni interne, e con tutte le potenze del male, essi sono chiamati dalla religione a ripensare nell'amarezza del core le loro imperfezioni, a vegliare sulle loro cadute, a implorarne il perdono, a compensarle con atti di virtuosa abnegazione, a proporre di cambiar sempre in meglio la loro vita.

La penitenza è quella che distrugge in essi i vizi, al loro nascere, e in vasi di creta conserva il tesoro ( 2 Cor 4,7 ) della giustizia.

Un'istituzione che obbliga l'uomo a formare un giudizio severo sopra sé stesso, a misurare le sue azioni e le sue disposizioni col regolo della perfezione, che gli dà il più forte motivo per escludere da questo giudizio ogni ipocrisia, insegnando che sarà riveduto da Dio, è una istituzione sommamente morale.

Come mai una tale istituzione ha potuto essere mal intesa da tanti scrittori?

Come mai le è stato tante volte attribuito uno spirito perfettamente opposto al suo?

Non si può a meno di non provare un sentimento doloroso per ogni verso quando, in uno scritto che spira amore per la verità, e per il perfezionamento, in uno scritto, dove le riflessioni le piùi pensate sono ordinate al sentimento morale, e questo al sentimento religioso, si trova questa proposizione: che il cattolicismo fa comprare l'assoluzione con la manifestazione delle colpe.

Qui non si tratta, né d'induzioni, ne d'influenze recondite e complicate; si tratta d'un fatto.

Ognuno può informarsi da qualunque cattolico, se la manifestazione qualunque delle colpe basti a ottenere l'assoluzione; qualunque cattolico risponderà di no, qualunque cattolico ripeterà col Concilio di Trento: « Anatema a chi nega che alla perfetta remissione dei peccati si richiedano tre atti del penitente, quasi materia del sacramento, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione ». ( Conc. Trento )

Di più, ricevere questo sacramento senza quelle disposizioni è un sacrilegio, un nuovo orribile peccato.

E tanto è vero che l'assoluzione non si compra con la confessione materiale, che qualche volta l'assoluzione può esser negata dopo quella confessione, e qualche volta si dà senza di essa, come ai moribondi, i quali non siano in caso di confessarsi, e diano segni d'esserci disposti.

Si consideri un momento lo spirito della Chiesa nella dottrina dei sacramenti, e si vedrà come tutta l'economia di essi sia diretta alla santificazione del cuore, si vedrà quanto essa sia aliena dal sostituire le pratiche ai sentimenti.

L'insegnamento cattolico fa nei sacramenti una distinzione non meno propria che importante, chiamandone alcuni sacramenti dei vivi, e altri dei morti.

Gli uni e gli altri sono istituiti da Gesù Cristo, e tutti per santificare; ma ai primi non è lecito accostarsi se non in stato di grazia: perchè?

Perchè, secondo la Chiesa, il primo passo, il passo indispensabile a ogni grado di santificazione è il ritorno a Dio, l'amore della giustizia, l'avversione al male.

C'è pur troppo negli uomini una tendenza, superstiziosa insieme e mondana, che li porta a confidare nelle nude pratiche esterne, e a ricorrere a cerimonie religiose per soffogare i rimorsi, senza riparare ai mali commessi, e senza rinunziare alle passioni: il gentilesimo, credo, li serviva in ciò secondo i loro desideri.

Ma qual è la religione che essenzialmente, perpetuamente e manifestamente si oppone a questa tendenza?

La religione cattolica senza alcun dubbio.

Essendo tutti i sacramenti mezzi efficaci di santificazione, perchè non sarebbe lecito ricorrere indistintamente a tutti i sacramenti, se le pratiche del culto fossero ammesse a compensare i delitti?

Qual mezzo di santificazione potrebbe parere più facile del sacramento dell'Eucaristia, il quale comunica realmente la Vittima Divina, e unisce all'uomo la santità stessa?

Eppure la Chiesa dichiara, non solo inutile, ma sacrilego il ricevere questo sacramento per chi non sia in stato di grazia: il Propiziatore stesso diventa condanna in un core ingiusto.

Essa obbliga i peccatori che vogliono arrivare a quelle più alte fonti di grazia, a passare per i sacramenti che riconciliano a Dio; cioè la penitenza, alla quale non è lecito avvicinarsi senza dolore del peccato e senza proposito di nova vita, e il battesimo che negli adulti esige le stesse disposizioni.

Poteva la Chiesa mostrare più ad evidenza, che non conta, che anzi ricusa le pratiche esterne, quando non siano segni d'un amore sincero della giustizia?

Ma donde può essere nata una opinione tanto contraria allo spirito della Chiesa?

Io credo da un equivoco.

Essendo la confessione la parte più apparente del sacramento di penitenza, ne è venuto l'uso di chiaare impropriamente confessione tutto il sacramento.

Ma s'avverta che quest'inesattezza di parole non ne ha corrotta l'idea; perchè la necessità del dolore, del proponimento e della soddisfazione è tanto universalmente insegnata, che si può affermare non esserci catechismo che non la inculchi, né ragazzo ammesso alla confessione che l'ignori.

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