L'azione |
Quale idea si fa dell'azione un gran numero di persone, senza neppure sognarsi di darne una definizione concreta?
E per quale scopo esse agiscono nella maggioranza dei casi?
L'azione è un sistema di movimenti spontanei o voluti, una scossa dell'organismo, un impiego determinato delle proprie forze vive, in vista di un piacere o di un interesse, sotto l'influsso di un bisogno di un'idea o di un sogno.
Nulla più; non vi sono retroscena inquietanti: i nostri atti sono privi di risvolti minacciosi; essi cadono tutti nel nulla, come vi cade l'unità organica e il sistema vivente di cui essi sono la funzione.
A che servono tante cerimonie per accantonare un problema chimerico?
Una negazione franca e brutale è meglio di tutte le scappatoie ipocrite e di tutte le sofisticazioni del pensiero.
Assaporare la morte in tutto ciò che è corruttibile prima di esservi sepolti a nostra volta per sempre, sapere che si sarà annientati e volerlo essere, ecco l'ultima parola dell'affrancamento del coraggio e della certezza sperimentale per gli spiriti risoluti liberi e forti: per la morte tutto è morto.
Ma se la pratica della vita non è sufficiente a dissipare le inveterate illusioni di una speranza o di una paura superstiziose, né a sottrarre l'uomo al folle desiderio di essere sempre, la scienza positiva e la critica metafisica esorcizzeranno per sempre il fantasma dell'essere nascosto, rimuovendolo dal suo pensiero e dalla sua volontà.
C'è una cosa che agli occhi del pessimismo sembra confermare ulteriormente questa conclusione: il male e la sofferenza nascono proprio dalla rivolta contro questo felice annientamento; sicché il nulla ha in proprio favore la testimonianza stessa di coloro che ne hanno orrore, ed è percepito, conosciuto, professato da coloro che non sanno ancora volerlo.
È così certo, che lo si professa ugualmente, sia che lo si desideri sia che lo si tema.
Allora sentiamo un po' queste persone che temono il nulla e quelle che ne fanno l'apologia: le une e le altre gli rendono omaggio ugualmente.
I.
Il nulla della vita: quante idee false e quante immagini desolanti evocano queste due parole salutari!
Esse sembrano sciorinare davanti ai nostri occhi questa bancarotta che rende più doloroso il progresso dei desideri e persino dei godimenti.
Occorre ampliare ulteriormente un lato del quadro: « La grande maggioranza degli uomini che si orienta con i sensi è sofferente e si lamenta; e tuttavia tutto ciò che si è potuto dire sull'immensità delle sofferenze umane forse non è niente a paragone delle delusioni, dei tradimenti, delle abiezioni del piacere.
Vi sono delle vite in cui tutto sembra pieno, e in questo pieno non vi è nulla.
Spesso le persone felici sono le più tristi; nell'abbondanza si cela una strana miseria, e coloro che sono passati per molti stati d'animo sanno che forse nel benessere hanno sentito la più sottile amarezza, ciò che non ha consolazione!
Fate conto che tutto vada per il meglio: il lamento è più vivo.
Ci si abitua a tutto tranne che a stare bene, e ci si stanca della vita per quel tanto di felicità che offre.
Beati quelli che possono piangere, non sono affatto i pessimisti; la sventura non è affatto così cattiva come si crede, e da lontano è più nera che da vicino, perché le rimane la speranza e le illusioni.
Siete voi i ricchi, i poveri, gli avidi e gli invidiosi, perché non avendo potuto sentire la vanità dei beni i vostri desideri vi si abbarbicano con accanita avidità.
Ma come sanno coloro che hanno fatto fino in fondo l'esperienza della vita, dalla sazietà e dalla pienezza scaturisce solo disgusto e nulla: che cosa sono fortuna, ambizioni, successo?
Due cani che lottano per un mucchio di spazzatura in cui il vincitore non troverà nulla.
E queste persone disincantate non sono solo quelli che invecchiano e muoiono nell'incantesimo delle cose futili, senza mai essere scesi sotto la superficie dei loro sensi, ma sono i migliori, i più navigati, i più competenti, gli uomini di grande azione o di vivace pensiero, artisti e anime delicate che hanno sofferto la vita in un mondo in cui non c'è una linea diritta e in cui persino il raggio di luce è spezzato ».1
Che cosa dunque deve scaturire da questa esperienza universale della vanità di tutto?
Queste due conclusioni.
Se la vita è così cattiva come appare, è perché le si chiede ciò che non può offrire, perché la si prende per ciò che non è, e perché incalzandola si sente da essa una disperante risposta di morte, mentre essa non pronuncia che una serena e consolante parola di nihilismo.
La vita sarà buona come può esserlo quando, liberi da ogni pretesa chimerica a suo riguardo e persuasi che essa non fa mai bancarotta perché non ci prende e non ci dà niente, la si guarderà in faccia così com'è, tranquillamente.
È la realtà brutale, ma è anche la vera liberazione; non c'è niente nei nostri atti, non c'è niente al di là di essi: nulla.
II.
Il nulla della vita e degli atti umani era la conclusione dei sensi chiaroveggenti e dell'esperienza; ed è anche la conclusione della scienza.
Ma udite ancora quali sentimenti artificiali di solito si mescolano a questa certezza, e come si interpreta attraverso un prisma di illusioni ereditarie la dottrina che li dissipa.
« Il nulla dell'uomo: bisogna acquisirne la convinzione, non solo perché di fronte agli orizzonti aperti allo spirito e alle profondità sempre sfuggenti del pensiero, davanti alla storia generale dell'umanità e dell'universo noi ci distanziamo dalla nostra angusta prospettiva per sentirci invasi da una grande e triste ammirazione; ma perché il progresso della conoscenza analizza e riduce ad astrazione il suo oggetto, perché la riflessione distrugge gli istinti e le inclinazioni naturali, perché essa crea nuovi bisogni più velocemente di quanto non li soddisfi.
Se la vita dei sensi lascia una stanchezza infinita, la ricerca scientifica sfocia in un vuoto più profondo, in un fallimento senza rimedio: è vano, è doloroso conoscere, perché la conoscenza mette in evidenza un desiderio inappagato e inspiegabile, l'inconoscibile e la vanità dell'essere umano.
Col suo stesso sviluppo la scienza moltiplica i nostri contatti col mistero, come una sfera che si ingrandisce tocca in più punti il vuoto in cui è immersa.
Che cos'è anche un semplice fatto?
Ci si può mettere in presenza di un fatto positivo palpabile completo?
No, qualsiasi fatto è già una finzione complicata, un'integrazione organica, una costruzione mentale, quasi la conclusione di un ragionamento, un'azione dello spirito.
E che cos'è lo spirito, che cos'è l'azione?
Per saperlo aspettate che la fisiologia abbia finito di smontare il meccanismo cerebrale, che la chimica abbia scoperto le divisioni ultime della materia, che le matematiche abbiano trovato la formula unica che si estenderà dalla cristallografia atomica fino al funzionamento della società!
La scienza lascia nel mondo un ammasso enorme di realtà sconosciute; invano le si domandano motivazioni per l'agire, una regola per concertare gli atti, una spiegazione completa del dinamismo umano, una legge del piacere dell'interesse e della felicità: essa non potrebbe fornire un solo motivo d'azione né rendere conto di uno solo di essi; non potrebbe neppure giustificare se stessa, né porsi come reale e necessaria.
A che serve che il mondo sia esposto alle dispute e alle scoperte degli uomini?
La scienza non prescrive la scienza, e se si agisce per acquisirla, ciò avviene per un movente indipendente da essa; nel campo in cui è competente, essa non vede che nulla, non vede in se stessa che nulla ».
Sono constatazioni incontrovertibili, soggiunge qualcuno, ma che bisogna difendere contro la forza acquisita delle abitudini mentali e l'inconseguenza dei sentimenti artificiali.
La scienza sa quello che sa e ignora quello che ignora, senza che dobbiamo lagnarcene o restarne atterriti.
Indubbiamente, lo si può concedere, essa avrà sempre davanti un inconoscibile, e l'inconoscibile è dello stesso ordine del conosciuto.
Quello che resta da sapere non infirma ciò che si sa già.
E se l'analisi scientifica degli atti umani, senza essere terminata, ne ha scomposto l'unità organica, se si è cominciato a dissolvere nei suoi elementi il meccanismo intellettuale e la macchina fisiologica, ne abbiamo abbastanza perché la certezza tranquillizzante di una verità che non è né così triste né così allegra, ma è quella che è, consoli e rassereni le coscienze.
Per farsi illusioni sul nulla dell'uomo si considerava il nulla della scienza; viceversa bisogna esaltare la scienza perché essa dimostri all'uomo che il nulla è il termine di ciò che egli chiama la sua persona, la sua vita, i suoi atti e il suo destino.
E invece di considerare il nulla dell'oggetto, invece di affliggerci per il nostro nulla personale, occorre che ci rallegriamo, indifferenti all'illusione effimera di ciò che passa e fugge in noi, nell'eternità di ciò che rimane al di fuori di noi, acconsentendo all'estinzione della volontà individuale.
III.
Il nulla dell'azione: è altresì la conclusione della critica metafisica, il fine cui essa indirizza il pensiero e la volontà dell'uomo.
Ma anche qui, e qui soprattutto, quanti pregiudizi da infrangere per avere accesso alla beatitudine del nulla, così come il pessimismo la offre ai nostri desideri!
È utile ricordare brevemente il progresso di questa filosofia dell'azione, a partire dal punto in cui essa comincia a rendere l'uomo disperato per purificarlo dal suo falso attaccamento alla vita, fino al punto terminale in cui la volontà, convertita nelle sue profondità ultime, aspira al non-essere e vi si inabissa.
Le oppressioni del dolore o i disinganni più amari della voluttà da soli non giustificherebbero mai il pessimismo, e non sarebbero sufficienti a liberare l'uomo dall'illusione insita nel suo fanatico amore dell'essere.
Guardate come l'esperienza della vita o la chiarezza delle scienze tolgono poche illusioni, perché si soffre anche a perderle, e perché, mentre più o meno ci liberano dell'illusione circa quello che siamo, lasciano sussistere in noi come un rammarico e un astio per quello che non siamo.
Quanto più radicale è l'origine dell'illusione, tanto più radicale deve essere la cura della volontà.
Consideriamone la storia e il progresso.
Il grande merito della Filosofìa Critica2 è stato quello di mettere in luce i conflitti della ragione speculativa con la ragione pratica.
Ora l'azione umana dipende a un tempo da tutte le facoltà estranee e ostili l'una con l'altra presenti nell'uomo.
Per il pensiero che ne illumina l'origine e il compimento, essa è di ordine intellettuale; per l'intenzione e la volontà buona, appartiene al mondo morale; per l'esecuzione, al mondo della scienza.
È a un tempo un assoluto, un noumeno, un fenomeno.
Se dunque c'è antinomia tra il determinismo dei movimenti e la libertà delle intenzioni; se il formalismo morale è senza relazione con le leggi della sensibilità e dell'intelletto; se è interrotta qualsiasi unione tra pensiero, sensi e attività volontaria; se il corpo degli atti è separato dallo spirito che li ispira, e se in questo mondo che qualcuno presenta come il teatro della moralità l'uomo, deprivato di qualsiasi potenza metafisica, escluso dall'essere e come lacerato, si sente circondato da realtà impenetrabili in cui può regnare l'illogicità più assurda, allora la forza di vivere viene infranta insieme all'audacia di pensare.
Col pretesto di restaurare e forse di fortificare la ragione pratica, la si è rovinata con lo stesso attacco che colpisce a morte la ragione pura.
Il problema della vita è per tutti, che lo sappiano o no, a un tempo un problema di metafisica, di morale e di scienza.
L'azione è questa sintesi del volere, del conoscere e dell'essere, questo legame del composto umano che non si può spezzare senza distruggere tutto ciò che si è separato.
Essa è il punto preciso in cui convergono il mondo del pensiero, quello morale e il mondo della scienza; e se questi non si uniscono tutto è perduto.
Se pensare, volere non è essere, se l'essere non è né pensare né volere, che razza di incubo è?
Dunque qualsiasi dottrina per la quale la metafisica, la scienza e la morale rimangono estranee o diventano ostili, rende, l'essere cattivo, lo rende inintelligibile, incerto.
Se esse non sono solidali, non c'è nulla.
Dal giorno in cui la critica ha frantumato l'unità feconda dell'azione, il pessimismo, che fino ad allora era stato una semplice disposizione d'animo in alcuni, ha rivestito la forma di un sistema e ha potuto cantare l'inno metafisico del nulla.
Che importano le miserie sensibili, che importa il suicidio del corpo?
Esso dimostra sempre un attaccamento all'essere in quelle persone che si uccidono perché trovano la vita troppo breve: semplice petizione di principio.
Il distacco e la liberazione non deve, non può venire dagli ostacoli esteriori né dalle sofferenze subite involontariamente; spesso esse non fanno altro che attizzare ed esasperare l'appetito di vivere.
Senza dubbio la stanchezza incurabile del piacere, le disillusioni del sapere e la clamorosa immoralità del mondo contribuiscono a compiere in noi un'opera interiore di spossessamento; ma la sconfessione e la liberazione dall'essere scaturiranno solo dall'intimo della volontà e da essa soltanto.
Siccome viviamo ed esistiamo soltanto per un'illusione, vogliamo essere proprio mentre non possiamo essere.
È questo il male, il dolore inspiegabile, l'assurdità pura e semplice dalla quale occorre guarire.
Il male non è l'essere, ma la coscienza di essere, la volontà di essere, l'illusione di essere.
E quindi siccome « la nozione del nulla è sempre relativa, in quanto si riferisce a un soggetto determinato che si tratta di negare ( secondo quanto dichiara lo stesso Schopenhauer ); siccome il mondo attuale non esclude la possibilità di un'altra esistenza, e siccome rimane ampio margine per quello che noi designiamo soltanto negativamente con la stessa negazione del voler-vivere », il pessimismo totalmente conseguente è un ottimismo radicale.
Di fronte al male universale, sembra dire egli,3 non c'è sottigliezza che tenga; preferisco credere al nulla piuttosto che accusare l'Essere qualunque esso sia: il nulla è il bene, esso è; l'essere è il male, esso non è.
Così la volontà liberata dalle illusioni e dai legami che la tenevano prigioniera ritorna alla sua essenza; morendo al mondo delle passioni e dell'egoismo, nasce a un nuovo essere, si genera tramite la distruzione volontaria e il rinnegamento di sé.
La tendenza di ogni essere a perseverare nell'essere, la lotta per l'esistenza, tutto questo istinto di conservazione e di conquista non solo è mistificante, ma è anche mistificato, è l'illusione di un'illusione.
Se fosse reale sarebbe buono, perché, malgrado la sofferenza e la disperazione, la volontà di essere che riuscisse a essere sarebbe un bene infinito a paragone del quale nessuna avversità conterebbe più.
Tutta l'immane oppressione dei cuori nasce non dal fatto che coloro che soffrono sono, ma dal fatto che, non essendo, essi credono e vogliono essere.
In effetti non la paura del nulla è il male e l'essere, ma il desiderio, la volontà di non essere è la verità e il bene.
Quindi siccome la volontà di essere non riesce a essere, e in questo consiste il dolore supremo; siccome la volontà di non essere, rientrando nella verità, costituisce l'infinita consolazione delle anime, quel che occorre è uccidere in sé non tanto l'essere, che non è, ma la volontà chimerica di essere, acconsentire al non-essere della persona umana, estirpare fin le radici ultime del desiderio e qualsiasi amore della vita.
Svelare la frode di ogni istinto di conservazione e di sopravvivenza significa procurare all'umanità e al mondo la salvezza nel nulla, questo nulla che bisogna definire come l'assenza del volere.
Nulla della vita sensibile, nulla della ricerca scientifica, nulla della speculazione filosofica, nulla dell'attività morale: ecco la conclusione universale e il termine unico dove il pessimismo ci porta a seppellire tutte le ingannevoli apparenze della realtà e tutte le disgraziate velleità d'esistenza.
La sua originalità e la sua forza consistono nel considerare che il suicidio della sensibilità e del pensiero è del tutto insufficiente, o addirittura contrario al suo disegno, se non si libera la volontà dall'illusione del suo attaccamento all'errore dell'essere, e se non si ottiene da essa la rinuncia suprema, che sola elimina nella loro causa il male e la sofferenza, in quanto le dischiude, le fa desiderare e amare il nulla.
Ecco dunque la prospettiva che mi è offerta: non si è forse riusciti a farmi percepire, a dimostrarmi, a rendermi amabile il nulla, a farmelo volere come una beatitudine insondabile?
Mi era risultato palese, mi risulta più che mai, che io non posso essere per me, mio malgrado.
Se dunque la mia volontà più sincera e più profonda aspira all'annientamento come a un rifugio garantito, come a un fatto di esperienza, come a una verità scientifica, come alla conquista ultimativa della saggezza filosofica, chi potrebbe sbarrarmi la strada e dirmi senza assurdità: « Non c'è scampo, bisogna essere! »?
Il capitolo seguente accerta che non si danno né concetto vero e proprio né volontà deliberata e verace del nulla.
L'azione che sembra aspirarvi è composita e, per cosi dire, ibrida.
Di questa duplice volontà che vi concorre si fa vedere anzitutto l'inconseguenza nell'atteggiamento dell'uomo di mondo disingannato o del materialista da laboratorio, i quali errano circa il senso sia delle loro affermazioni sia delle loro negazioni; e poi, inoltrandosi fino alla radice metafisica del pessimismo, si scopre nell'annientamento del volere che esso esige dall'uomo il conflitto di due movimenti divergenti, di cui il primo porta la volontà verso una grande idea e un profondo amore dell'essere, l'altro la consegna al desiderio, alla curiosità, all'ossessione del fenomeno.
Indice |
1 | I testi di questo quadro sulla visuale del nihilismo sono presi per lo più dalla trilogia di Barrès, citata alla nota 3 della Parte I. |
2 | Evidentemente si fa riferimento alla filosofia kantiana. In verità però la filosofia kantiana più che mettere in luce i conflitti della ragione speculativa con la ragione pratica è costantemente dedita a ricercare e a far risaltare le congruenze e le possibili armonizzazioni tra le due, come dimostra tra l'altro la celebre chiusa della Critica della ragion pratica ( " il cielo stellato sopra di me… e la legge morale dentro di me " ) e la stessa impresa della Critica del Giudizio, che mirava appunto a definire la congruenza tra la ragione pura teoretica e la ragione pura pratica attraverso la mediazione del Giudizio. Semmai in sede dialettica vengono individuati dei conflitti della ragione con se stessa in ognuno dei suoi ambiti, rispettivamente teoretico e pratico, e persino nella stessa sede del Giudizio. In proposito cfr. le argomentazioni chiarificatrici svolte nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura. È pur vero che già con la prima critica dell'Idealismo, e soprattutto con il modulo interpretativo col quale Hegel stesso aveva dato larga circolazione alla critica verso la filosofia kantiana, questo profilo caratterizzante del criticismo era stato convertito in una comprensione che ha determinato successivamente la vulgata della filosofia critica. In sostanza qui, e anche in altri contesti, Blondel ha palesemente presente questa interpretazione di Kant che costituiva una vulgata ampiamente diffusa, addirittura nel campo stesso del neo-kantismo, e non solo nella cultura francese ma in tutta la cultura europea, si può dire fino ai nostri giorni. È tuttavia notevole il fatto che Blondel su alcuni punti si discosta notevolmente da quella vulgata, e coglie in maniera acuta e puntuale certi spunti problematici e tematici qualificanti della filosofia kantiana. È molto probabile che ciò sia da far risalire all'approccio col quale E. Boutroux e forse lo stesso Ch. Renou-vier accostavano quella filosofia; verosimilmente ciò ha inciso sulla lettura di Kant da parte di Blondel. |
3 | Palesemente ci si riferisce ad A. Schopenhauer, il corifeo filosofico del pessimismo; la sua filosofia era di attualità nella cultura francese dell'ultimo Ottocento, anche in seguito alla traduzione della sua opera principale, il mondo come volontà e rappresentazione. |