L'azione

Indice

Conclusione

Il bisogno dell'uomo è quello di adeguare se stesso, in modo che nulla di quello che è rimanga estraneo o contrario al suo volere, e nulla di quello che vuole resti inaccessibile o venga rifiutato al suo essere.

Agire significa cercare questo accordo tra il conoscere, il volere e l'essere, e contribuire a produrlo o a comprometterlo.

L'azione è il doppio movimento che porta l'essere al termine cui tende come a una perfezione inedita, e che integra la causa finale nella causa efficiente.

Nella pienezza del suo ruolo mediatore, essa è un ritorno dell'assoluto all'assoluto.

Essa redime il relativo, il quale dall'azione viene inglobato e sorretto tra quei due termini.

Redimere significa conferire il vero e l'essere a chi non l'ha da sé.

Il ruolo dell'azione è dunque quello di sviluppare l'essere e di Costituirlo.

Senza dubbio essa lo determina e sembra addirittura esaurirlo, come se lo sforzo costituisse un impoverimento della vita e come se l'esecuzione deprezzasse l'intenzione senza mai adeguare il reale all'ideale.

Ma bisogna elevarsi al di sopra di questa parvenza.

È vero che, nella misura in cui l'agente è passivo nei confronti della propria operazione e dell'attività delle forze che fa concorrere alla propria opera, subisce nel corso della stessa azione una specie di deterioramento, e l'intenzione conserva in sé qualcosa che l'esecuzione a prima vista non produce.

Tuttavia l'azione compiuta restituisce all'essere che l'ha concepita e voluta una ricchezza che non era ancora presente né nel suo concepimento né nella sua decisione.

Tutto quello che era semplicemente ideale nell'intenzione non sfugge all'azione, e almeno in parte vi si realizza.

E questo elemento reale è eterogeneo in rapporto a quell'ideale.

Ecco perché, dopo aver agito, siamo diversi, conosciamo diversamente, vogliamo in maniera diversa da prima.

Ed ecco perché quell'incremento originale merita di essere approfondito, più ancora che la stessa tendenza, la quale, pur tuttavia, sembrava prepararlo e contenerlo già interamente.

L'azione è l'intermezzo, quasi il passaggio in forza del quale la causa efficiente, che ancora ha soltanto l'idea della causa finale, intellectu et appetitu, perviene alla causa finale, la quale si incorpora progressivamente alla causa efficiente, per comunicarle la perfezione cui aspirava, re.

Essa da l'impressione di saziarci, ci riempie.

Pare scaturire da noi.

Ma ciò che in tal modo emana dal nostro fondo più intimo ci riporta ciò che è fuori come un fine da raggiungere, e ci rende immanente la serie globale dei mezzi con cui tendiamo dal nostro principio al nostro termine.

Dare spontaneamente significa dunque ottenere più di quello che si dà.

E la vita più sacrificata o più generosa è anche la più intensa.

È vero anche che gli effetti dell'azione variano all'infinito, e sono addirittura opposti, a seconda dell'uso che l'uomo fa della propria libertà nei confronti dell'alternativa di cui si può dire che è il suo interesse precipuo e l'unico necessario.

Ma non si tratta anzitutto di regolare o di giudicare l'azione.

Si tratta di constatare ciò che essa è e, se così si può dire, di misurare la sua ampiezza da un capo all'altro del suo sviluppo reale.

Questa visione esaustiva di ciò che l'azione è basta a mettere in evidenza ciò che deve essere.

E l'autorità della legge che si impone all'azione deriva precisamente dal fatto che la scienza non parte dalla legge stessa, ma senza averla cercata vi si imbatte, per la forza inoppugnabile di ciò che è.

Anche quando vi si sottrae, pone ancora quella norma, che non rappresenta solo un ideale, ma è già una verità, è la verità stessa.

Infatti gli errori si susseguono per quel tanto di realtà che hanno in sé, e percorrendoli tutti arriviamo alla realtà piena che li ingloba e li giudica tutti.

Pertanto lo studio approfondito dell'azione ha come risultato necessario quello di giustificare gli stessi termini del problema che si impone a tutti, offrendo una spiegazione esaustiva dell'originaria ambizione dell'uomo, e quello di determinare la legge della vita umana, con la semplice constatazione di ciò che è.

Veritas norma sui.

Non c'è esortazione o istruzione che valga quanto quella visione dell'inevitabile.

Per comunicare all'uomo la grande e salutare inquietudine per il proprio destino, la scienza non deve fare altro che mettere allo scoperto ciò che l'uomo fa, misurando con inflessibile rigore il notevole scarto che sussiste tra i termini tra i quali egli oscilla.

Senza avere preoccupazioni di carattere ontologico o deontologico, senza fare uno sforzo di persuasione, ma con la pacata sicurezza di una carità più contenuta per essere più premurosa, dobbiamo semplicemente lasciare che quella verità necessaria si dispieghi nonostante tutte le resistenze.

Bisogna avere abbastanza fiducia in essa per non attendere nulla se non dalla sua sola presenza.

Anziché tentare di sorreggerla con una dottrina che le dia appoggio, bisogna opporle tutte quelle dottrine che la misconoscono, affinché, nonostante tutto, essa regni in tutti, e domini o inglobi anche coloro che palesemente la ignorano o la escludono.

Ciò che è, è ciò che deve essere ed è ciò che sarà.

Quindi sviluppare la scienza della prassi e trovare l'equazione dell'azione non significa soltanto dipanare, di fronte al pensiero riflesso, tutto il contenuto della coscienza spontanea, ma più ancora significa indicare il mezzo per reintegrare nell'operazione voluta tutto ciò che è alla scaturigine dell'operazione volontaria.

Non si tratta affatto di una conoscenza parziale o di una riflessione morale, atta senza dubbio a elucidare la volontà buona, ma senza possedere carattere dimostrativo.

Si tratta invece di una scienza globale, capace di abbracciare il determinismo universale dell'azione, e di seguirne lo sviluppo continuo che porta all'infinito le sue necessarie conseguenze.

Dal pensiero alla prassi e dalla prassi al pensiero: il cerchio deve essere chiuso nella scienza perché lo è nella vita.

In base a ciò risulta determinato con una precisione inedita anche quel doppio rapporto tra la conoscenza e l'azione.

Da una parte, gli atti umani moltiplicano le loro conseguenze e giustamente ce le imputano, senza che per esserne responsabili ci sia bisogno che conosciamo chiaramente tutto il loro contenuto, senza che la chiara rivelazione della loro portata spesso dimenticata e misconosciuta le cambi nell'essenziale, senza che alcuna conoscenza ulteriore ne modifichi il valore con la sanzione che introduce.

Dall'altra, quel poco di luce interiore che consegue all'azione, che l'accompagna e la prepara, è sufficiente per orientarla e per animare il suo sterminato organismo, come il timone, che per quanto piccolo, a poppa della nave, la orienta nella sua rotta in avanti.

Ecco perché per risolvere il problema vi sono palesemente due metodi, quello indiretto e quello diretto, quello scientifico e quello pratico.

Ma questi due metodi devono coniugarsi insieme.

Ecco perché lo stesso termine destino ha due significati; ma essi sono ugualmente legittimi.

Questo termine ancipite designa lo sviluppo necessario della vita, indipendentemente da ogni intervento dell'uomo nella trama degli avvenimenti che si svolgono in lui e fuori di lui.

Ma al tempo stesso designa il modo personale col quale noi raggiungiamo i nostri fini ultimi in conformità all'uso stesso della vita e all'impiego della nostra volontà.

- È dunque indispensabile far vedere che c'è una logica dell'azione, e che il concatenamento delle operazioni volontarie è soggetto a un determinismo rigoroso.

- Ed è indispensabile far vedere che la sperimentazione pratica comporta una chiarezza sufficiente, che essa surroga la scienza senza che la scienza la surroghi, che presenta un'esattezza a suo modo scientifica, anche quando questa disciplina morale è destituita di qualsiasi giustificazione teorica.

È compito di queste pagine conclusive esaminare questo duplice profilo del problema e far vedere l'unità della soluzione.

I.

Siccome la legge della vita va trovata nella vita medesima, e siccome per giudicare l'azione basta mettere in luce tutto quello che è, questa duplice verità troverà la sua verifica.

Da una parte tutte le forme possibili dell'azione sono compatibili di fatto.

La scienza della prassi le raccoglie tutte.

Nel reale non si danno termini contraddittori ma solo termini contrari, di cui uno stesso determinismo concatena gli sviluppi opposti.

Dall'altra, sotto quelle forme diversamente compatibili dell'azione, ci imbattiamo in un principio di contraddizione, che fa valere il suo diritto anche a livello del fatto, e decide in assoluto del senso dell'essere.

Pertanto compatibilità ed esclusione: è questo il senso profondo della legge di contraddizione che ci interessa chiarire.

Essa fa regnare la verità nell'errore senza eliminare l'errore, e introduce l'assoluto dell'essere nel fenomeno senza abolire il relativo del fenomeno.

Lungo tutta la storia naturale dell'azione è stato possibile prescindere dalla variabile per considerare unicamente il carattere comune e il tratto essenziale di qualsiasi sviluppo dell'attività umana.

Mettendo da parte le valutazioni premature e i giudizi spesso azzardati che si danno intorno alla qualità degli atti, abbiamo dovuto esaminarli tutti senza qualificarne nessuno.

Ciò significa che sotto le forme contingenti e arbitrarie della vita c'è sempre una sequenza necessaria e, diciamo così, uno scheletro rigido sul quale poggiano i movimenti più duttili e più vari.

Probabilmente è sembrato che parecchi capitoli di questo libro, in particolare quelli terminali, oltrepassino l'ordine della ragione, ovvero che non abbiano affatto il valore impersonale e universale, né la necessità stringente della scienza.

In apparenza senza dubbio, ci si può sottrarre provvisoriamente alle conseguenze del determinismo della prassi.

Ma, nel fondo delle cose, non vi si sfugge.

E la forza di un'autentica Critica della vita deve essere quella di recuperare, sotto le deviazioni superficiali e temporanee, quella logica nascosta dell'azione, le cui leggi non sono meno rigorose di quelle delle scienze astratte.

Non basta. Infatti tutte le leggi del pensiero, tutte le forme particolari della logica rientrano in quel determinismo concreto della prassi, di cui non sono altro che un aspetto a parte.

La logica dell'azione non è una disciplina particolare, ma è la vera Logica generale, nella quale tutte le altre discipline scientifiche trovano il loro fondamento e il loro accordo.

Per svilupparne l'intero contenuto sarebbe necessario, attraverso un'analisi approfondita delle condizioni che la volontà impone a se stessa, definire le stesse energie propulsive del destino umano.

Di tale impresa, che esigerebbe una trattazione a parte, in questa sede non possiamo offrire altro che pochi cenni, nella misura in cui la conoscenza di quella necessità inerente all'azione ha un interesse pratico.

Se è vero che la volontà non subisce niente che non approvi, e non è nulla che non voglia, non è meno vero che le condizioni di cui ha bisogno per essere ciò che vuole si concatenano rigorosamente sotto l'ispirazione recondita del suo intento specifico.

E non è meno vero che quella necessità, che ha la sua sorgente in noi, è indipendente da noi, e ha il suo principio al di fuori di noi nella verità reale.

Perciò, pur essendo volontarie nella loro origine, le leggi del pensiero e della vita non sono meno necessarie e imposte, sia nella loro applicazione sia nella loro istituzione primordiale.

- Tuttavia proprio perché esprimono la verità ineludibile, e proprio perché sono fondate su una recondita uniziativa della volontà, nella loro stessa necessità esse conservano un carattere che è essenziale mettere in luce.

Mentre le forme particolari della logica hanno il diritto di escludere o il dovere di ignorare quello che sfugge alla loro presa, la Logica dell'Azione, essendo totale, deve in un certo senso comprendere e ammettere persino quello che condanna e che elimina.

In effetti, a differenza della scienza astratta del pensiero che isola le idee e procede per inclusione o per esclusione completa, la realtà concreta della vita concilia perennemente i contrari.

Ciò che è incompatibile e formalmente contraddittorio dal punto di vista speculativo, di fatto si collega, in modo da costituire nuove sintesi distinte dai loro elementi.

E, come in un meccanismo di pezzi assemblati, tutti i movimenti producono il loro effetto di compensazione.

Nell'intera indagine sull'azione umana niente è più importante di questa contestualità tra ciò che si fa e ciò che non si fa.

Non c'è atto che non compendi le tendenze contrarie, e non formi un sistema tanto con i vinti quanto con i vincitori.

I motivi, che di fronte al pensiero sono contraddittori, nell'azione rimangono contestuali.

- All'inverso, nell'ordine dei fenomeni non vi sono mai contraddizioni formali, perché mai le proposizioni particolari che enunciano i fatti dati sono contraddittorie.

E tuttavia la legge di contraddizione si applica al passato reale.

Perciò, mentre dal punto di vista formale la conciliazione è impossibile, dal punto di vista reale è la contraddizione che è impossibile.

E, mentre i futuri contingenti sono compatibili a livello di pensiero, gli atti passati sono incompatibili nella realtà.

Anzi, mai possiamo realizzare altro che dei contrari; e tuttavia la legge di contraddizione governa i nostri atti compiuti.

Mai le contraddizioni sono date di fatto; e tuttavia, quando agiamo, coinvolgiamo nei nostri atti, che sembrano vertere semplicemente su dei contrari, la contraddizione che non realizziamo.

Come uscire da queste aporie?

È l'azione che, fungendo da anello di congiunzione tra le forme opposte del pensiero e della vita, insinua nel cuore delle cose la legge di contraddizione, pur operando perennemente una sintesi sperimentale dei contrari.

Ma come riesce a fare ciò? I fenomeni, presi semplicemente per quello che sono, non si contraddicono mai, essendo sempre eterogenei e solidali.

Se dunque la legge di contraddizione si applica al passato, significa che l'atto soggiacente al fatto apparente ha introdotto nel fenomeno qualcosa d'altro rispetto al fenomeno, qualcosa d'altro rispetto allo stesso possibile: tutto il movimento della vita interiore sfocia nell'affermazione necessaria dell'essere, perché tale movimento è fondato proprio su questa necessità.

L'alternativa che si impone a ogni coscienza umana, e che sola ci colloca, precisamente sul piano della prassi, di fronte alle contraddizioni, non fa altro che rivelare il gioco di questo dinamismo interno.

D'altra parte, siccome la volontà, quando opta in conformità alle condizioni che impone al proprio sviluppo, non elimina il termine dell'alternativa che respinge, abbiamo come conseguenza che, qualunque cosa abbia scelto, essa conserva in sé la presenza del termine escluso come un termine della sintesi che crea.

Dunque ciò di cui si priva, στέρησις, non è assolutamente al di fuori di essa.

Ecco perché, quando con la mortificazione rinuncia a dei fenomeni, il suo sacrificio è solo apparente.

Ed ecco perché, al contrario, quando rimuove le molestie del dovere o le esigenze de « l'unico necessario », si perde ma senza per questo annientarsi.

Mai sfuggiamo alla necessità di implicare i contraddittori, e sempre ne realizziamo uno soltanto eliminando l'altro.

Con la rinuncia otteniamo un doppio guadagno, con il godimento esclusivo patiamo una doppia perdita.

Il fenomeno, ancorché estraneo alla legge di contraddizione, è tale che in esso dobbiamo scegliere tra i poli contraddittori, dobbiamo guadagnare ciò che sembriamo sacrificare spontaneamente, dobbiamo lasciarci sfuggire ciò che sembriamo trattenere gelosamente.

Dunque il problema logico non è che un aspetto del problema dell'azione.

Non solo la prassi si fonda su una dialettica di cui è possibile esibire la rigorosa esattezza, ma altresì le leggi più astratte dell'intelletto hanno tutto il loro senso solo se rapportate allo sviluppo concreto della vita.

Perciò lo studio completo del meccanismo del pensiero e della prassi ci indurrebbe a legare tra loro le diverse forme particolari della logica ancora frammentaria, e al tempo stesso a evidenziare la molla interna che in noi mette in moto tutto e che promuove il nostro destino.

L'utilità di uno studio del genere sarebbe duplice.

Infatti costruirebbe finalmente quella Canonica generale dello spirito umano di cui la logica formale e la metodologia delle diverse scienze non offrono che dei saggi.

E contemporaneamente utilizzerebbe per la soluzione del problema morale il rigore che è proprio della più astratta ed esatta delle scienze.

Il ruolo della logica dell'azione è proprio quello di determinare in questo modo la catena delle necessità di cui è composto il dramma della vita e da cui quel dramma è portato per forza di cose a soluzione.

Mostrando il carattere scientifico di tale concatenazione, essa deve per ciò stesso avere un'efficacia incontrovertibile: assoda che la soluzione è inevitabile e investe necessariamente tutto; mette in luce che ogni prassi fondata su una teoria incompleta è azzardata, ma che la teoria completa porta necessariamente alla prassi, poiché soltanto l'azione può risolvere il problema posto dall'azione.

Quella logica indica gli estremi nei quali può sfociare lo slancio della volontà umana.

Tra il dato iniziale e quelle soluzioni estreme del problema inserisce tutta la serie degli elementi intermedi necessari; ma non ha la pretesa di realizzare con una semplice visione la soluzione, la quale appartiene unicamente alla prassi effettiva.

Al contrario, la speculazione deve porre rimedio ai danni della speculazione, dando prova di offrire una luce alla coscienza non semplicemente per rischiarare, ma per andare avanti.

Conoscere non dispensa dal fare, mentre il fare può dispensare dal conoscere.

Se la vita è un enigma anche per le persone esperte, è sufficiente una volontà davvero integra perché la leggano correntemente anche le persone semplici.

In effetti, poco importa che esse sappiano quello che fanno, purché facciano quello che sanno.

L'autenticità della coscienza e il discernimento delle verità vitali dipendono più dagli atti che dalle idee.

Perché non è mai del tutto sufficiente fare ciò che si reputa buono: bisogna anche che sia bene credere che lo si debba fare.

La logica dell'azione cerca unicamente di scoprire un itinerario che permetta all'intelligenza delle persone istruite di raggiungere lentamente e sicuramente le altezze delle persone umili e dei piccoli.

Essa li conduce a un punto di partenza.

Ma la luce con la quale rischiara la strada non dispensa nessuno dallo sforzo che rimane necessario per salire a quelle altezze.

II.

A qualcuno è potuto sembrare che una Scienza della prassi dovrebbe formulare regole di condotta, esortare le coscienze al bene, e insegnarci efficacemente quello che dobbiamo fare.

Ma la battaglia da fare è stata precisamente quella di combattere questa pretesa di ogni morale, che vorrebbe risolvere il problema della vita senza superare l'onesta mediocrità di istruzioni edificanti.

Un'autentica scienza del destino umano non si costruisce così a buon mercato.

E l'azione è troppo complessa per lasciare adito a una siffatta condotta.

È fuori dubbio che tra la rettitudine dell'uomo che senza discutere, senza transigere con la propria coscienza, preserva a tal prezzo il privilegio dell'infallibile semplicità, e la conoscenza integrale delle condizioni necessario e sufficienti richieste dall'azione, c'è posto per un'arte delicata di esortazioni salutari o per le riflessioni del moralista, ma non c'è affatto posto per una soluzione veramente scientifica del problema morale.

Di proposito e a ragion veduta si è dovuto lasciar cadere ogni istruzione di carattere morale, per fare astrazione dalla varietà introdotta nella vita dalla libera iniziativa della coscienza, e per determinare meramente ciò che è ineludibile e necessario nello sviluppo integrale dell'azione umana.

A paragone dell'insegnamento ultimativo apprestato da questo metodo tutto il resto è di secondaria importanza.

La conclusione di una ricerca come questa è di esibire il carattere illusorio e superstizioso di ogni tentativo esperito per fondare direttamente una morale capace di essere autosufficiente, e di istituire una scienza autonoma.

Non esiste una concezione chiusa del dovere che abbia valore per se stessa, e che istituisca il bene attraverso precetti del tutto formali.

Non esiste neppure una verità speculativa la cui visione adeguata renda la vita perfetta.

Ne il problema etico ne il problema metafisico potrebbero mai essere risolti da soli.

Non esiste una morale al di fuori della verità; ma la verità compresa non si identifica, per sé soltanto, con la morale.

Il segreto della vita è più in alto di quanto non abbiano visto Kant o Spinoza.

Probabilmente questo risultato sembra del tutto negativo: « l'azione non è autosufficiente; l'uomo non trova i se stesso la propria norma e il proprio fine ».

Ma proprio per questo quel risultato è estremamente importante.

Esso toglie via alcune illusioni che, pur essendo spesso generose, assennate, tenaci, non per questo sono meno inconsistenti.

È, infatti, inutile accertare che si sbaglia strada, quando si spera che la morale possa essere fondata come una scienza, senza oltrepassare l'ordine naturale o il fenomeno del dovere o persino le concezioni metafisiche?

È inutile far vedere che è superstizioso ogni sforzo tentato dall'uomo per confinarsi in quella maniera di pensare e di vivere?

È inutile stabilire a quali condizioni la pratica della vita può diventare sicura e scientifica in senso proprio?

Questi non sono altro che dei prolegomeni alla morale, poiché non è in questione la definizione del contenuto di qualche precetto.

In ogni caso questa ricerca ha un interesse che non è dato neppure dalle formule più belle e più precise proposte per esprimere i nostri doveri.

Essa indica la via unica per la quale bisogna passare perché il bene sia il bene, disegna le disposizioni necessarie perché la conoscenza del dovere sia ben altro che una vana teoria, ed esprime le condizioni richieste perché la stessa pratica delle virtù naturali diventi efficace e pienamente salutare.

Può risultare ostico confondere, in una comune accusa di superstizione, l'uomo fedele al dovere e il selvaggio dedito al feticismo.

Ma significherebbe essere ingiusto con il primo solo nella misura in cui egli stesso sarebbe ingiusto col secondo.

Entrambi possono essere ugualmente vicini o ugualmente lontani dalla verità, perché gli atti più rozzi possono servire da veicolo per il bene.

Ma se ci vogliamo accontentare della conoscenza parziale alla quale siamo giunti, se approfittando della poca luce che abbiamo già ci chiudiamo a ogni luce nuova e a ogni esigenza inedita, si verifica l'appropriazione indebita di un pensiero nella cui sfera non abbiamo competenza, si attua la perversione della sincerità.

Pur pieni di ammirazione e di tenerezza per tutte le persone generose, da qualsiasi parte provengano, che vanno avanti e si dedicano a un'opera di salvezza personale e sociale, non potremmo ( senza mai mettere in dubbio la buona fede di nessuno, perché il segreto delle coscienze ci sfugge ) mai armare di sufficiente inflessibile severità contro se stessi tutte quelle persone presuntuose che si fermano, e che fermano anche gli altri, sulla strada lungo la quale bisogna sempre camminare, senza mai vantarsi di essere arrivati.

Queste persone non hanno altro che l'orgoglio che le distingua dal selvaggio dedito al feticismo.

E quando reputano di scoprire loro stessi, e di propalare la prima e l'ultima parola della salvezza, invece di agire, si agitano.

Non si da dunque un medio tra la scienza della prassi e quella scienza pratica che si fonda, non su una riflessione teorica, ma su una cultura del senso pratico mediante la stessa prassi.

Il ruolo della prima è quello di vigilare perché non si surroghi o non si mutili la seconda.

Non c'è bisogno di sapere tutto ciò che si fa, per farlo con conoscenza di causa.

Il pensiero che è efficace non necessariamente è un sistema completo di astrazioni analitiche, πράξις μετά λόγου, ma è una sintesi concreta, che in ogni disposizione interiore può compendiare a livello di coscienza tutto il lavoro della vita,

λόγο ςμετά πράξεως.

L'azione, anche senza essere accompagnata da una giustificazione teorica, veicola in sé una certezza sufficiente.

Essa costituisce un metodo stringente.

È una sperimentazione nel senso più scientifico del termine; una sperimentazione rigorosa e dimostrativa che supplisce all'indagine speculativa e non può essere supplita da nulla.

L'intelletto convalida il metodo pratico facendo vedere che esso non ha neppure bisogno di essere confermato.

Quindi la conclusione di una scienza dell'azione non deve essere questa: « ecco che cosa bisogna pensare o credere o fare ».

Qual è allora? Deve essere quella di agire effettivamente.

Tutto qui, ma proprio tutto qui.

Perciò si dà una via diretta che parte dal punto cui il metodo indiretto della scienza ci conduce come al suo risultato.

Infatti si tratta non di un problema da risolvere se si riesce, ma di un progetto da realizzare se si vuole.

Una soluzione è sempre ineludibile, e per questo è più urgente prepararla che non prevederla.

Rispetto a questo obiettivo necessario la previsione è facoltativa, la preparazione invece è obbligatoria.

La scienza sempre accessibile, la sola indispensabile a chi non ne possiede altra, è questa: prepararvisi aprendo la strada che non è aperta in anticipo, facendo la verità prima di vederla chiaramente, riempiendosi di realtà per meritare la luce.

L'ascetica è una vera scienza, l'unica scienza della direzione delle coscienze.

Essa illumina coloro che vi si esercitano, e concede loro il dono di illuminare gli altri con la perfezione di un tatto che comunica tutta la precisione della vista al palpare interiore della prassi.

Perciò, con un rovesciamento di prospettiva, bisognerebbe ora considerare la serie delle necessità pratiche come un sistema di obbligazioni morali, e trascrivere nei dettami della coscienza le conclusioni della logica dell'azione.

Ma questo sarebbe argomento di uno studio a parte.

Ci basti indicare, insieme alla differenza dei punti di vista, la convergenza di quei due metodi, quello speculativo e quello empirico.

Infatti nell'empirismo del dovere si trovano inglobati tutti gli elementi dell'autentica scienza della prassi.

La teoria completa dell'azione aveva inferito la prassi.

- La prassi a sua volta deve sfociare nella conoscenza completa delle ragioni profonde che la giustificano o la condannano.

Le norme sono una sorta di ipotesi di cui dobbiamo verificare la verità.

E la chiarezza umbratile della coscienza è destinata a diventare, tramite la pratica fedele, la piena luce della scienza.

Il determinismo dell'azione era risultato, allo sguardo conseguente della riflessione analitica, come una serie di mezzi necessari e di relazioni coattive.

- Viceversa allo sguardo della coscienza morale risulta come una scala di fini, che sollecitano la volontà buona e permettono l'esercizio della libertà nell'alternativa cui è sospeso l'intero destino dell'uomo.

Con un'anticipazione del tutto speculativa, la scienza dell'azione aveva cercato di prevedere le conseguenze della prassi, e di prospettare alla coscienza attuale la rivelazione futura del suo immenso contenuto.

- Invece, con uno sforzo del tutto pratico, la sperimentazione morale prepara quello che non prevede, e, impegnandosi a riempire la vita attuale con ogni realtà possibile, semina il futuro nel presente.

La logica dell'azione aveva esibito la perenne conciliazione dei contrari, nell'ordine dei fenomeni, fino alla contraddizione ultimativa che impone alla volontà un'opzione intrascendibile.

- Nella prassi invece quello che era conciliazione dei contrari diventa sacrificio e mortificazione; quello che era alternativa e contraddizione necessaria diventa guadagno complessivo o perdita attuata liberamente.

Infatti, sacrificando i beni apparenti, si ottiene il bene reale, e si è salvato anche quello che sembrava mortificato; al contrario, abbarbicandosi alla vita che passa, la si perde insieme a quella che non passa.

La scienza speculativa, per quanto la si ipotizzi perfetta, si limitava a esibire la contestualità dei fenomeni eterogenei e l'originalità relativa delle sintesi successive studiate, ma senza produrre, e di conseguenza senza conoscere mai la forza che, come una scintilla di vita, opera la combinazione degli elementi.

- La prassi a sua volta opera perennemente questo prodigio.

Essa dunque è la sostanza stessa di ciò che è conosciuto, e la verità che realizza l'ordine universale.

È in essa che i dati sensibili, nonostante la loro inconsistenza; il simbolismo scientifico, nonostante la sua incoerenza; il dinamismo della vita soggettiva, nonostante l'instabilità che ne rompe continuamente l'equilibrio; i fenomeni organici e sociali, nonostante il determinismo che non forma mai una sintesi se non per farne l'elemento di sintesi ulteriori, insomma tutte le forme della scienza e della vita trovano la loro comune ragion d'essere.

L'essere non è mai nell'idea separata dall'azione; e quindi la stessa metafisica, considerata anzitutto sotto un profilo speculativo, non è vera se non in quanto rientra nel dinamismo generale della vita come un gradino del sistema dei fenomeni.

L'azione fonda la realtà dell'ordine ideale e morale; essa contiene la presenza reale di ciò che, in sua assenza, la conoscenza può soltanto rappresentare, ma che, in sua presenza e per suo tramite, è verità vivente.

Perciò la prassi porta in sé la propria certezza e la sua vera luce.

Luce che indubbiamente non è di natura diversa da quella della visione speculativa, ma che tuttavia ne differisce come diversi aspetti dello stesso paesaggio, a seconda che il sole stia davanti o dietro lo spettatore.

La visione è più nitida dal versante dove ci sono meno raggi, e il riflesso ci guida meglio della fonte luminosa.

Allo stesso modo, siccome la luce della coscienza nasce dall'azione per proiettarsi sulla strada che bisogna fare, essa illumina meglio il viaggiatore che cammina senza voltarsi verso la fonte da cui la luce proviene.

Guardarla dal lato da cui brilla significa vederla più splendente, ma forse significa anche vedere meno chiaramente la strada da fare.

La scienza è buona, ma per condurci al di là di quello che già sa.

Qualunque conoscenza teorica abbiamo delle obbligazioni morali, metterle in pratica è sempre una cosa nuova e istruttiva, e non è mai semplicemente affare di scienza.

La perfezione della scienza, sebbene sia identica alla perfezione della vita, non la surroga mai.

La prassi non è un semplice succedaneo, transitorio o approssimativo, per coloro che non possono vivere del loro pensiero perché non possono neppure pensare alla loro vita.

La prassi non è ne affare del sentimento o dell'ispirazione generosa senza rigore logico, né semplicemente un teorema in atto. Ciò che porta in sé è infinitamente maggiore della conoscenza, per quanto del tutto penetrabile da parte della conoscenza.

- Talvolta qualcuno ha ritenuto che la vera esperienza consista nello sperimentare tutto. È un errore.

C'è un'esperienza che depaupera la vita e riduce in noi la conoscenza dell'essere.

Al contrario, la sottomissione al dovere che richiede mortificazione conferisce all'uomo di sacrificio una competenza universale e una ricchezza interiore che non si acquistano altrimenti.

- Qualcun altro ha ritenuto che solo il pensiero porta in sé il vero infinito, che invece l'azione limita il pensiero determinandolo, e che i francesi, ad esempio, hanno troppo il genio dell'azione, troppo l'amore per la chiarezza, per avere la testa filosofica.

Ma è un altro errore. Nella prassi più dimessa e negli atti soggetti all'angustia di una norma austera c'è un senso della vita più pieno, una maggiore larghezza di mente, un maggiore senso del mistero che in tutte le epopee metafisiche.

- Qualcun altro ancora ha ritenuto che la lettera finisce per uccidere lo spirito, che ogni dogma definito è mortifero per la libertà di pensiero, che la pratica letterale è mortale rispetto al senso del Dio vivente.

Ma anche questo è un errore.

Lo spirito è vivificato soltanto grazie alla lettera.

Il culto positivo e l'atto di precetto estremamente chiaro sono nient'altro che le funzioni della vita divina in noi.

Il senso religioso, la coscienza del genio nazionale della Francia, il carattere di generosità e di dedizione attiva, l'amore della chiarezza e della decisione, come il grande sentimento del mistero sono inseparabili.

Non rinunciamo a nessuna di queste eredità, per non perdere tutto.

Pertanto la scienza pratica, pur essendo del tutto differente dalla scienza della prassi, sa accettarne il concorso e allo stesso modo sa farne a meno.

La loro solidarietà è tale che la perfetta conoscenza dei nostri atti sarà la sanzione dei nostri atti stessi, e la piena rivelazione di ciò che abbiamo voluto e fatto deve stabilizzare per sempre la volontà.

La loro indipendenza è tale che questa piena rivelazione non potrebbe modificare in nulla la natura degli atti operati nella penombra della coscienza, e che tutta la scienza delle opere volontarie e delle loro conseguenze deve lasciare intatta la volontà che persiste in quelle.

Quegli atti sono voluti così come li conosciamo, e li conosceremo così come li vogliamo.

Rovesciandosi, il rapporto non cambierà; la reciprocità è perfetta.

Ma se è la conoscenza che deve recare la sanzione futura, è la prassi che definisce l'obbligazione attuale.

III.

La Critica della vita per risolvere il problema umano non può fare a meno di risolvere il problema universale.

Essa determina il nodo in comune tra la scienza, la morale e la metafisica.

Stabilisce le relazioni che intercorrono tra la conoscenza e la realtà.

Definisce il senso dell'essere.

Questo plesso vitale viene individuato all'incrocio tra il conoscere e il volere, nell'azione.

Anziché cercare l'essere dietro ciò che è conosciuto e voluto, in un termine medio o in un substrato immaginario, quella Critica rimuove ogni realtà occulta, per trovare nella mediazione che adegua i due termini senza confonderli la verità reale di tutto ciò che è.

Le cose sono conosciute così come sono, e sono così come sono conosciute.

È l'unità di questo duplice aspetto che rende vero il loro essere: è questo l'unico modo per conciliare l'esistenza oggettiva e la stessa realtà degli oggetti dell'esperienza con il primato dello spirito e la suprema originalità della vita interiore.

Studiare il determinismo globale della conoscenza e l'ordine complessivo dei fenomeni è compito della scienza integrale.

Far vedere che questa conoscenza necessaria ha una verità assoluta, indagare in che senso o a quali condizioni l'esistenza conosciuta è realmente oggettiva è il ruolo della metafisica. Tracciare, per le ascese della volontà, l'itinerario che conduce dall'aspirazione originaria e dalla conoscenza necessaria al possesso volontario dell'essere, trasformando il sistema delle necessità in una gerarchia di obbligazioni, è il ruolo della morale.

La critica dell'azione funge da prolegomeni a questa triplice indagine.

A ciascuna di esse giova recuperare l'indipendenza del proprio sviluppo, se vuole individuare la sfera di sua competenza.

- Ora, senza voler percorrere in questa sede quelle tré strade che si aprono davanti a noi, sia sufficiente indicare il vantaggio che abbiamo ottenuto giungendo al loro punto di convergenza, laddove volgendoci indietro le vediamo divergere.

I - Poiché la realtà di ciò che è conosciuto non va cercata in un substrato posto dietro ciascun fenomeno, ne deriva che l'indagine sulle cose deve mettere da parte in un primo momento qualsiasi questione ontologica, e che tra gli oggetti della conoscenza non può esservi contraddizione.

Non vi è laddove non si da un essere che funga in qualche modo da nucleo resistente e da fondo impenetrabile.

Al contrario, se dovessimo supporre nei fenomeni un sottofondo distinto da essi, o se affermassimo che essi costituiscono l'unica e vera realtà, sarebbe impossibile non trasformare in opposizione formale la loro eterogeneità inoppugnabile, e non istituire in assoluto il determinismo che li rende contestuali.

Da ciò sorgono aporie insolubili, perché sono artificiose.

In effetti, vi è anche solo una dottrina che abbia evitato la tentazione ontologica nell'esaminare i fenomeni stessi?

Ve ne è anche solo una che non abbia avanzato affermazioni o negazioni premature, incompetenti, fuori luogo?

E la prova è che invece di considerare quegli oggetti della conoscenza come appaiono, cioè come eterogenei e contestuali, si è ritenuto che essi sono tra loro esclusivi, incompatibili, carichi di antinomie.

Ora, come mai si giunge a dare questo giudizio, se non perché si inserisce surrettiziamente in essi un occulto principio di contraddizione, il quale conviene loro solo nella misura in cui si attribuisce loro l'essere?

Anche il fenomenismo cede a quella tentazione, avanzando la pretesa di attenersi ai fenomeni come se non ci fossero che i fenomeni, e ritenendo che essi escludono ogni altra realtà.

Lo stesso criticismo subisce quella vertigine metafisica, intravedendo opposizioni irriducibili laddove non c'è che eterogeneità.

Persino il positivismo è incoerente col suo principio, escludendo in nome di certe scienze, investite, in forza della stessa pretesa, di un valore oggettivo, tutta una parte delle nostre conoscenze che non sono meno positive delle altre, poiché abbiamo visto che esse rientrano tutte in un medesimo determinismo.

Dunque tutte queste dottrine, cadendo in analoghe illusioni sia in relazione al fenomeno sia in relazione all'essere reale, e popolando di idoli il mondo dell'intelletto, hanno intravisto la difficoltà dove non sussiste, non avendola vista dove si trova realmente.

Pur contrarie tra loro, esse sono solamente delle specie differenti di uno stesso genere falsato.

Perché la Filosofia meriti questo nome specifico, occorre che sia una dottrina diversa dalle altre, e che definisca esattamente nell'ambito del controvertibile ciò che non lo è; infatti è proprio ciò che rientra nel campo della scienza.

In tal modo, laddove i sistemi di solito si sono esauriti in vuote dispute, essa non trova più alcuna materia di discussione, perché vi immette puramente e semplicemente le abitudini dello spirito scientifico, il quale non si mette a speculare su nessuno dei suoi oggetti.

Per essere scientifico l'esame dei fenomeni, quali che siano, non ha bisogno di indagarne la natura; al contrario, ha bisogno di essere immune da quella sterile curiosità.

L'esame scientifico assume quei fenomeni per quello che sono, senza alcuna restrizione surrettizia, senza immettere in questo termine alcun significato estraneo rispetto a ciò che esso designa.

Ogni sintesi risulta originale, eterogenea, irriducibile alle proprie condizioni: bisogna dunque condurre un esame a parte per ogni ordine differente.

Ogni ordine di fenomeni è legato a tutto il sistema da un determinismo senza soluzione.

È quindi impossibile che la scienza si restringa a un punto, e che escluda uno qualsiasi degli oggetti contestuali che entrano a comporre un solo e identico universo, un solo e identico problema.

Ma invece di cercare in un nuovo ordine di fatti la spiegazione o la realtà di un ordine precedente, l'esame scientifico riserva per una ricerca successiva gli oggetti ulteriori che gli mette davanti la sequenza necessaria delle sue investigazioni. Pur essendo trascinato continuamente, per così dire, al di là di se stesso, esso si difende dal miraggio che gli fa balenare ogni nuova incognita, il miraggio cioè di essere il segreto di quanto è conosciuto.

L'esame scientifico si attiene a ogni anello della catena come se fosse l'unico, e non ritiene affatto di trovare, per esempio, nelle scienze positive la verità delle intuizioni sensibili.

Ogni ordine possiede la sua verità e, diciamo così, la sua solidità propria.

Il suo valore oggettivo consisterà non in quello che non è, ma in quello che è.

È per questo motivo che la scienza prende possesso pacificamente di ogni ordine, senza temere che uno di essi avanzi la pretesa esclusiva di rendere ragione di ogni cosa, e di contenere esso solo il vero e l'essere.

Kant aveva notato che tra la tesi e l'antitesi delle ultime antinomie da lui esaminate non vi è affatto opposizione, come tra due rette che, pur non essendo parallele, non si incontrano se sono tracciate su piani differenti.

Ma bisogna essere più radicali: tra gli oggetti contestuali studiati dalla scienza sullo stesso piano del determinismo non c'è mai collisione, perché a quel livello la solidità dell'essere è ancora carente.

Ma se si riesce a liberare dall'essere ogni campo di indagine per consegnarlo integralmente alla conoscenza scientifica, ciò avviene correttamente perché si è indotti per altro verso a reintegrarlo ovunque, facendo dello stesso fenomeno una verità metafisica.

Prendere i fenomeni per quello che sono, né più né meno: questa restrizione sembra la cosa più naturale del mondo.

Ma per metterla in pratica bisognerebbe già essersi innalzati a una concezione più alta; e, operandola, la filosofia è indotta ad aggiornare il senso delle sue indagini.

Essa reintegra nella parte del suo dominio in cui regna la grande pace della scienza la maggior parte delle questioni sulle quali si è persa in controversie senza sbocco possibile.

Giova dunque soffermarsi per un momento a considerare a quali illusioni siamo esposti, per meglio vedere quante pseudodifficoltà o quante disastrose divisioni sia facile evitare.

Si eviteranno alla sola condizione che si escluda dall'esame del determinismo dell'azione ogni preoccupazione ulteriore.

Occorre, è vero, che vi sia sempre un problema ulteriore.

Ma proprio per averlo individuato laddove non esiste, siamo stati portati a introdurlo in tutti i contesti in cui non c'è.

- Siamo portati a cercare nei dati della sensibilità la verità stessa e l'essere reale.

- Ma occorre che il pensiero si metta in guardia contro questo falso misticismo.

Esso deve assumere quei dati sensibili non come una realtà che esclude tutte le altre, ma così come appaiono, come un sistema di simboli da decifrare.

Ed è agevole misurare la forza di quella seduzione, se consideriamo quale sforzo di riflessione ci sia voluto per emancipare l'intelligenza dal fascino dei sensi.

- Siamo portati a cercare nelle scienze positive l'unico segreto della realtà, e a rivoltare le conclusioni accertate da quelle scienze contro tutto ciò che oltrepassa la loro portata.

Non vediamo forse certe intelligenze, tutte invasate come sono dalla critica kantiana, attribuire un valore metafisico ai simboli scientifici, e considerare i fondamenti delle matematiche come se si trattasse di ontologia?

- Ma non dimentichiamolo.

Le scienze positive non sono altro che un simbolismo continuato.

E se pure troviamo in esse un mezzo di azione, mai possiamo attribuire ai fenomeni che le scienze collegano o ai risultati che ottengono non dico una portata oggettiva, ma semplicemente un valore soggettivo tale che se ne possa dedurre un argomento qualsiasi contro ogni altra verità soggettiva.

Esse non consentono che si escluda o si neghi alcunché, ne fuori di noi ne in noi.

La contingenza delle relazioni necessarie è la prima delle verità positive.

- Siamo portati a cercare nel determinismo della coscienza precisamente l'espressione della vita reale, e a credere che quel dinamismo interno escluda tutto ciò che non è automatismo e necessità.

- Ma tale automatismo è ancora un idolo, se si reputa che è la vera e ultima parola delle cose.

Ma anziché essere assoluto ed esclusivo, esso è relativo alla libertà.

Tra il determinismo scientifico e il determinismo psicologico c'è lo stesso rapporto che c'è tra il determinismo psicologico e la libertà stessa.

Sembra che si respingano, e invece si richiamano.

L'automatismo delle idee e il libero arbitrio sono due fenomeni contestuali.

La libertà non può essere negata in nome del determinismo interno o esterno della scienza, perché reciprocamente la scienza è determinata in nome della libertà, che è l'anima della vita intellettuale e della conoscenza scientifica.

La psicologia in apparenza più positiva non è altro che un'alchimia mentale, finché sotto la spinta delle sue indagini inocula preoccupazioni a carattere positivistico.

Chiedere allo studioso di psico-fisiologia se è seguace della dottrina della monade, o allo studioso di psicologia se esclude il libero arbitrio, significa porgli una domanda strana allo stesso titolo di quella posta al chimico, al quale oggi chiedessimo se è seguace della teoria del flogisto.

- Una volta ammessa la libertà, siamo portati a cercare in essa l'unica molla dell'azione umana, come se dovessimo o respingerla in assoluto o affermarla in maniera esclusiva.

- Ma come non bisogna negarla in nome del determinismo antecedente, neppure bisogna negare in nome suo il determinismo conseguente all'azione.

Uno dei risultati essenziali della scienza dell'azione è precisamente quello di mettere in piena luce le conseguenze necessario del fenomeno dell'azione, a prescindere dalle variazioni indeterminabili della condotta umana.

Dal solo fatto di volere deriva uno sterminato concatenamento di fenomeni inediti, che costituiscono progressivamente lo stesso quadro della vita morale.

Così definita, la libertà non interrompe la serie, ma è dentro la serie.

E probabilmente il paradosso più stridente testimoniato dal presente lavoro è quello di studiare il determinismo delle azioni libere, senza intaccare minimamente l'uso determinato della stessa libertà.

- Siamo portati a subordinare sia l'autonomia all'eteronomia, sia l'eteronomia all'autonomia della volontà, come se anche qui ci fosse incompatibilità.

- Ma il concatenamento scientifico dei fenomeni di coscienza esibisce la subordinazione reciproca e la contestualità di questi due aspetti.

Grazie a un'alternanza progressiva, la libertà è di volta in volta un mezzo e un fine.

Lo scopo che essa persegue come un termine esterno rientra nella serie degli intermediari che le consentono di ritrovare se stessa.

La norma che le sembra imposta è ancora inclusa nel suo intento iniziale, senza cessare di esserle offerta come una vera e propria eteronomia.

- Siamo portati a considerare come definitivi ed esclusivi tutti i fini parziali che l'azione raggiunge, l'uno dopo l'altro; come se i sacrifici richiesti non consentissero compensazioni possibili; come se le sintesi costituite avessero una consistenza e una sufficienza assoluta; come se ogni nuovo gruppo di fenomeni, assorbendo tutto, non lasciasse posto a niente altro.

- Ma questi sacrifici apparenti procurano un arricchimento reale.

Ciascuno dei fini conseguiti non è altro che un mezzo nella serie dei progressi della volontà.

Gli affetti e i doveri sociali anziché escludersi si sorreggono e si completano a vicenda.

Ogni sintesi è nuova in rapporto ai suoi elementi.

Superandoli, essa non li elimina, e conservandoli non risulta compromessa.

- Siamo portati, ed è questo il grande idolo dello spirito, a istituire come assoluto il sistema globale dei fenomeni, e a conferire alle concezioni universali, in qualunque forma si organizzino a livello di pensiero, un senso tale che non ci sia più nulla da aggiungervi.

Tali concezioni, per quanto poco differiscano tra loro, sembrano escludersi: costituiscono metafisiche inconciliabili.

- Ma esse non sono la verità assoluta ne sono reciprocamente esclusive.

Formando diversi gradi nello sviluppo generale del pensiero e nel dinamismo della vita, sono a loro volta solidali come gradini di una scala.

Le soluzioni naturalistiche hanno il loro ruolo e la loro efficacia incontrovertibile, così come le concezioni idealistiche.

Le une e le altre contengono una verità solo nella misura in cui, essendo legate allo sviluppo dell'azione, ne raccolgono gli insegnamenti, ne rischiarano il cammino e ne preparano il progresso.

- Siamo portati ad attribuire un valore assoluto alla prassi fondata sulla sola testimonianza della coscienza, rischiarata dalla sola luce della ragione, sorretta dal solo sforzo della buona volontà.

Come se i fenomeni morali in se stessi, isolandosi da tutti gli altri, avessero una sufficienza divina, investissero il fondo delle cose, operassero la salvezza e rendessero superflua ogni ricerca ulteriore.

- Ma questa pretesa non è altro che una ulteriore superstizione.

La verità è che, senza fermarsi a quello che non conosciamo, bisogna agire in base al dovere che conosciamo.

L'errore è quello di reputare che questo cammino in avanti non possa e non debba portare a una nuova luce, e che la ragione sia esclusiva di un ordine superiore, mentre essa è solidale con tale ordine.

Tutti questi problemi, che formano l'argomento consueto di discussioni appassionate, suscitano i conflitti e totalizzano la sostanza della metafisica, devono essere lasciati nella zona neutra della coscienza, senza introdurvi prematuramente, come un fermento di discordia, preoccupazioni estranee allo studio dei fenomeni eterogenei e contestuali.

In sostanza si tratta di far scorrere la catena completa del determinismo.

E dove si dà soltanto il necessario, non si da l'essere, dove non si da l'essere, non si da contraddizione.

II - Ma è possibile acquisire alla scienza questa zona neutra, in cui deve regnare la pace, soltanto se mettiamo tra parentesi il principio occulto delle divisioni, se sappiamo cercare l'esistenza oggettiva unicamente dove può essere, se troviamo l'essere unicamente dove è.

La conoscenza necessaria della verità non è altro che un mezzo per guadagnare o perdere il possesso della realtà.

Sebbene questa conoscenza oggettiva debba essere identica al suo oggetto, tuttavia tra quella conoscenza e quest'oggetto intercorre tutta la differenza che può separare il possesso dalla privazione.

In tal modo dunque essere e conoscere sono i poli più diversi e più simili che si possano immaginare.

E l'esistenza oggettiva consiste in quello che, a livello di questa identità necessaria, può e deve essere accettato liberamente per costituire l'identità volontaria.

Pertanto la realtà degli oggetti conosciuti è fondata non su una specie di doppio soggiacente, non sulla forma necessaria del loro fenomeno, ma su ciò che ci impone una scelta inevitabile.

Essa si realizza nell'azione mediatrice, la quale fa sì che essi siano ciò che appaiono.

Dunque la loro esistenza è in loro, poiché essi sono come sono conosciuti, ed è fuori di loro, poiché sono conosciuti come sono.

Quindi le cose, essendo indipendenti dall'uso che ne facciamo, essendo sottratte al capriccio umano, essendo tutte suscettibili di essere studiate con l'imparzialità della scienza, sono totalmente subordinate alla grande e decisiva questione circa l'impiego della vita.

La loro ragion d'essere è quella di sollevare per noi quel problema.

E nella soluzione di tale problema esse trovano la loro ragion d'essere.

Omniapropter unum.

La metafisica è controversa ma non controvertibile.

E lo è perché la scienza relativa a ciò che è, senza esserne dipendente, fa corpo con la volontà relativa a ciò che è. È questa la sua originalità.

Ecco dunque il punto preciso intorno a cui si scatenano tutte le battaglie, l'unico segno di contraddizione che non deve mai venir meno, quel segno che si leva non soltanto per effetto di un malinteso o di un'ignoranza transitoria, quel segno che non lascerà mai le coscienze nella condizione ignominiosa della pigrizia.

È l'unica questione essenziale.

Per non intravederla in tutti quei contesti in cui non ricorre, bisogna individuarla soltanto lì dove ricorre.

Non ricorre nelle opposizioni immaginarie del positivismo e dell'idealismo, e neppure nei contrasti tra la natura e la morale.

Essa ricorre in pieno in quel conflitto necessario che nasce nel cuore della volontà umana, e che le impone di scegliere a livello pratico tra i termini di un'alternativa ineludibile, di un'alternativa tale per cui l'uomo o cerca di rimanere padrone di sé e di preservare gelosamente il proprio essere, o si abbandona al comando divino rivelato alla sua coscienza in modo più o meno oscuro.

Quindi per noi l'essere e la vita non consistono in quello che si deve pensare, o in quello che si deve credere, e neppure in quello che si deve praticare, ma in quello che è messo in pratica di fatto.

È necessario, se così si può dire, decentrare l'uomo e la filosofia, in modo da collocare questo punto vitale dove in effetti si trova, non negli oggetti raggiunti dai sensi, non nei fini verso cui si protende il desiderio, non nelle speculazioni intellettuali, non nelle prescrizioni morali, ma nell'azione.

Perché per forza di cose proprio tramite l'azione si decide di fatto la questione dei rapporti tra l'uomo e Dio.

Perciò, come la critica della vita sposta e rivela progressivamente il centro prospettico del pensiero, così essa sposta e rivela il baricentro della prassi.

Per individuare l'equazione dell'azione essa è chiamata ad abbracciare e a trascendere tutto l'ordine naturale.

Senza introdurre dal di fuori nessuna costrizione o nessun postulato, e grazie alla sola energia della molla interna alla volontà umana, essa costringe l'uomo ad aprirsi al dono di una vita più alta, oppure, se si chiude in sé, a condannarsi da sé.

III - L'intero determinismo dell'azione ha dunque il compito di far sorgere ineludibilmente un conflitto, perché tutto l'essere delle cose e l'intera sorte del nostro essere sono sospesi all'indeclinabile dovere di risolverlo volontariamente.

Persino la concezione di Dio che abbiamo di primo acchito non è altro che un effetto di quel determinismo interno, e una molla destinata a potenziare il dinamismo della coscienza fino al punto in cui bisogna scegliere.

La soluzione del problema è dunque fondata sull'integralità dell'esperienza e della scienza umana.

Ma tutto quest'ordine naturale nel suo insieme non è altro che un mezzo per realizzare un destino superiore.

Se non si accede a quel destino, anche la vita meglio organizzata rimane come una cornice ben rifinita ma vuota.

Qualsiasi dottrina che non metta capo all'unico necessario, qualsiasi filosofia separata cadrà nella fallacia delle false apparenze.

Sarà una dottrina, non « la Filosofia ».

Le renderemo il migliore servizio, se la metteremo in contatto con quest'ordine superiore, in cui la filosofia non può penetrare, ma che non può ignorare ne escludere senza mutilare se stessa.

Se non giunge fino al punto di evidenziarne la necessità, tutte le altre questioni di cui la dottrina e la filosofia trattano perdono il loro senso e il loro nesso, e la filosofia non è più scienza.

Qualsiasi affermazione dell'esistenza oggettiva è destituita di significato e di fondamento, e la filosofia non è più metafisica.

Qualsiasi prassi rimane priva di efficacia salutare, e la filosofia non è più una morale.

In tal modo si manifesta l'unità del problema.

Poco importa che la soluzione speculativa risulti difficile da rischiarare con un po' di luce, se la soluzione pratica non è ritardata o compromessa da alcuna oscurità.

Non sempre la volontà più chiara è quella più distinta, e la volontà che non analizza le proprie condizioni è della stessa natura della volontà la cui conoscenza ha penetrato le ragioni riposte.

Dottrine recenti hanno avanzato la pretesa di ricondurre tutto, nell'universo, a un volere oscuro e irrazionale.

Ma esso non merita questo nome.

Noi dobbiamo cercare il segreto anticipato del nostro essere in una volontà che dapprima non è ragionata, ma può esserlo.

Si tratta del dramma profondo delle nostre vite.

Non vi è nulla di immaginario o di esteriore, ne nel problema ne nella stessa soluzione.

Ogni vita umana è intessuta di una logica sopraffina.

Formule scorrette possono invilupparla con illusioni e con intralci, ma essa finisce sempre per sradicarli via, spesso senza averli esaminati.

La forza della ragione consiste semplicemente nel dipanare il contenuto intrinseco dei nostri atti.

Infatti ciò significa far leva su qualcosa che, lentamente forse, ma sicuramente, produce a poco a poco i suoi effetti.

La scienza dell'azione ha come oggetto quello di evidenziare la potenza di questo motore interno.

Sia che consideri la deviazione che spinge per sempre la volontà fuori dal suo centro, sia che contempli la maniera stupenda con la quale l'uomo, per una sorta di trapasso alla vita, acquisisce il dono di Dio, essa individua sempre nell'intimo volere di ciascuno il principio del destino di ognuno.

Pertanto la forza delle prove che essa impiega dipende dal fatto che ciascuno le porta in sé.

La sua ambizione è quella di mettere allo scoperto quello che noi preferiamo nasconderei.

Non che possa anticipare davvero le rivelazioni del futuro, ma può almeno svelare le mistificazioni del presente.

Se per l'uomo la conoscenza non è tutto, in lui essa è sufficiente per fargli riconoscere la sua strada.

- Può darsi che ricercare il referente dell'azione al di là della realtà data, e orientarsi a un bene che non si incontra più nella natura, significhi essere mistico.

- Può darsi che, per la volontà, riconoscere la necessità di trascendere se stessa significhi operare una petizione di principio e presupporre quel bisogno di infinito che è in questione.

- Può darsi che la pretesa di procurare all'uomo le soddisfazioni infinite oggetto dei suoi sogni significhi venir meno alla saggezza filosofica, perché palesemente l'ambizione e il punto d'onore della filosofia sono sempre stati quelli di frenare l'impulso cieco dei desideri umani.

Sgombriamo dunque il campo dagli errori.

- Abbiamo dovuto affrontare di petto l'azione non per introdurvi ciò che non vi sarebbe contenuto, non per interpretarla, non per orientarla, ma per constatare tutto ciò che è, che lo sappiamo o lo ignoriamo, che lo vogliamo o non lo vogliamo espressamente.

Si tratta non di mere tendenze, ma di atti concreti, non di quello che potrebbe e dovrebbe essere, ma del reale, di quello che facciamo e vogliamo.

La sola analisi della volontà, esibendoci quello che bisogna ratificare per giungere a raccogliere nel volere persino la nostra stessa volontà, ci ha fatto vedere attraverso quali condizioni dobbiamo passare ineludibilmente.

Per la ricerca scientifica volere l'infinito non è un punto di partenza, ma un punto di arrivo.

Ma per l'attività spontanea della vita è un punto di partenza e un principio, ecco il problema.

Se c'è in noi questo bisogno, come far sì che non ci sia, come sottrarsi alla necessità di riconoscerlo?

Tutto quello che si può tentare di fare è di supporre che non esista, di fare in modo che non esista, di volere infinitamente senza volere l'infinito.

Ed ecco da dove deriva il carattere negativo del metodo che ci è apparso l'unico in grado di esibire il rigore della scienza: sottrarsi con tutte le proprie forze alle conclusioni cui saremo indotti, cercare tutte le scappatoie, significa forse introdurre un postulato recondito?

- E da tutti quei tentativi non scaturisce che un sistema di affermazioni connesse, che a poco a poco ci costringono a porre di fronte al pensiero riflesso il referente che era già presente all'origine del movimento col quale tentavamo di sottrarci a esso.

Come Cartesio aveva immaginato nuovi motivi per dubitare, così noi abbiamo dovuto far entrare nel campo delle dottrine filosofiche atteggiamenti morali singolari, e partire più da lontano, per procedere più lontano di dove eravamo arrivati, dallo stato d'animo dell'esteta alla devozione di una suora di carità.

Ma il Dubbio metodico rappresentava la disposizione particolare di una sola mente, mentre qui bisogna ammettere tutta la diversità delle coscienze umane, e far mettere in movimento quegli stessi che vogliono far credere di non partire affatto.

Il Dubbio metodico era limitato a una difficoltà intellettuale, parziale, artificiosa, mentre qui si tratta del problema vitale, del problema totale.

Dal Dubbio metodico si usciva come da una simulazione, mentre qui bisogna rimanere ancorati all'azione come alla realtà.

Pertanto quello che era puramente e semplicemente il problema dell'intelletto diventa il problema della volontà.

Non è più soltanto il problema cartesiano, ma è il problema kantiano che abbiamo dovuto risolvere su nuove basi, definendo il rapporto tra il conoscere, il fare e l'essere.

Anzi, più ancora, è il problema del pessimismo intorno al valore della vita, e intorno all'accordo tra il nostro volere e le condizioni universali della conoscenza e dell'esistenza.

Anzi in ultima istanza è in gioco il problema filosofico nella sua integralità, poiché si tratta del rapporto tra l'ordine naturale e il soprannaturale stesso, e del procedimento della filosofia come disciplina a parte.

- Per eliminare la contraddizione che l'uomo ha sempre avvertito tra il principio e il termine dell'aspirazione volontaria, la saggezza umana ha da lungo tempo indicato questa soluzione: « Invece di tendere invano ad adeguare il fine voluto al principio infinito del desiderio, non si può regolare il desiderio sulla base dell'oggetto, e limitare l'aspirazione? ».

Certo, si può farlo, e lo si fa, ma a quale prezzo?

Infatti quello che si respinge non è affatto eliminato, e in questa rinuncia sistematica ci imbattiamo, come in un principio di condanna e di morte, in quella contraddizione riposta che sembrava tolta.

- Pertanto non sono in gioco né il misticismo né la petizione di principio, ma la visione del contenuto reale dell'azione volontaria, il disvelamento di quello che contiene e anticipa la presunta sapienza dell'astensione, la giustificazione, nei confronti di una scienza fatua e proterva, della grande follia di vivere e di morire, se necessario, per salvare la propria anima.

Non sfuggiamo affatto a ciò che vogliamo, anche quando sembra che non lo vogliamo.

L'intero mistero della vita deriva da quel disaccordo di superficie tra i desideri palesi e l'aspirazione autentica del volere originario.

Niente ci è imposto in maniera tirannica, sia nelle condizioni ineludibili della nostra vita, sia nell'uso personale delle nostre forze, sia nelle conseguenze talvolta impreviste dei nostri atti.

L'essere che riceviamo è identico a quello che vogliamo, e mai cessiamo di volere quel tanto di essere che possiamo perdere.

In tal modo risulta definito il senso stesso dell'essere.

Come un'arma a doppio taglio, l'azione risolve in sensi opposti il problema della vita o della morte che si impone a tutti.

E le sintesi da essa operate, sempre con gli stessi elementi, le soluzioni cui mette capo, sono talmente estreme da superare o tutto quello che il pessimismo più nero ha immaginato, o tutto quello che l'ottimismo più audace ha sognato.

E proprio in questo consiste la grandezza e la bellezza del nostro destino.

Nel fondo originario della volontà umana c'è un abbozzo di essere che non può più venire meno, ma che, deprivato del suo compimento, vale meno che se non fosse esistito.

E perché quell'abbozzo giunga a compimento è necessario che riceva la perfezione da una mano più che umana.

L'uomo non può guadagnare il suo essere che rinnegandolo, in qualche modo, per rapportarlo al suo principio e al suo fine autentico.

Rinunciare a quello che ha di proprio, e annientare quel nulla che è, significa ricevere quella vita piena alla quale aspira, ma della quale non ha in sé la sorgente.

Per essere alla propria altezza e salvarsi ha bisogno di trascendersi.

Il suo modo per contribuire a creare se stesso è quello di acconsentire a essere invaso da tutto ciò che è vita anteriore e volontà superiore alla sua.

Volere tutto ciò che vogliamo, nell'integrale autenticità del cuore, significa collocare in noi l'essere e l'azione di Dio.

Indubbiamente questo ci costa, perché non avvertiamo che questa volontà è la nostra volontà a un grado eminente.

Ma bisogna giocare il tutto per tutto.

La vita ha un valore divino.

E nonostante le sue debolezze sul piano dell'orgoglio e della sensualità, l'umanità è abbastanza generosa per preferire di darsi in proprietà a colui che esige di più da essa.

La scienza può estendere la necessità di quest'opera di vita e di salvezza.

Non è essa che la compie; anzi non la comincia neppure.

L'azione umana deve prepararla e deve prestare il suo concorso.

Ma anche l'azione non ha l'iniziativa di quell'opera, non procura il suo successo.

Scavare il letto del fiume non significa riempirlo d'acqua.

La critica razionale e la prassi morale hanno un ruolo incontrovertibile di sgombero e di preparazione.

Ma la sorgente viva è altrove, non in loro.

Anche dopo aver posto, a titolo di ipotesi necessaria, l'ordine soprannaturale come un postulato scientifico, bisogna guardarsi dal ritenere che si possa dimostrare la sua verità reale sviluppando le sue conseguenze o esibendo le sue analogie interne.

L'affermazione che il soprannaturale è non costituisce mai un riconoscimento che provenga da noi soltanto.

Per noi, dunque, è sufficiente eliminare tutto ciò che in una falsa prospettiva lo farebbe apparire impossibile, mostrare tutto ciò che lo rende giustamente necessario, dimostrare che non può essere accertato ne escluso dalla filosofia, e che tuttavia l'uomo non potrebbe farne a meno senza colpa e senza perdizione.

Se non possiamo darne una dimostrazione integrale di fronte alla ragione, non possiamo neppure avere la competenza di negarlo senza averne fatta l'esperienza.

E quando ne abbiamo fatta l'esperienza, in quest'ultima non troviamo che ragioni positive per affermare il soprannaturale.

Ecco perché l'educazione è in grado di comunicarlo come una verità sperimentale, grazie alla pratica obbediente.

Non facciamo come se non esistesse affatto, perché per noi esisterà di sicuro.

Qui è in gioco l'interesse globale della vita.

A ogni altro livello è possibile astenersi o trovare scappatoie, perché le affermazioni o le negazioni, sempre amalgamate ad altre componenti, rimangono relative.

Ma di fronte a questo sì senza no, e qui soltanto, tutto si decide in assoluto.

Non c'è via di mezzo o astensione neutrale: omettere di fare quello che in ipotesi sarebbe vero, significa fare quello che in ipotesi è falso.

Spetta alla filosofia estendere la necessità di porre l'alternativa: « Esiste o non esiste? ».

Spetta a essa far vedere che soltanto questa domanda unica e universale, che abbraccia l'intero destino dell'uomo, si impone a tutti con questa perentorietà assoluta.

« Esiste o non esiste? ».

Tocca alla filosofia dimostrare che in pratica non si può fare a meno di pronunciarsi prò o contro quel soprannaturale: « Esiste o non esiste? ».

Tocca a essa, ancora, esaminare le conseguenze dell'una o dell'altra soluzione e misurarne l'immenso divario.

La filosofia non può andare oltre e non può dire in base alla sua sola competenza che cosa è o che cosa non è il soprannaturale.

Ma, se è consentito aggiungere una parola, una sola, che oltrepassi il campo della scienza umana e la competenza della filosofia, l'unica parola capace, di fronte al cristianesimo, di esprimere questa parte, la migliore, della certezza che non può essere comunicata, perché nasce unicamente dall'intimo dell'azione perfettamente personale, una parola che sia essa stessa un'azione, bisogna dirla: « Esiste ».

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