L'azione |
Così come si sono saliti i gradini che portano alla luce della coscienza, bisogna ora seguire la degradazione del pensiero riflesso e dell'intenzione volontaria nell'operazione organica, che ne è la prima espressione.
Ma è giusto dire degradazione? No.
Se c'è ombra sia dietro sia avanti il campo rischiarato della vita interiore, ciò avviene perché l'azione penetra sia in alto sia in basso nella regione in cui la visione limitata dello spirito è distinta, precorrendo la luce che vi porta a poco a poco.
L'inconscio non è soltanto al di sotto, ma al di sopra e al di là delle decisioni deliberate.
Perché dunque l'intenzione volontaria ha bisogno di incarnarsi, e perché incontra la resistenza organica?
Patendo che ha da guadagnare?
Che cosa ci rivela questa necessità dello sforzo o della fatica nell'azione?
Sono tre i problemi da risolvere.
Diventare passiva, essere contraddetta e costretta, fare fatica: per la volontà questo sembra uno strano modo di raggiungere i suoi fini.
E tuttavia è l'unica via del suo progresso.
Ecco il paradosso che si tratta di giustificare.
Infatti, appena deciso, l'atto si precipita alla fase dell'esecuzione.
Come minimo l'esecuzione sembra la consacrazione naturale dell'intenzione.
Senza di essa l'azione non è affatto l'azione.
Quindi la prima preoccupazione di chi la studia deve essere quella di considerare quell'operazione materiale che ne è la condizione immediata.
In che modo si incontra il corpo, e come mai questa vita organica, che senza esserci estranea tuttavia non si identifica con noi, mescola all'attività il sentimento di una passività?
Il problema è stato discusso spesso.
Ma esso può essere risolto solo da una visuale diversa da quella in cui ci si è posti solitamente.
Indubbiamente mette conto di analizzare anzitutto i dati in apparenza eterogenei da cui è costituita la coscienza dello sforzo muscolare.
Ma per chiarire le oscurità di questo labirinto bisognerà riafferrare il senso delle resistenze corporee e comprendere il ruolo che esse svolgono nella crescita della volontà.
L'azione infatti sposta in qualche modo il centro di gravita dell'uomo, per trasferirlo dall'intenzione ideale all'operazione totale.
E questo, che è l'aspetto più importante del problema, è stato anche il più trascurato.
Dunque, per districare le complicazioni della fisiologia soggettiva, è essenziale vedere come la stessa presenza del corpo è legata al progresso del volere, e quale ne è l'interesse morale.
I.
Per descrivere le origini del sentimento organico e la coscienza dello sforzo muscolare, per rendere conto delle impressioni normali e dei casi patologici così svariati, occorre esporre e articolare in tre coppie solidali queste constatazioni incontrovertibili.
1. C'è una prima azione afferente dell'organismo che è inconscia nella sua modalità, cosciente nei suoi risultati.
- In effetti l'automatismo che porta spontaneamente le immagini e i desideri alla soglia del pensiero distinto sfugge al pensiero che ne raccoglie i prodotti.
Non si apre nessuna finestra sull'attività organica da cui dipende, come si dice oggi, l'ideazione o ideogenesi.
Anche se si conosce scientificamente dove si alimenta la coscienza empirica e come questa è legata alle funzioni cerebrali, nondimeno la coscienza ignora da dove sorgono le sue visioni interiori.
Così, studiando le condizioni scientifiche e gli elementi inconsci dell'azione, non si è neppure dovuto porre il problema del corpo proprio dell'agente.
Come osserva Cartesio, si può far finta di essere senza corpo, sia pure per pensare ai corpi.
L'origine fisiologica della coscienza è inconscia.
2. C'è una prima azione efferente del pensiero che è percepita solo nella sua essenza soggettiva.
- Una volta superata la soglia della coscienza, la vita interiore si sviluppa nella sfera della riflessione, secondo una legge originale di finalità che non è riducibile al semplice concatenamento delle cause efficienti.
Le sintesi mentali che si operano nella coscienza rivelano una nuova iniziativa.
Per la loro componente cosciente esse costituiscono una forza propria.
Il sentimento del potere che risiede nelle idee e che la riflessione dispensa non è illusorio.
Non tutto nella vita interiore è effetto.
La parte più essenziale dell'atto soggettivo è a sua volta causa, essa determina le proprie condizioni.
Vogliamo avere una traduzione simbolica di questa verità nel linguaggio della fisiologia?
È noto che gli emisferi cerebrali sono a un tempo un apparato funzionale terminale e un apparato funzionale iniziale.
In altri termini in tutto il circuito dell'attività volontaria non c'è soltanto, come nelle reazioni automatiche, un arco semplice, ma un doppio arco riflesso: uno approda agli emisferi, l'altro se ne diparte dopo una rielaborazione originale.
Vi sono dunque fenomeni organici che non costituiscono più la condizione antecedente, ma la condizione concomitante e conseguente delle energie coscienti.
3. C'è un'azione efferente della volontà che rimane inavvertita nei suoi effetti corporali.
- Alla serie delle determinazioni interne che mettono capo alla decisione e al perseguimento volontario di un fine corrisponde, nel meccanismo cerebrale, una sequenza parallela di movimenti dipendenti.
Di tali operazioni organiche, che rendono possibile questa attività soggettiva, non viene portata al livello di riflessione nessuna conoscenza diretta.
Infatti la sintesi mentale contiene in sé e domina, mediante un ascendente del tutto spontaneo, le forze elementari che hanno contribuito a produrla.
E determinandosi, la volontà coinvolge ipso facto la determinazione di tutto ciò che serve a sostenerla.
Pertanto, nella misura in cui la natura sensibile e il corpo stesso sono immanenti alla vita riflessa, la produzione dell'intenzione attiva porta con sé le condizioni organiche che vi sono collegate.
Essa non è percepita perché non c'è ancora in essa ne contrarietà ne inibizione.
Fin qui solo la decisione è cosciente; ma l'operazione pristina della volontà negli organi che la permettono sfugge alla vista interiore.
- Del resto, per discernere questa azione del pensiero sulle proprie condizioni, bisognerebbe non soltanto districare tutta l'immensa complessità dei fenomeni oggettivi, ma anche penetrare la natura di questo elemento soggettivo e sintetico che, come si è visto, funge da cemento di tutte le nostre conoscenze.
Come ha osservato Maine de Biran, se noi sapessimo come muoviamo le nostre membra, sapremmo tutto.
Concentrando in noi le forze dell'universo, per governare questo microcosmo abbiamo bisogno di una forza e di una molteplicità d'azione che l'analisi non districherà mai totalmente, né con la coscienza né con l'osservazione dei sensi.
4. Nello stesso tempo c'è un'azione efferente della volontà che, dapprima inavvertita nella sua natura soggettiva, viene percepita solo nei suoi effetti organici.
- Qui sta il punto decisivo, il punto in cui il corpo appare alla coscienza e la passività entra a sua volta in azione, il punto in cui dal conflitto interiore delle tendenze sorge il sentimento dell'organismo, il punto infine in cui si opera la trascrizione dello spirituale in termini corporei.
La volontà non ha potuto trovare nella sola intenzione il suo intero compimento.
Per questo essa si da all'azione; per adeguarsi ha bisogno di prodursi.
Quindi questo atto voluto si compie al di fuori e per così dire al di là della volontà presente.
Esso è reale perché è dapprima ideale; ma non è reale unicamente nella misura in cui è ideale.
Non sussiste equazione tra la conoscenza previa e l'operazione effettiva, ne tra il volere e l'agire.
Pertanto, dal momento in cui il soggetto diventa oggetto per se stesso, esso proietta davanti a sé e porta in sé una materia.
Visto a partire dallo sguardo interiore, il corpo è una conseguenza e quasi un prolungamento della nostra natura soggettiva: vogliamo che esso sia.
Infatti se esso appare dapprima come un velo che ci nasconde a noi stessi, come un ostacolo che ci riduce alla necessità di conquistarci e che separa la volontà da ciò che vuole, allo stesso tempo è lo strumento della conquista, il passaggio dal volere incoativo al volere perfetto e il terreno della vittoria.
Così, senza dover uscire da sé, il soggetto trova nel suo fondo una passività che indubbiamente non è impenetrabile alla sua azione, ma che non vi è collegata direttamente.
Omne agens agendo repatitur.40
C'è in me qualcosa che è mio, che mi deve essere raccordato sempre più strettamente, e che tuttavia non si identifica con me.
E questo mio dapprima mi appare solo sotto una forma distinta dall'io, come la coscienza di una resistenza materiale o di un termine di espansione all'esterno.
Ecco quindi come si genera la nozione originale del corpo proprio dell'agente.
C'è coscienza di un'iniziativa soggettiva, perché senza il sentimento primitivo di questa produzione mai ci attribuiremmo il risultato dell'operazione efficace.
Ma nella crescita della volontà l'elemento nuovo apportato dall'azione appare alla coscienza come estraneo, anche nel momento in cui ne consente il progresso.
Perché questo termine attuale non è mai completamente docile al volere.
E per corpo dell'azione bisogna intendere tutto ciò che, in noi e fuori di noi, ci separa ancora da noi stessi.
Su questa percezione diretta dell'organismo vengono infatti a inserirsi tutte le nozioni derivate che acquisiamo del nostro corpo e dei corpi estranei.
Senza dubbio nella rappresentazione assai complessa che abbiamo dei nostri organi c'è una parte, non la più importante ma la più chiara, che noi dobbiamo ad associazioni del tutto estrinseche di percezioni e di immagini.
La solidarietà sperimentale delle intenzioni, conosciute dal di dentro, e dei movimenti, percepiti dal di fuori, precisa e fortifica singolarmente la nostra coscienza dell'organismo e della sua docilità.
Ma questa connessione empirica non è l'origine del sentimento che ogni uomo ha delle sue membra e del suo potere su di esse e sulle cose.
Alla scaturigine medesima dell'esperienza comune e all'organizzazione delle conoscenze positive presiede un'azione effettiva, poiché solo questa azione fornisce alle scienze e proietta davanti a noi la materia delle loro ricerche.
Se c'è un dato esterno alla conoscenza, un ignoto da penetrare, uno sforzo da compiere, ciò avviene perché sempre, fin dall'origine della vita, si presenta una sproporzione tra la volontà volente e la volontà voluta.
E l'una appare all'altra sotto la forma di una resistenza organica o di una passività da vincere.
5. C'è un'azione efferente della volontà che, immaginata in una forma organica, non è avvertita nei suoi effetti organici, ed è percepita solo in una rappresentazione motrice.
Infatti il sentimento dell'ostacolo materiale è, come ogni altro, uno stato di coscienza.
L'organismo appare solo sotto forma di atto soggettivo.
Esso è nel pensiero prima che il pensiero si metta in lui.
La resistenza corporea quindi si presenta a noi non come una massa estesa e inerte che cede reagendo a uno choc unico e improvviso, ma grazie alla mediazione di un'immagine che opera in noi a poco a poco con la segreta complicità delle membra, - delle membra che a stento potremmo sollevare, se fossero staccate, e che tuttavia sembrano muoversi quasi da sole.
Pertanto la stessa coscienza dell'organismo e il sentimento o la previsione della resistenza materiale è una nuova fonte di attività spontanea.
Tramite il modo con cui conosciamo lo sforzo, noi produciamo già un'operazione effettiva.
Le sensazioni afferenti diventano quindi l'alimento dell'energia motrice.
È inutile sapere come l'operazione si compie, nella misura in cui segue il pensiero.
È invece utile saperlo nella misura in cui c'è sproporzione e resistenza.
Spesso i nostri movimenti non sono che un modo di pensare e di volere, come segni che, invece di manifestare semplicemente le idee che abbiamo già, ne suscitano di nuove.
La coscienza dello sforzo continuo e molteplice è quindi fondata sulla percezione stimolante di un'opposizione molteplice e continua.
In questo modo la sensazione organica, che media tutte le altre, è ricondotta a una sintesi di azioni infinitesimali, le quali, realizzando tutte un grado del volere, compongono progressivamente, attraverso una serie di ripercussioni e di iniziative parziali, l'operazione totale.
Ecco come la stessa rappresentazione del corpo diventa, grazie alla mediazione dell'immagine motrice, una potenza spontanea che opera segretamente nelle membra, e serve a disporne la topografia interna, senza che noi conosciamo il dettaglio dell'operazione.
Con ciò si spiega la nozione corrente di corpo o anche di materia in generale.
Qual è il sentimento immediato che abbiamo del nostro organismo, e che cos'è per noi la materia?
Se intendo quello che dico con questa parola, è perché la materia la trovo in me.
Certo, in me trovo qualcosa che non è penetrato interamente ne dalla mia volontà ne dalla mia conoscenza, che ne io comprendo né si comprende da sé, che gli altri, se esistono, comprendono altrettanto poco, perché senza essere me questo qualcosa è almeno mio.
E che cosa distingue il mio da me?
Questa permanente molteplicità di una resistenza, tuttavia mobile e accessibile alla mia azione, per quanto costantemente impenetrabile al mio sguardo interiore e irriducibile al mio volere attuale.
In tal modo l'organismo che poco fa sembrava fuori della mia coscienza e della mia portata, adesso pare in certo qual modo reintegrato nella coscienza che ne ho.
E questa fisiologia soggettiva ha un'efficacia inconscia: l'immagine sigilla e muove il corpo, senza che si abbia la minima conoscenza di come ciò avvenga.
6. C'è infine un'azione afferente dell'organismo che costituisce propriamente la risposta provocata e attesa, la verifica del progetto della volontà, l'istruzione che si richiedeva all'atto operato, l'imprevisto previsto.
Ciò che essa apporta realmente è la coscienza delle sproporzioni tra volere e fatto, la rappresentazione delle reazioni corporee, l'insegnamento delle smentite empiriche.
Su questo dato si raggruppano e si organizzano tutti gli altri elementi che l'analisi ha appena districato nel sentimento dello sforzo.
Ma ciò che gli è proprio non è tanto l'impressione organica stessa, quanto l'incremento di luce soggettiva e di esperienza di cui è la fonte.
Perché nell'immagine cosciente di questa resistenza organica prende corpo l'ostacolo, si determina in una forma bloccata la posta in gioco della volontà attuale, si manifesta con precisione la conquista da fare.
E la nitidezza, la solidità stessa di questo ostacolo preciso è già un primo vantaggio acquisito.
In ragione della forza di ogni immagine, la rappresentazione determinata dalla resistenza è il risultato di un primo sviluppo, ma anche lo strumento e l'obiettivo di una crescita ulteriore del volere.
La coscienza dello sforzo organico è dunque un insieme di dati assai complessi.
Per effetto dell'abitudine questi apporti differenti si fondono e formano un solo tutto raccordato all'iniziativa dell'azione cosciente.
Anche la reazione degli organi che ci rende veramente passivi in rapporto alla nostra attività è compresa nel progetto originario dell'azione, per quanto questo ostacolo possa apparire sconcertante.
Ecco perché, quando stiamo per sollevare un peso conosciuto, sembra che misuriamo in anticipo l'intensità della forza necessaria per sostenerlo, mentre in realtà non facciamo altro che immaginare la resistenza abituale di cui solo le esperienze anteriori hanno potuto insegnarci l'esatta misura.
Così la nozione preliminare dello sforzo è come il quadro preparato per ricevere tutte le lezioni precise dell'esperienza effettiva.
Ciò che è afferente nella percezione reale è percepito come tale solo in seguito a un'iniziativa ancora indeterminata e grazie all'accoglimento a priori dell'a posteriori atteso.
Quindi a seconda che si consideri la forma o il contenuto della sensazione organica, si deve dire ugualmente che lì tutto è effetto dell'iniziativa soggettiva o che tutto esprime l'impressione passiva della reazione corporea.
Sicché davvero allo stesso tempo noi percepiamo immediatamente lo sforzo nella sua origine, e lo percepiamo mediatamente nel suo esercizio e nella sua esplicazione.
Sicché altresì noi siamo informati più chiaramente sui nostri movimenti dalla reazione delle parti che non dall'innervamento diretto.
Sicché infine le illusioni più varie e i casi patologici più contrastanti possono spiegarsi con la complessità delle trasmissioni, con l'incrocio delle azioni e delle reazioni, con il progresso della diffusione nervosa, con la molteplicità delle degradazioni successive in cui si disperdono la luce e la volontà iniziale.
La coscienza riflessa vede solo all'ingrosso l'operazione motrice, grazie alla proiezione di tutti questi infiniti dettagli: è una ripercussione di ripercussioni integrate.
L'immaginazione non potrebbe averne alcuna rappresentazione distinta.
E noi non potremmo esonerarci dal nostro sforzo se non grazie alla consuetudine, quando con l'esercizio ripetuto e la verifica dei totali di queste azioni elementari abbiamo addestrato le facoltà subalterne, aperto le strade, stabilito le connessioni abituali e siamo riusciti a proporzionare l'energia alla resistenza.
II.
Fare l'anatomia di uno sforzo isolato in astratto non è tutto; occorre studiarne la vivente complessità e la fisiologia concreta.
Infatti nel movimento della vita c'è un circuito che si chiude perennemente, ma per riaprirsi e crescere ancora.
Ogni punto d'arrivo non è che un punto di partenza.
Si possono senz'altro affermare separatamente queste tre proposizioni:
la coscienza dello sforzo organico risulta dall'antagonismo di tendenze soggettive;
- questo antagonismo interno il cui principio è dapprima inavvertito si esibisce a noi sotto la forma della resistenza corporea;
- e questo aspetto materiale dell'ostacolo proposto alla volontà come un termine di espansione inaugura una nuova trascrizione del fisico a livello mentale, rivelando la diversità delle tendenze e traducendosi in effetti soggettivi.
- Ma la cosa importante è vedere, in atto, come queste funzioni si combinano.
Per attenersi principalmente allo studio dello sforzo organico, come se fosse il tutto o la cosa più importante dell'azione, bisognerebbe misconoscere il senso autentico dell'operazione volontaria, e precludersi l'intelligenza di questo sforzo nel momento stesso in cui lo si vorrebbe studiare in esclusiva.
Su questo punto il senso popolare non si sbaglia.
Il problema dell'azione non concerne quest'oscura questione della sensazione muscolare.
Fermarsi a essa sarebbe retrocedere a un ordine di conoscenze superato, significherebbe esprimere in linguaggio positivo e in immagini sensibili la realtà della volontà operante, sarebbe ricondurre al determinismo vinto che precede la decisione cosciente lo sviluppo nuovo del determinismo vittorioso che segue e governa l'operazione prodotta.
Non bisogna far deviare l'indagine.
Essa devierebbe non appena ci preoccupassimo principalmente dei mezzi fisici che ci sembrano nascosti, esattamente perché sono subordinati a scopi morali.
Quali che siano le vie fisiologiche dell'operazione, il modo in cui essa mette in movimento gli organi ed è portata alla coscienza non influisce per nulla sul progresso della nostra crescita volontaria.
La grande difficoltà dello sforzo risiede non tanto nel trionfo più o meno completo sull'inerzia materiale, ma nel concerto delle tendenze, nella conquista dell'armonia e della pacificazione dei desideri intimi.
L'ostacolo organico non è altro che il simbolo e l'espressione di opposizioni già psicologiche.
La sofferenza è conosciuta solo nella misura in cui vi è sproporzione tra il percepito e il voluto, tra il fatto e l'ideale immaginato.
Qui sta la causa profonda delle sensazioni di dolore anche fisiologiche.
Pertanto proprio mentre si vede come l'iniziativa di una volontà imperfetta e divisa susciti la coscienza di una passività organica, si deve osservare allo stesso modo come il sentimento di questa resistenza corporea riveli una zizzania interiore, e un conflitto di tendenze che attraversa l'esplicarsi della nostra azione.
Infatti una volta agito, c'è una nuova prospettiva e come una vita estranea che si è incorporata all'agente.
La volontà è diversa da come era in precedenza.
La conoscenza è cambiata.41
Prova questa che di fatto il vero contributo dell'operazione voluta e compiuta mediante gli organi è precisamente questo cambiamento, più che gli strumenti per ottenerlo.
Ora a quale condizione questo rinnovamento della Vita interiore dipende dallo sforzo organico e dall'esecuzione materiale dell'atto? Ecco a quale condizione.
Nei confronti della coscienza il corpo è un abbozzo di vita soggettiva.
Esso è ciò che si oppone all'espansione immediata e alla realtà ideale del volere, ma è anche ciò che vi si sottomette e vi si presta.
Esso sfuggirebbe radicalmente all'agente, se non inglobasse qualcosa dell'agente in via di realizzazione.
Perciò l'azione è istruttiva.
Essa manifesta al soggetto una vita soggettiva diversa dalla sua, una vita che egli conquista gradatamente, una vita che gli appartiene già più di quanto non sappia, ma che non possiede ancora interamente, e che spesso gli sfugge più di quanto non creda.
C'è dunque un perenne circuito.
Grazie all'operazione volontaria noi attingiamo in noi stessi il necessario per muoverci e per determinarci.
Il sentimento dello sforzo e le reazioni organiche ( quale che ne sia l'occasione iniziale, impressioni esteriori o iniziativa motrice ) non fanno altro che alimentare in maniera inconscia la vita cosciente.
È questa coscienza nuova che a sua volta agisce sulle sue condizioni subalterne.
Noi consumiamo le forze profuse in noi per digerirle in idee e in nuovi motivi per agire.
Di qui il carattere ambiguo di questa attività passiva, poiché essa cerca in questa stessa passività una forma superiore di attività, e in questo inconscio un mezzo per chiarirsi su se stessa.
Quindi questo cerchio non gira su se stesso senza andare avanti.
Grazie all'azione sembra che si rientri in possesso di noi stessi dagli estremi più lontani e che, rifacendo dalle fondamenta stesse la nostra vita personale, ci si porti avanti tutti interi.
Ecco perché, pur arricchendoci, l'azione ci esaurisce e ci costa.
È una specie di digestione dalla quale traiamo profitto solo se prima serviamo il pasto.
Nella previsione e nell'apprensione dello sforzo, nel sentimento di ciò che vi si spende e nell'idea stessa di ignoto in cui si impegna l'azione, la volontà, sovrana allo stesso modo in cui la magia naturale dell'immagine opera d'istinto sulle forze istintive, incontra un ostacolo sconcertante di cui non trionfa senza fatica e senza lotta.
In tal modo per quanto contrarie, queste due affermazioni sono ugualmente fondate.
- Possiamo agire, forzare le membra, piegare la macchina, ma non sempre possiamo controllare i nostri sentimenti, i nostri pensieri e le nostre credenze.
- Nulla ci blocca più che l'azione; e conformare la nostra condotta alle nostre convinzioni più ferme o alle nostre decisioni più risolute costituisce una difficoltà sovrumana.
La resistenza organica ha quindi un duplice senso: talvolta appare come lo strumento di un guadagno desiderabile e di un incremento della vita soggettiva, talaltra come un impoverimento e una fatica.
In entrambi i casi essa è la traduzione nella coscienza di tendenze e di azioni che, più o meno refrattarie alla volontà, vi si raccordano o vi si sottraggono.
È questa lacerazione intima che rivela il sentimento doloroso della fatica e la coscienza del travaglio.
III.
Non è sufficiente infatti scoprire l'origine della coscienza che abbiamo di una passività organica.
Non è neanche sufficiente spiegare come il sentimento delle resistenze corporee contrasti o stimoli la nostra azione.
Bisogna andare più avanti.
Non abbiamo affatto un'idea completa dello sforzo vitale, non abbiamo affatto un'idea giusta dell'azione autenticamente umana se non vi vediamo un lavoro impegnativo.
Non facciamoci diversi da come siamo: noi tutti amiamo il riposo, cioè la liberazione e l'anarchia delle nostre forze.
A tutti costa lavorare.
Nessun atto di qualche importanza ha un buon esito senza fatica.
La fatica è la passione nell'azione, una sofferenza, una contraddizione intima.
Mentre concentro il mio pensiero sull'oggetto che studio, sento come una molla che cerca di allentarsi, un'attenzione pronta a svignarsela, un fascio le cui parti fanno resistenza alla stretta della riflessione.
Così anche le membra dell'operaio sempre soggette agli stessi movimenti e compresse negli stessi meccanismi gridano fatica e dolore.
Sono false e odiose certe formule di una nuova morale, che senza dubbio sono destinate a formare al lavoro un popolo deprivato di qualsiasi incoraggiamento più elevato.
Stando a questi ottimisti, il lavoro è l'unica cosa piacevole, l'unica cosa naturale.
No, per disciplinare le nostre forze non basta un semplice volere, e neppure uno sforzo unitario dell'energia centrale; ci vuole una fatica.
Così si è potuto considerare il lavoro come un castigo, come un'espiazione, come un'elevazione di chiunque ha il coraggio di perseverarvi liberamente senza la costrizione del bisogno.
E qualunque cosa se ne sia detto, non è ad alcun livello legge universale, ma è legge specificamente umana.
Solo l'uomo si violenta, si combatte, fa soffrire se stesso, si uccide, fatica nel suo agire.
Da quale parte di noi nasce questa sofferenza che mortifica la nostra azione?
Anche a livello corporeo essa nasce, se così si può dire, da cause già morali.
Per quanto sia retta, semplice e totale l'intenzione egemone, essa non ingloba la totalità delle decisioni possibili e non impiega l'insieme delle tendenze attuali.
Questa divisione interiore dei pensieri e dei desideri spontanei è stata una condizione della vita riflessa.
Volesse il cielo che la decisione ragionata concertasse nell'azione unica da essa ispirata tutta questa pluralità incoerente da cui è scaturita!
Invece no, questo accordo non si crea o non si crea più.
Ne la volontà governa e concentra in un solo atto i movimenti contrari che hanno esigenze esclusive, ne le tendenze ostili si prestano a una conciliazione pacifica.
Pertanto qualunque cosa facciamo, quando agiamo schiacciamo come una parte di noi stessi.
E non per questo soffochiamo ciò che mortifichiamo in questo modo.
Il dolore nasce dunque da un'azione parziale, la quale impiega solo alcune delle energie disponibili e le impiega talvolta in eccesso, e nel contempo da un sacrificio delle tendenze represse.
Pertanto la sofferenza cosciente suppone la presenza in noi di energie inconsce che non si raccordano tutte insieme alla volontà, qualunque essa sia, di energie che si contraddicono e cercano di escludersi, di energie che intaccano la sintesi organica quale è plasmata dall'azione attuale.
Sembrava che con l'atto operato la volontà dovesse assicurare sempre di più la propria integrità.
E invece basta volere e agire perché sorgano contraddizioni impreviste, come se tra i nostri servitori nell'ora del bisogno si manifestassero ribelli o traditori.
Si tratta di tendenze divaricanti che non ci consentono più di perseverare nei nostri migliori propositi senza una specie di lacerazione interiore.
Perciò gli uomini d'azione spesso sono ritenuti di scarsa sensibilità e di duro comprendonio.
Sembra infatti che per puntare dritto davanti a sé con fiducia e ostinazione occorra andare avanti, senza guardare in faccia a nessuno, calpestando una folla di sentimenti che ci balzano incontro supplichevoli sulla nostra strada.
Chi definiamo gente pratica, se non coloro che non sanno prestare un'anima alle cose, e si appigliano a questa dura scorza di verità alla quale si aggrappano gli spiriti senza immaginazione e senza simpatia?
Come se per affermare e per agire fosse necessario ignorare i bisogni della testa e del cuore, i quali sono la fonte consueta degli errori e delle follie che rendono incomprensibile agli uomini calcolatori e ambiziosi la vita delle persone ardenti e appassionate.
Si tratta di un pregiudizio maligno, ma esso è solo l'espressione imperfetta di un fatto d'esperienza costante.
C'è in noi una discontinuità di volontà, una pluralità di desideri che rendono ogni atto una lacerazione interiore.
Si tratta di un antagonismo segreto che costituisce il principio delle lotte nella vita pratica, e spesso fa abortire le nostre decisioni più ferme.
Perché volere e fare sono due cose diverse.
Se per noi è già molto conoscere ciò che vogliamo veramente, nosse; se è ancora assai più difficile volere questo stesso volere, velie, è infinitamente più difficile eseguirlo, perficere.
Già tra il concepimento e la determinazione c'era un intervallo; ma tra la decisione e l'esecuzione c'è da superare un abisso.
Ecco dove sta il passaggio critico e il punto decisivo nell'azione.
E mentre nelle lotte dell'ascetismo le persone a esso dedite lo hanno sentito vivamente, le persone dedite alla speculazione non vi hanno prestato attenzione.
Queste ultime spesso hanno intravisto la difficoltà laddove non risiede, senza vederla dove si trova davvero.
Trattandosi del problema della libertà umana, che non bisogna pretendere di risolvere tutto d'un colpo, perché gli ostacoli sono scaglionati in piani successivi, non ci si deve fermare alla resistenza organica o allo sforzo dell'operazione motrice, ma a questi conflitti interiori della volontà, alle sorprese e alle rivolte spesso benefiche dell'attività subalterna.
Riusciremo a risolvere queste contraddizioni intime e a pacificare questa guerra con la vittoria della volontà integrale? Tentiamolo almeno.
È già importante comprendere come le resistenze e le sofferenze, anche quelle contrarie alle nostre aspirazioni più vive, possono servire come insegnamento e come via per il nostro volere profondo.
Esse ci rivelano i segreti di noi stessi su cui forse preferiremmo stendere un velo.
Scoprono prospettive sul dramma della vita che fino allora risultavano chiuse, e rompono il sistema artificiale delle nostre concezioni più chiare.
Come si diceva, nulla ci è noto con certezza senza aver agito.
Adesso bisogna aggiungere che nulla entra in noi senza che abbiamo sofferto.
Si tratta di esplorare questo campo delle opposizioni, delle passioni, delle ribellioni dell'azione, per seguire su tale terreno la stessa crescita della volontà.
Tre punti sembrano accertati.
- Che cosa genera la coscienza dello sforzo organico e la nozione soggettiva del corpo?
È l'idea di un progresso del volere da realizzare.
- Come si spiegano la natura della resistenza da vincere e la causa delle passività corporee?
Con la presenza di energie ancora estranee ma accessibili alla volontà.
- Da che cosa dipendono le sofferenze della fatica e le difficoltà o le sconfitte dolorose dell'azione?
Dalla divisione di quelle tendenze che acuiscono l'antagonismo tutte le volte che si dichiara di volerle risolvere.
Pertanto non si può avere un'intelligenza sufficiente dello sforzo muscolare e persino della fatica fisica, se non si sa vedere alla base questo bisogno di espansione di una volontà divisa e contraddetta in se stessa.
Vi sono in noi potenze che agiscono con noi o senza di noi o contro di noi.
E che cos'è la sofferenza se non la divisione intestina delle cose vive che sono interdipendenti, e come l'intrusione dell'estraneo in noi?
Precisamente di queste energie occorre studiare le tendenze peculiari, gli appetiti, le pretese.
La coscienza è messa di continuo sull'avviso relativamente a queste esigenze improvvise o a queste spinte rivoluzionarie che minacciano l'opera della nostra unità interiore.
Dunque nel corpo dell'azione non è sufficiente prendere in considerazione l'intenzione che ne è l'anima, e l'operazione che la produce; ma bisogna studiare l'azione del corpo, considerando l'organismo come una federazione spesso anarchica e conflittuale di vite elementari e di tendenze capaci di formare sistemi o fazioni.
* * *
C'è dunque una psicologia del corpo da studiare; e questa legge delle membra, che si rivela proprio per il suo conflitto con la legge dello spirito, cerca di confondersi con essa e di surrogarla. ( Rm 7,21-25 )
Pertanto l'intento del capitolo seguente è di mostrare che l'azione volontaria, quale ne sia l'orientamento, incontra in sé e suscita contro di sé potenze ostili; di constatare che queste tendenze possono intaccare, surrogare e contraffare la volontà; di far vedere infine che in ogni caso l'atto voluto riveste un identico carattere razionale.
Con ciò tutta la possibile gamma delle azioni deliberate e delle passioni umane rientrerà in un medesimo tipo soggetto a un medesimo determinismo.
In ogni caso l'operazione operante sfocia per forza di cose in una nuova aggregazione delle forze, e l'operazione operata è una sintesi che ingloba più di quanto ritenevamo metterci.
Espandendosi, dunque, la volontà trasferisce il suo centro di gravita sempre più lontano dalle sue prospettive iniziali.
Indice |
40 | L'adagio latino è di ascendenza leibniziana. |
41 | Dice Maine de Biran: " Ritengo di essere in grado di dimostrare che non si da un'idea intellettuale, una percezione distinta, una conoscenza vera e propria che non sia legata originariamente a un'azione della volontà ". Ma se è vero che guardare principalmente al carattere organico dello sforzo muscolare significherebbe svisare il suo significato autentico, è altrettanto vero che se ne pervertirebbe il senso, se lo si subordinasse ai suoi risultati intellettuali e si fermasse lo sviluppo da esso inaugurato all'eccedenza di conoscenza di cui è il principio. Se l'intelletto è una volontà trasformata, è per trasformarsi a sua volta in azione, e per contribuire al progresso del volere [nda] |