Il principio Persona |
Remota oggi appare l'epoca della competizione fra speranze forti: illuminista, marxista, cristiana, che emerse negli anni '60 come elemento centrale dell'epoca e che segnò in profondità molti progetti.
Il presente sembra il tempo del ripiegamento, dell'abbassamento degli orizzonti, della caduta talvolta amara e delusa delle speranze, di cui fa le spese quella nella pace.
Se non poniamo il problema di che cosa vogliamo fare della guerra, sarà la guerra a fare di noi ciò che essa vuole.
Anche se volessimo abbandonare la guerra, questa non abbandonerà noi, a meno che non ne saniamo in radice le cause che la producono.
Le filosofie storicistiche e ottimistiche della storia sono da molti decenni in grave affanno: anzi dopo le manifestazioni di idealismo che hanno accompagnato la nascita della Società delle Nazioni e poi dell'ONU, sembra prendere piede una sorta di rassegnazione di fronte alla guerra.
Nella storia dell'uomo s'incrociano azioni profondamente eterogenee: essa è un prodotto del rispetto dell'altro, della creatività, della giustizia verso il vicino e il lontano, ma è parimenti un esito della violenza, della sopraffazione del forte sul debole, dell'odio.
Una concezione personalistica si sforza quanto può perché il variabile equilibrio fra le due direttrici si sposti verso la prima.
Essa dice di no alla guerra per far arretrare le frontiere dell'ingiustizia e della sofferenza umana.
Fino a che punto? A questa domanda non vi è alcuna risposta pronta a priori.
Le risposte possono venire volta per volta dall'esito dell'azione intrapresa.
Il realismo storico e antropologico è lì ad ammonirci che - contro ogni forma di determinismo - le barbarie oggi superate potranno domani ricomparire, che nessuna conquista è perpetua e al sicuro da indietreggiamenti.
Non abbiamo garanzie assolute che la schiavitù, oggi largamente debellata, non possa domani ricomparire.
Come la storia non è in costante progresso vero il peggio, il che sarebbe una concezione terroristica e disfattistica, così non è in costante progresso verso il meglio, il che sarebbe una concezione irresponsabile e a buon mercato.
Ed è qui che deve intervenire la politica, cercando di intendere le cause delle guerre e di porvi rimedio.
Alcuni potrebbero sollevare la domanda che non saprei se chiamare della disperazione o dell'indifferenza: perché preoccuparsi tanto della guerra e della pace, se da decenni i morti per inedia, fame, pandemie sono stati assai più che i morti in guerra?
Ci preoccupiamo della guerra non solo perché, come osserva Kant, produce più persone malvagio di quante non ne tolga di mezzo,1 ma perché la guerra nella situazione presente del mondo è una possibilità tragica sempre aperta, che può tornare con un numero immenso di morti, con la sua tremenda crudeltà, con i suoi strascichi illimitati di odio, con la sua carica selvaggia, con la negazione dell'uomo e dell'umanità che le sono propri.
Mentre vi sono buone ricette per raggiungere, se lo si vuole, una cura della fame, molti sono incerti sul da farsi per mettere fine alla guerra: si ritiene che la lotta alla fame sia ardua ma alla nostra portata, mentre quella alla guerra velleitaria ed anzi impossibile, e forse si pensa che armarsi sino ai denti sia la strada migliore.
Il movimento di partenza non può che essere l'indignazione e lo scandalo per la violenza che fa strage, e un immenso sentimento di pietà e dolore.
« Come può la coscienza umana non rivoltarsi al ricordo di tutte queste violenze e di tutte le persone il cui volto attraverso il corso dei secoli è stato sfigurato dal ferro e dal fuoco?
È lo scandalo di questa violenza esercitata da uomini su altri uomini che mette in movimento il pensiero filosofico; è la certezza che questo male non-deve-essere, che provoca la riflessione.
Noi vogliamo sostenere che la rivolta del pensiero, davanti alla violenza che fa soffrire gli uomini, è l'atto fondatore della filosofia.
Noi vogliamo affermare che il rifiuto di ogni legittimazione di questa violenza fonda il principio di nonviolenza ».2
Massimo tra i problemi politici, quello della guerra e della pace angustia l'uomo sin dagli albori, ed è divenuto progressivamente sempre più impellente.
La straordinaria complessità del problema proviene da due sorgenti: la difficoltà a maneggiare concettualmente una questione dal numero pressoché illimitato di variabili; la possibilità che nel momento dell'azione la volontà esistenziale di scontro, espressa da forze effettualmente in vigore in un certo momento, prevalga su ogni altra considerazione.
Qui vogliamo interrogarci se il pensiero personalistico possa condurre all'abolizione della guerra, almeno a quella forma grande di guerra che è lo scontro tra Stati; e se tale pensiero, alleato con quello democratico, abbia elaborato nel corso del XX secolo un'adeguata prospettiva che consenta di fondare la democrazia e di avanzare verso l'abolizione della guerra.
La difficoltà del percorso sarà scandita in due capitoli.
Indice |
1 | Cfr. Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 2002, p. 76. |
2 | Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Pisa University Press, Pisa 2004, p. 22. |