Il principio Persona

Indice

Fondamenti personalisti della democrazia

Capitolo settimo

Il personalismo ha fornito notevoli elementi per quella definizione positiva della pace, di cui abbiamo riconosciuto la necessità, e si è opposto all'ambiguo fascino esercitato dalla lotta, al quale soggiacciono varie correnti della filosofia politica moderna.

Costituisce perciò un essenziale catalizzatore di una cultura di pace che include un apprezzamento per la democrazia, quale metodo non violento di convivenza politica in cui i contrasti di opinione e di interessi sono risolti in un libero dibattito secondo regole concordate.

Entrando nell'area della democrazia, il principio-persona esercita un notevole influsso ma non è da solo in grado di dar vita ad una compiuta concezione del governo democratico.

Per questo scopo deve contrarre alleanza con altri cespiti e temi, dando luogo ad alcune versioni di cui qui svolgiamo quella che appare meglio fondata.

1. L'ascesa della democrazia

Da un secolo non vi è forse tema così frequentato e perfino usurato come quello della democrazia e dei suoi fondamenti. Kelsen osservava: « Per seguire la moda politica, si pensa di dover usare la nozione di democrazia - di cui si è abusato più di ogni altra nozione politica - per tutti gli scopi possibili e in tutte le possibili occasioni, tanto che essa assume i significati più diversi, spesso fra di loro assai contrastanti ».1

Vi è una ragione persuasiva perché ciò sia accaduto: l'evento forse più decisivo del Novecento è stato l'ascesa della democrazia, un fenomeno considerato di maggiore portata rispetto alla sanguinosa realtà dei totalitarismi da un autore come A. Sen in La democrazia degli altri.2

In effetti i totalitarismi sono finiti, mentre la democrazia è in cammino, e forse stiamo procedendo oltre la sua terza ondata, avvenuta negli anni '70 e '80 del secolo scorso, verso una quarta.

Ciò rende sensato esplorare la crescente diffusione della democrazia per registrarne il cammino e anticiparne il domani: sarà quello che N. Bobbio prefigurava in un noto libro di oltre 20 anni fa ( Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco )?

O invece dovremmo riconsiderarne vari aspetti in rapporto ai molti mutamenti da allora intervenuti?

In questo processo appare indispensabile l'apporto della riflessione, tanto più che a dispetto della aumentata estensione della democrazia, la sua cultura appare da tempo in difficoltà nel raggiungere una sufficiente armonia fra persona e comunità.

Ormai superato il rischio di porre la collettività come fine ultimo, dottrina e prassi della democrazia non hanno per ora oltrepassato il rischio opposto che pone l'individuo isolato sopra tutto il resto: fra i pericoli della democrazia prossima futura si annovera quello di un'esplosione dell'individualismo che vanifichi ogni bene comune e mutua comprensione, in conseguenza della rottura dell'equilibrio fra basilari elementi di una società politica: mercato e amministrazione, solidarietà sociale, azione orientata ai valori, al dialogo e al mutamento responsabile di noi stessi come appartenenti ad una società.

Ciò implica che la democrazia non sia ridotta ad un insieme di regole procedurali ma includa cultura e forme di vita comune.

Riemerge il problema di scandagliare i fondamenti migliori per la democrazia, la cultura che meglio le consenta di fiorire, le origini storiche e ideali da cui dovrebbe tuttora trarre nutrimento.

Non cerchiamo in primo luogo un elenco delle principali definizioni della democrazia, quale ad esempio quello prodotto da Giovanni Sartori nel libro Democrazia e definizioni del 1957, che nonostante il rilievo esamina un poco in vitro il tema.

La democrazia non è un concetto puro, ma impuro nel senso che contrae e ha contratto alleanza con molte culture, alcune più, altre meno idonee alla formazione di un ethos democratico.

Impuro significa anche che non è possibile definire la democrazia in un vacuum indipendente dalla storia e dal contesto sociale, e che dunque riveste rilievo domandare sulle sue « radici ».

2. Fondamenti della democrazia

La ricerca dei fondamenti della democrazia si può condurre tanto su piano storico, valutando gli apporti dell'idea liberale, dell'illuminismo, del pensiero cristiano, del socialismo, quanto su piano concettuale, ricercando quali siano le giustificazioni migliori della democrazia: le due vie non sono opposte ed anzi in genere l'una sostiene l'altra.

Qui mi volgerò in specie alla seconda, cercando la miglior cultura che possa supportare la vita democratica, osservando che in prima battuta è bene parlare dei fondamenti razionali, morali, antropologici della democrazia senza ulteriori aggettivi.

Successivamente si potranno valutare le diverse origini e i vari influssi di matrice razionalistica, illuministica, religiosa, dove potrà accadere di rinvenire sorprendenti mutamenti di prospettiva e scambi delle maschere.

Si ponga mente all'idea di laicità che è di matrice cristiana per l'origine, sebbene da tempo abbia in parte mutato senso e sia considerata un assunto che non ha più nulla a che vedere col cristianesimo.

I principi del governo democratico fanno parte di quelli del buon governo politico, e lo qualificano ulteriormente.

Sono principi del governo democratico l'uguaglianza, il flusso dell'autorità dal basso verso l'alto, la non-discriminazione, la rappresentanza, mentre fanno parte del secondo il nesso stretto fra autorità e bene comune, il governo in vista del bene comune e non dell'interesse privato, la libertà, la giustizia, la regola della legge, l'esistenza di principi che non dipendano dalla mera volontà dello stato o del potere.

Esiterei a ravvisare nel pensiero contrattualistico una cultura di base della democrazia per la sua possibilità di essere giocato in modo ambivalente, poiché ad esso appartengono filosofie come quella hobbesiana che non possono considerarsi democratiche.

Del governo democratico fa parte un insieme di regole del gioco come quelle dell'alternanza al potere senza spargimento di sangue, il criterio di maggioranza, le elezioni libere e periodiche, la separazione fra i fondamentali poteri dello Stato.

In particolare il sentimento dell'uguaglianza umana - l'idea cioè dell'homo homini homo, contrario all'homo homini lupus da cui secondo Hobbes si esce solo col contratto socìale/pactum societatis - mi pare un retroterra di base della percezione democratica.

La democrazia è fondata assai più sul rispetto dell'uomo che sulla paura della morte violenta, e sull'assunto che occorra stabilire il diritto e la giustizia, ossia sulla prevalenza del paradigma della giustizia su quello della forza.

I riferimenti alla cultura di base della democrazia devono ora essere meglio articolati, enucleando i principi cui essa si raccorda:

a) entrando nel dominio della politica, il principio-persona rivendica per il soggetto il valore di fine e non di mero mezzo, la sua dignità, l'intrinseca socialità e il suo non ridursi ad oggetto del mondo.

Il soggetto umano è nel mondo, ma non è interamente del mondo, aspetto che evoca un postulato antinaturalistico.

Il governo democratico riposa sulla persona umana, sull'apertura all'altro, sulla sua trascendenza reale rispetto alla comunità politica: trascendenza qui significa che la persona, pur sempre inserita in comunità, non è mai soltanto parte di gruppi sociali da cui non possa emergere o in cui risulti dissella.

Questi assunti sono coerenti con un moderato ottimismo antropologico o, se si preferisce, con un moderato pessimismo, che considero un prerequisito di ogni autentica concezione politica.

In proposito si potrebbe citare una lunga serie di testi.

Limitiamoci a richiamare le posizioni di R. Niebuhr e di C. Schmitt.

Il primo rifiuta l'ottimismo antropologico moderno incapace di fare i conti col problema del male: « Sia l'uomo razionale sia quello naturale vengono concepiti come essenzialmente buoni, e l'unica cosa necessaria è ergersi sopra il caos della natura verso l'armonia della mente, oppure discendere dal caos dello spirito verso l'armonia della natura ».3

L'altro, sia pure forzando il tema attraverso una curvatura pessimistica del dogma del peccato originale come se questo rendesse impossibile un concetto universale di uomo, sostiene: « Tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l'uomo come " cattivo ", [ che ] cioè lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi " pericoloso " e dinamico.

Ciò è facile da provare per ogni pensatore politico in senso specifico.

Per quanto diversi possano essere questi pensatori per natura, importanza e significato storico, essi sono tutti d'accordo nella visione problematica della natura umana », che Schmitt assume a base antropologica della sua discussa idea del politico come scontro fra amico e nemico.4

Dall'idea dell'uomo come essere debole e inclinato al male, eppure capace di bene, deriva una fondamentale regola di ogni governo democratico o costituzionale, ossia la separazione del potere - il potere non controllato corrompe e il potere assoluto corrompe in modo assoluto - che trova applicazione nella divisione tripartita dei poteri costituzionali.

b) L'idea di popolo come unione ordinata di persone che cercano sotto la rule of law un bene comune politico e che sono legate da tradizioni, costumi e comunicazione reciproca.

L'idea di popolo così declinata risulta equivalente a quella di società politica.

Come scrivevamo altrove « il concetto di popolo costituisce la nozione-cardine della filosofia politica, in special modo di una filosofia politica personalistico-umanistica: esso è l'elemento dinamico della forma politica.

Il modo in cui è elaborato il suo concetto è un rivelatore molto sensibile della qualità e delle opzioni di ogni pensiero politico ».5

Il popolo composto di persone umane col loro inedito e peculiare volto è la sostanza e il soggetto della società politica e dello Stato prima di esserne l'oggetto.

La centralità del popolo trova realizzazione effettuale nella formula con cui Lincoin determinò il carattere del governo democratico: government ofthe people, by the people, for the people.

Naturalmente diventerebbe necessario stabilire in maniera comparativa i migliori resoconti della nozione di popolo.

Qui mi limiterò a segnalare che con la filosofia politica personalista non sono coerenti i concetti di popolo elaborati ad es. da Kelsen o da Schmitt, pur fra loro lontani, e neppure quello di Rousseau secondo il quale, affinché la volontà generale possa esprimersi, non deve esistere alcuna formazione sociale fra il singolo e lo Stato.

Questa idea darà origine alla soppressione di ogni società intermedia durante la Rivoluzione Francese ( legge Le Chapelier ), all'origine del centralismo che per due secoli ha inquinato vari Paesi europei.

c) L'idea di partecipazione alla cosa pubblica, ossia una democrazia discorsiva che in quanto governo di tutti, coinvolga tutti nel processo deliberativo: un assunto che accomuna il personalismo comunitario ( Maritain e Mounier ), la democrazia dialogica di Apel e Habermas, A. Sen e altri.

La democrazia partecipante pare un'ancora di salvezza, se non vogliamo che la democrazia diventi di fatto il governo di pochi, degli esperti e basta, e che la cooperazione di tutti al costituirsi del diritto e della giustizia appaia qualcosa di marginale.

Contro la partecipazione si drizza il paternalismo che governa coloro che hanno rinunciato alla libertà.

Tocqueville ha descritto il nuovo dispotismo da cui possono essere afflitti i popoli democratici: « Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri.

Ognuno di essi, tenendosi a parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri … al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte.

È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite.

Rassomiglierebbe all'autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell'infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi.

Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l'unico agente e regolatore … ».6

d) La preminenza dell'autorità sul potere, poiché solo l'autorità può andare d'accordo con la libertà responsabile, emarginando la forza arbitraria.

L'abbandono del concetto di autorità e la sua sostituzione con quello di potere provoca una crisi profonda del pensiero democratico: la rinuncia al primo non coincide affatto con la liberazione dal potere ma col suo rafforzamento.7

In democrazia l'autorità fluisce dal basso verso l'alto, aspetto di cui non si sottolinea mai abbastanza il rilievo fondante per il governo democratico, ma è nel contempo limitata da vincoli razionali e morali: la maggioranza al governo non può decidere qualsiasi cosa, poiché esistono azioni e regole che sono la negazione del diritto e della giustizia ed altre che richiamano un diritto e una giustizia immutabili nel loro fondamento e cui occorre ispirarsi: il diritto naturale, appunto, da cui deriva un certo modo di intendere il nesso fra morale e diritto positivo.

Pur mantenendo la loro distinzione, il criterio del diritto naturale impedisce di divaricarli oltre un certo limite, per cui le regole valide per tutti non possono che basarsi in ultima istanza su principi morali universali, contrariamente all'assunto della kelseniana dottrina pura del diritto, per la quale è valido ogni diritto positivo legalmente posto, qualsiasi sia il suo contenuto.8

e) La democrazia internazionale o cosmopolitica verso cui lentamente muove l'esperimento democratico, non nasce solo per contratto ma riconosce l'esistenza di una comunità internazionale in certo modo anteriore agli Stati, e criteri ultimi non soggetti o creati dal consenso, ossia principi dijus naturale e dijus gentium che devono sovrintendere all'ordine internazionale.

Questo, se non è inteso in senso meramente pattizio, può condizionare quello statale, secondo un'idea svolta nell'intervento di La Pira all'Assemblea Costituente italiana ( 11 marzo 1947 ).

Il pronunciamento lapiriano merita di essere ricordato per la critica esplicata contro Kant, Rousseau e in specie Hegel: « Penso a quanto dissero Hegel in ordine alla comunità internazionale e Kant e Rousseau prima di lui.

Per Kant e per Rousseau, non essendoci il corpo sociale, non c'è un diritto internazionale anteriormente a quello statale e condizionante il diritto statale … ».9

Nella posizione secondo cui la comunità internazionale preesiste agli accordi fra gli Stati riemerge l'idea che totus mundus est quasi una res publica ( De Vitoria ).

Nell'arena internazionale si innesta la possibilità, intravista da Kant ed altri, di pervenire alla pace perpetua, oltrepassando l'orizzonte dello Stato-nazione cui per molto tempo la democrazia è stata assimilata e limitata, per muovere verso contesti internazionali e planetari e l'edificazione di istituzioni sopranazionali.

« Da tempo ormai la popolazione mondiale è stata costretta a unificarsi come " comunità del rischio ".

Non appare dunque inverosimile l'aspettativa che, sotto questa pressione, la grande spinta astrattiva che ha già trasformato sul piano storico la coscienza locale e dinastica in una coscienza nazionale e democratica possa ulteriormente svilupparsi ».10

f) Nella cultura democratica occupa un posto notevole l'idea che, a partire dall'inferiorità della morale del gruppo rispetto a quella del singolo, sia possibile condurre l'etica di una società democratica verso una migliore morale di gruppo, ossia portare quest'ultima verso livelli simili a quelli di una valida etica personale.

Scrive R. Niebuhr: « Per le persone singole, essere morali può significare essere in grado di prendere in considerazione, ai fini della determinazione della propria linea di condotta, interessi diversi dai propri ed essere capaci - in certi casi - di anteporre ai propri interessi quelli degli altri …

L'inferiorità della morale dei gruppi rispetto a quella degli individui è dovuta in parte alla difficoltà di dar vita ad una forza sociale razionale abbastanza potente da potersi misurare con gli impulsi naturali su cui la società fonda la sua coesione; ma in parte non è altro che una dimostrazione dell'egoismo collettivo, un prodotto della combinazione degli impulsi egoistici degli individui, i quali giungono ad un'espressione molto più vivida e più potenziata quando sono cumulati che non quando si esprimono separatamente e privatamente ».11

g) L'idea di laicità.

Questa non è soltanto propria della democrazia ma di ogni buon governo politico, e proprio per questo non può essere assente dal governo democratico.

È ben noto che l'idea di laicità con la duplicità della rappresentanza al posto dell'unità ieropolitica della città antica, in cui si congiungeva in un solo vertice ( nell'imperatore che era anche pontefice ) la rappresentanza sacrale e quella civile, proviene dall'area del cristianesimo, anzi dal suo stesso fondatore: è un portato ultimamente cristico, non solo cristiano.

Fu così introdotta una tensione permanente fra Dio e Cesare, fra l'obbedire all'uno ( magari rappresentato dalla coscienza ) o all'altro, che è tuttora in atto e che non terminerà tanto presto.

Diventa essenziale che tale dialettica permanga nella sua potenziale fecondità, evitando l'assorbimento di un termine nell'altro: la religione intesa come semplice strumento della politica o viceversa la politica sottoposta ad una teocrazia.

Argomentare a favore della laicità implica il distinguerla dal laicismo quale programmatica esclusione della religione dalla società e come dichiarazione almeno metodologicamente atea di procedere etsi Deus non daretur: un evento quasi soltanto occidentale e tale da apparire nel contesto planetario come un'anomalia da sanare.12

L'interpretazione laicista che nel logion « Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio » ( Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,25 ) evidenzia solo il riferimento a Cesare, non sembra funzionare, poiché la frase dice non solo che occorre marcare i confini fra Dio e Cesare, ma che occorre rendere o dare.

Il risuonare di tale verbo cambia la prospettiva della semplice separatezza fra Dio e Cesare.

Il dare a Cesare quanto è necessario: giustizia, pace, diritti, rispetto, è qualcosa di grande.

Ma Cesare non è Dio.

Cesare può essere patria temporale, ma non è patria definitiva per alcun uomo.

Il dare a Cesare implica, perché sia autentico e pieno, il dare a Dio quanto è necessario e salutare.

Dare solo a Cesare senza dare a Dio è l'inizio della rovina.

L'equivoco laicistico consiste nel dare a Cesare senza voler dare a Dio.

Il versetto evangelico domanda un doppio dare, e l'uno non può stare senza l'altro.

Che cosa significa dare a Dio?

Varie cose, fra cui la possibilità d'influenza della religione nella sfera pubblica, diversamente dal postulato liberale canonico secondo cui la fede è un mero fatto privato.

La religione merita forse rispetto a patto che si rintani nell'ultimo angolino che il pensiero laicista le assegna: la coscienza individuale.

A questo assioma si è aggiunto per lunghe epoche un desiderio, che sotto i paludamenti delle scienze sociali esprimeva un progetto, quello dell'irrilevanza della religione: a più modernità corrisponde meno religione e più secolarizzazione, si è detto e ripetuto.

La libertà della religione diventava libertà dalla religione.

Un assunto che è parso vero per un certo tempo ed oggi non lo è più, poiché le religioni mondiali sono in ripresa ( « la rivincita di Dio », dice G. Kepel ).

Ci si è poi accorti che esisteva un notevole problema, ossia che lo Stato laico riposa su fondamenti che non può garantire, e che possono essere garantiti solo se nella società civile circola una robusta linfa etica e una cultura intellettuale di rispetto, giustizia, libertà che lo Stato da solo non può assicurare.

Occorre dunque andare alla ricerca del migliore modello di laicità.

Forse sarebbe quello europeo o addirittura quello francese?

Tocqueville aveva intuito il problema e colto la soluzione.

Essa dice che in America, entro la separazione fra Stato e Chiesa, la religione è fondamento indipendente della politica e che essa « contribuisce potentemente alla conservazione della repubblica democratica negli Stati Uniti ».

La religione non come elemento della politica, ma come ispirazione necessaria di ogni passabile vita democratica: in tal modo la religione non diviene instrumentum regni, ma seminarium reipublicae, forza di vivificazione e d'ispirazione.

I nuovi termini del problema della laicità segnalano l'insufficienza della pur importante distinzione fra ultimo e penultimo.

A lungo si è detto: lasciamo alla sfera intima della coscienza, alle libere scelte individuali le questioni ultime, neutralizziamole nell'arena pubblica e concentriamoci sui problemi penultimi dove sarà più agevole trovare un accordo.

Ora ci si accorge che questa posizione non regge, che l'indifferenziato richiamo alla tolleranza come medicina sempre e comunque valida rischia di essere vano, perché i problemi con cui dobbiamo confrontarci richiedono una determinazione che vada oltre il procedurale.

La scomoda realtà è che entro il penultimo nascono problemi che interessano in pieno l'etica, l'antropologia, il diritto pubblico.

E se interessano il diritto pubblico, è perché questo si trova dinanzi a problemi di principio dove la sola tolleranza teoretica ( fatta salva quella pratica ) e la pura mediazione politica non sono sufficienti, essendo le questioni di principio senza punto medio.

Diversamente dagli interessi che hanno un prezzo e ammettono perciò un punto medio, i principi possiedono una dignità e non si prestano alla mediazione.

Tutto ciò si scarica con violenza sul diritto, dove si rischia di far prevalere le ragioni dei forti su quelle dell'altro debole e inapparente.

Lo Stato laico non può garantire i propri fondamenti.

Quando Locke scriveva sui diritti umani aveva un'intuizione nitida di questo e altrettanto Maritain nel XX secolo.

Non invece oggi il laicismo, che da un lato si lamenta con buoni motivi che la faccenda dei diritti sia un supermercato dove ciascuno reclama a ragione o a torto il suo, e dall'altro si limita a richiamare l'autonomia kantiana consistente nel rispettare le leggi che liberamente ci si è dati: ma quale legge fondamentale possiamo darci se non quella che è inscritta in noi?

Che la legge civile debba essere intesa soltanto come l'espressione di un accordo fra i cittadini non è soluzione sufficiente, poiché la maggioranza volta a volta egemone può decidere qualsiasi ignominia, se non esistono criteri che antecedono il diritto positivo.

La soluzione dell'autonomia kantiana, espressione di un cristianesimo laicizzato, poteva funzionare al suo tempo in cui il codice morale accettato era quasi identico a quello dell'etica cristiana e ritenuto universale ( vedi Voltaire e in genere l'illuminismo ).

Ma oggi, quando l'universo etico si è sbriciolato in un pluri-verso morale dove ciascuno legifera per se stesso?

Quando esistono solo individui solitari, pronti a pensarsi come assoluti?

3. Does democracy need religion?

Varie difficoltà della democrazia occidentale attuale provengono dalla necessità di ricostituire il fondamento etico ed antropologico delle società contemporanee dinanzi all'affermarsi di una civiltà impersonale tentata dal nichilismo.

Si tratta di rispondere alla domanda che molti nel passato hanno elevato e fra questi R. Niebuhr: « Does democracy need religion? »

O anche: « does civilizatìon need religion? »

Autori non poco diversi quali Dawson, Huntington, Maritain hanno osservato che le grandi religioni sono le basi su cui riposano le grandi civiltà: se lo Stato è laico, e la società civile no, è perché esiste una matrice teologica della società civile.

Non dobbiamo concedere troppo facilmente che la democrazia se la possa cavare eliminando ogni contatto con la religione, fidando sull'assunto che il procedere della secolarizzazione sia inarrestabile.

Con soffusa ironia Tocqueville aveva scritto intorno al 1835: « I filosofi del secolo XVIII spiegavano in un modo molto semplice il graduale affievolirsi della fede.

Lo zelo religioso, essi dicevano, deve estinguersi via via che la libertà e la cultura aumentano.

Ma è spiacevole che i fatti non vadano d'accordo con questa teoria ».13

Quanto al rapporto fra democrazia e cristianesimo, non sosterrò che vi sia un nesso intrinseco fra i due per l'eterogeneità fra politica e religione, ma che

a) si da notevole affinità fra l'antropologia personalistica coerente col cristianesimo e la democrazia;

b) il linguaggio cristiano custodisce ed esprime ragioni che il discorso pubblico democratico non può ignorare, nel senso che la ragione secolare dovrebbe essere disponibile ad ascoltare quanto promana dalla semantica biblica di liberazione.14

La cosa sarà tanto più possibile quanto più si percepirà la forza di universalizzazione del messaggio religioso e il suo nesso con gli ideali moderni di universalismo etico, giuridico, politico, di unità della famiglia umana.

Un'obiezione frequente all'idea di un'ispirazione religiosa della democrazia è che le leggi devono possedere validità erga omnes e non possono valere per tutti sulla base di ragioni religiose cogenti solo per una parte della cittadinanza.

Se tu non vuoi, perché devi impedire che io possa?

Questo sembra il criterio dell'etica pubblica, fondamentalmente libertaria, che cerca di imporsi attualmente in Europa, ed in cui il tema dell'altro e del suo rispetto possono andare in ombra.

Si pensa che la soggettività personale abbia diritto a tutto, e che inique siano le norme pubbliche entro cui occorre inquadrarla.

Il punto centrale è presto enucleato e domanda se le norme fondamentali dell'etica pubblica possano essere assoggettate al criterio relativistico, ossia se tale criterio sia posto come supremo, oppure se, andando a sufficiente profondità, esistano alcune basi ferme dell'etica pubblica che provengano dal diritto naturale, dai diritti che trovino espressione nel dettato costituzionale.

L'argomento che vorrebbe emarginare come meramente confessionali varie posizioni, appare in genere specioso perché, almeno in Occidente, i contenuti della legge civile avanzati da cittadini che si riconoscono in una base religiosa, non sono motivati religiosamente ma razionalmente ed eticamente.

Se ci si interroga sulla questione dell'embrione, la difesa della sua appartenenza al genere umano, il suo essere « qualcuno » e non « qualcosa » e di conseguenza il suo essere titolare di diritti, non sono un tic del club cristiano o cattolico, come si da a credere dando prova di rozzezza, ma l'esito di un argomento motivato, controllabile e razionale.

I fondamenti laici e religiosi della democrazia sono in certo modo inclusi nel dialogo fra ragione e fede, e nella purificazione che esse si apportano reciprocamente e che operano anche verso la democrazia.

La ragione quale partecipazione finita ma reale del Logos è chiamata ad esercitare un controllo purificante delle deviazioni e delle patologie, che secondo i tempi possono assediare la coscienza religiosa e renderla succube di allucinazioni e di tentazioni impure.

Reciprocamente la ragione, che facilmente cede alla hybris e alla volontà di potenza, è purificata dalla fede, se non nega di poter apprendere da essa i modi con cui frenare la sua tendenza a diventare distruttiva.

Un tale rapporto fra razionalità secolare e razionalità di fede si palesa come fondamentale per l'avvenire della democrazia per vari motivi, fra cui il fatto che esse oggi incidono sulla situazione mondiale in modo più intenso di qualsiasi altra espressione spirituale nel mondo.

La loro cooperazione può favorire un processo di purificazione e di dialogo universali, facendo emergere ciò che è comune, ossia valori e norme stanno alla base del convivere umano lo tengono coeso.

4. Personalismo, individualismo e rapporto tra le generazioni

La giustificazione della democrazia qui schizzata è di tipo personalistico e sostanziale, nel senso che la persona e le società fondamentali ad essa connesse sono principio, fondamento e fine dell'intero sistema democratico.

La frequente giustificazione della democrazia solo come insieme di regole e procedure si lega ad una ragione « neokantiana », certo universale ma solo sul piano formale e pertanto vuota di contenuti etici ed antropologici.

Questo diffuso assunto appare oggi più ancora del passato qualcosa di troppo vago.

Fra tutte le questioni che assillano la democrazia la più centrale è nuovamente quella antropologica, il che significa che occorre ripartire dalla persona e dal suo naturale e multiplo sistema di relazioni.

Poiché la società altro non è che la parola « uomo » scritta in grande, la questione sulla democrazia implica la questione sull'uomo.

Quanto agli esempi non occorre scomodare i classici, dove la connessione è espressamente tematizzata.

Basti porre mente alle teorie politiche a base biologica, psicologica, psicoanalitica; ai tentativi di impiegare i metodi causali delle scienze naturali alla vita politica, il che presuppone una risoluzione naturalistica dell'uomo; a Freud che, nell'avvenire l'influenza dell'antropologia, possedeva un intuito più sicuro del contrattualismo e che tentò con la teoria della libido e dell'inconscio di risolvere la psicologia delle masse negli elementi individual-psichici.

Il personalismo non ha molto a che fare con l'individualismo.

Quest'ultimo si appoggia fortemente sul dogma liberale secondo cui le azioni e decisioni di adulti consenzienti, specie nell'area della vita sessuale e del matrimonio, riguardano solo loro, sebbene esista una notevole evidenza empirica degli effetti a catena su altri di tali comportamenti.

Ciò comporta inoltre l'atteggiamento di una competizione dividente e il conflitto fra generazioni per l'accaparramento delle risorse piuttosto che l'atteggiamento della solidarietà intergenerazionale.

È ancora rara la consapevolezza che l'aprire sempre nuove libertà e opportunità agli adulti rischia di penalizzare in maniera pesante le future generazioni.

Ora l'individualismo tende a segare i legami fra le generazioni, e qualcosa di simile osservava Tocqueville: « Fra i popoli democratici … il tessuto del tempo è strappato ad ogni momento e la traccia delle generazioni è cancellata.

Quelli che sono esistititi prima sono facilmente dimenticati e nessuno dedica un pensiero a quelli che seguiranno ».

Quasi assente nelle prospettive che fanno centro sull'individuo è la famiglia, che pur rimane scuola indispensabile di umanizzazione e socializzazione, mentre notevole è la sottovalutazione della crisi delle norme etico-sociali su cui ultimamente riposano le società e gli Stati.

L'idea di democrazia di Habermas, proiettata del resto a buon diritto verso l'universale e il cosmopolitico, sembra fondata solo sul dialogo e comunicazione di soggetti individuali, che non hanno riferimento ai loro gruppi, reti e comunità di appartenenza.

Altre impostazioni si imperniano sulla triade « individuo-mercato-stato » e marginalizzano la famiglia e le formazioni sociali intermedie della società civile.

In genere nelle scienze sociali e nelle politiche sociali ciò produce un'enfasi fuori misura dell'autosufficienza del soggetto e una svalutazione della dipendenza reciproca reale in cui i soggetti umani si trovano, in specie nelle fasi iniziali e finali della vita.

L'icona dell'individuo libero, capace di piena autodeterminazione e autosufficienza esercita un'alta attrazione sull'immaginazione individuale e sociale che tende a relegare ai margini ogni considerazione che metta in luce la condizione umana di dipendenza: tuttavia gli esseri umani sono e rimangono fortemente dipendenti l'uno dall'altro, e una parte delle loro virtù si sviluppa nella consapevolezza di ciò e della necessità di cooperare, di prendersi cura dell'altro, di partecipare allo scambio sociale del dare e del ricevere.

In alcune visioni del Welfare State questo limite si somma a quello di non stimare a sufficienza la capacità del soggetto di agire in base a valori e di non essere guidato solo dal calcolo del selfinterest.

Reputo perciò più appropriato parlare di personalismo invece che di individualismo; ma se proprio si rimane al vecchio uso del secondo termine, occorre vedere l'individuo non come una totalità in sé compiuta, ma come un soggetto relazionale pronto a entrare in comunicazione e in cooperazione con l'altro.

Secondo Bobbio « la dottrina democratica riposa su una concezione individualistica della società »,15 il che - se ben interpreto - vuoi dire che solo i soggetti individuali esistono e che la società non è una realtà sostanziale ma una relazione d'ordine; un'idea volta contro ogni assunto distico e organicistico.

Comunque anche Bobbio parla di individualismo là dove sarebbe più appropriato parlare di personalismo, poiché lui stesso scrive che « i rapporti dell'individuo con la società vengono visti da liberalismo e democrazia in modo diverso » ( p. XII ).

Non è inutile osservare che l'artificio del velo di ignoranza introdotto dal contrattualismo liberale di Rawls significa che l'individuo non fa parte in alcun modo di gruppi e comunità, ma è separato e deve essere separato da tutto ciò.

Nella sua forma radicale l'individualismo rappresenta un principio rischioso per la democrazia, poiché abbandonando le nozioni di persona relazionale e di popolo, ruota attorno alla propensione autocentrata dell'io.

Una debolezza della cultura democratica in Occidente consiste nell'essere spesso pilotata da teorici liberali puri che puntano sull'individuo, i suoi diritti, e sull'idea di contratto quale fatto artificiale su cui costruire regole e socialità.

Ciò comporta che la versione liberale attuale della democrazia abbia come scopo ultimo quasi solo la libertà, retoricamente intesa come una forza illimitata e autosalvifica, l'unica capace da sola di generare progresso, pace, buona società.

Questa concezione assolutizzata ed antropologicamente dubbia erompe nelle recenti posizioni dei neoconservatori americani, per i quali la vera ed unica forza vitale e creativa della storia è costituita dalla libertà.

Nella dimensione politico-sociale l'essere umano, che possiede il proprio statuto di persona solo come una radice da far fruttificare e che è per ciò stesso soggetto a serie sconfitte, cerca una liberazione dalle grandi servitù che lo minacciano ( malattia, miseria, ignoranza, tirannia ) ed un compimento del proprio io comunicativo e relazionale.

Ne completamente risolto nei rapporti sociali ( Marx ), ne un tutto in sé perfetto, chiuso e pienamente costituito prima del rapporto sociale ( Rousseau ), la persona è dal personalismo comunitario intesa come una realtà aperta al vero e al bene, come un centro di attività e di libertà.

L'uomo vive socialmente non soltanto per soddisfare bisogni, perseguire interessi o per l'utilità della divisione del lavoro, ma anche per comunicare perfezioni, « dire » se stesso all'altro, obiettivare la propria essenza in creazioni oggettive.

La persona è inserita in uno schema di socialità, che potremmo definire a cerchi concentrici oppure a « cono rovesciato », nella partecipazione a comunità sia naturali sia volontarie.

5. Scuole democratiche e paradigmi di giustificazione

I fondamenti della democrazia enucleati trovano variabile accoglienza nelle dottrine democratiche a base morale, antropologica, epistemologica, di cui lo storico delle idee traccia il profilo, e su cui ora ci soffermiamo brevemente, riassumendo un tema molto vasto.

Il nostro scopo è di cercare la filosofia più solida, capace ad un tempo di giustificare la democrazia e di organare la dottrina democratica.

Cercando una teoria « materiale » e non solo procedurale, ci collochiamo in una prospettiva in cui forma e contenuto non siano scissi e posti in contrapposizione.

Giustificare la democrazia significa ricondurla a principi: occorre prendere sul serio l'assunto, tentando di superare un deficit di fondazione, che circola nelle teorie politiche che pensano essere la democrazia sufficientemente garantita da tradizioni storielle.

Nel XX secolo la teoria della democrazia è stata un crocevia estremamente frequentato.

È possibile riassumere in sei indirizzi le principali posizioni emerse, sebbene esse non rivestano oggi uguale incidenza pratica.

Ai fini dello svolgimento del discorso, che verte sul momento della giustificazione, l'elenco cita brevemente pure le posizioni filosofiche normalmente accolte all'interno dei suddetti indirizzi:

1) le teorie elitistiche elaborate dalla scienza politica wertfrei ( Mosca, Parete, Schumpeter ), per cui la democrazia è da intendersi come governo di minoranze in competizione per il potere; democrazia governata perciò più che governante, in cui continua a valere la logica ferrea delle oligarchie, ossia il fatto che il potere reale risieda in minoranze dirigenti, periodicamente accettate o rifiutate mediante legittimazione da voto popolare;

2) la teoria marxista-leninista, in cui la critica dell'economia e della politica condurrebbe alla fine dello sfruttamento e all'estinzione dello Stato quale strumento di dominio della classe economicamente egemone; il punto di arrivo dovrebbe essere ciò che il giovane Marx chiamava la vera democrazia egualitaria.

Essa rappresenta la scomparsa del politico ( diritto e Stato ) e, secondo la nota posizione engelsiana, la sostituzione del governo degli uomini con l'amministrazione delle cose in una comunità totalmente autonoma e autoregolantesi: democrazia impolitica perciò che si realizza solo in una società senza classi.

Filosoficamente la dottrina democratica marxista è soprattutto una teoria dell'emancipazione umana, giocata a livello economico-produttivo e interpretata dal materialismo storico-dialettico;

3) le teorie democratiche a base epistemologica, che sottolineano il legame fra dottrina della conoscenza, dottrina della scienza e teoria democratica ( Kelsen, Popper ).

Esse assumono che la miglior giustificazione della democrazia riposi sul relativismo filosofico ( Kelsen ), oppure su un'epistemologia fallibilista accompagnata da fede morale nell'uomo ( Popper ): escludono perciò la razionalità ontologica, adottano in genere una posizione non-cognitivista, rigettano il diritto naturale.

Tali teorie richiamano l'attenzione sull'importanza delle « regole del gioco », cioè sull'aspetto procedurale della democrazia, in modo più o meno forte a seconda del grado di non-cognitivismo e di separazione tra forma e contenuto assunti.

Ma debbono comunque uscire dall'epistemologia, poiché questa non può generare ethos da sola: dai dibattiti scientifici emergono nuove conoscenze, non nuova coscienza morale.

4) le teorie centrate sul discorso o prassi comunicativa ( Arendt ) oppure sul consenso comunicativo ( Apel, Habermas ).

La prima posizione guarda all'esperienza storica della polis antica e in questo trova alcuni elementi di somiglianza col pensiero di L. Strauss.

La seconda critica il decisionismo positivistico sui fini, conseguente alla divisione is-ought, e cerca per la democrazia una morale politica universale, individuata in un'etica comunicativa e della responsabilità deliberativa, assumendo una posizione cognitivista in base al metodo della comunità trascendentale dell'argomentazione.

Mira inoltre a definire discorsivamente i fini della convivenza in un'autoriflessione critica della società su se stessa, in un mix tra etica della responsabilità ed etica della convinzione, mirato al proseguimento dell'ideale illuministico di emancipazione e di quello kantiano di autonomia proiettati su scala planetaria;

5) le teorie personalistico - comunitarie considerano la democrazia il regime politico più consono ai valori della persona, di cui in genere svolgono una dottrina sufficientemente elaborata ( Capograssi, Maritain, Mounier, Sturzo, La Pira ).

Esse sottolineano la base morale della democrazia, il suo fondarsi su una cultura non scettica né relativistica.

Rinviano a una razionalità ontologica, al cognitivismo etico e ad una morale universale del bene umano; sul piano pratico a istituzioni che, nell' ossequio alla formula democratica di Lincoin, realizzino il bene comune mediante l'autogoverno del popolo sotto la mie of law, entro un movimento mirato a coniugare libertà e giustizia, globalizzazione e radicamento nelle comunità originarie.

Considerano l'autorità giustificata solo dalla ricerca del bene comune, di cui danno ormai un resoconto planetario e chiedono l'istituzione di poteri pubblici sovranazionali e infine mondiali.

Adottano la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo come un ideale morale adeguato, espressione dell'intuizione originaria sulla persona di cui si nutrono;

6) le teorie politiche derivanti dall'approccio contrattualistico o utilitaristico svolto in ambiente anglosassone.

Più che di compiute teorie della democrazia si deve in tal caso parlare di diramazioni da indagini sui diritti, la giustizia, l'uguaglianza ( Nozick, Dworkin, Rawls, Harsanyi ).

Spesso forte è la tendenza a rielaborare la posizione del contrattualismo moderno come canone razionale in rapporto alle nuove situazioni politiche del XX secolo.

Ciascun indirizzo incorpora un certo modo di interpretare e giustificare la democrazia.

Se si riporta all'osso il loro procedimento argomentativo, operando una ricerca sulla loro struttura concettuale, le principali giustificazioni della democrazia ( ad eccezione forse del marxismo ) possono essere ricondotte a tre distinti paradigmi, in alcuni casi impiegati congiuntamente, nel senso ad esempio che il secondo e il terzo si integrano agevolmente ed essi possono senza serie difficoltà legarsi anche al primo, quando questo non sia giocato solo in senso noncognitivistico:

- giustificazioni in base ad un paradigma gnoseologico: cognitivismo/non-cognitivismo; relativismo; ricorso alla scienza;

- giustificazioni in base al nesso tra etica e politica, e più generalmente tra verità e politica;

- giustificazioni in base alla dottrina della persona, ai suoi diritti naturali, alla sua libertà e capacità comunicativa.16

Vari caratteri accomunano le suddette concezioni: la democrazia è alimentata da valori morali, dal rispetto della persona e dei suoi diritti, si collega spontaneamente ad una società libera, non dominata da un'oligarchia chiusa, nella quale vige un governo rappresentativo costituzionale, ed in cui lo Stato è al servizio della società politica.

Estese sono le convergenze sul metodo democratico e sulle regole del gioco, che circoscrivono un' « area minima dell'universale », senza di cui non ci può essere né società né democrazia, sebbene esse non possano stabilire il contenuto « materiale » del bene comune.

Nel complesso non è poco, ma non è neppure molto perché l'accordo non raggiunge il livello dei principi, dove perlo più divergono le posizioni filosofiche e antropologiche.17

Le impostazioni analizzate rendono impervio il discorso della « democrazia totalitaria », quell'insieme del tutto ibrido di concetti per cui Mussolini parlava del fascismo come « compiuta democrazia » e Stalin del comunismo come « democrazia popolare » e che poteva reclamare qualche radice nell'idea della volontà generale.

Notevole è anche la presa di distanza dal retaggio utilitaristico benthamiano, ostile ai diritti naturali della persona, e insieme affascinato dal costruttivismo e dal quantitativismo felicifico.

In sostanza si disegna negli esponenti più titolati della teoria democratica del XX secolo un allontanamento dalla filosofia sociale che raggiunse l'apogeo a cavallo tra XVIII e XIX secolo, secolo e che in termini generali viene definita razionalistica e utilitaristica, riconoscendosi che ne il razionalismo rousseauiano né quello utilitaristico rappresentano una teoria soddisfacente del corpo politico e della democrazia.

In rapporto alla teoria settecentesca si è raggiunta nel '900 una maggiore chiarezza sugli istituti della democrazia.

Il suo asse di sviluppo sta nell'avvicinarsi sempre meglio a una democrazia come umanesimo politico, basato sulla persona e su un credo umano comune lontano dallo scetticismo.

Tra i filosofi che sottoscriverebbero queste condizioni indichiamo: Bergson, Capograssi, La Pira, Maritain, Mounier, Olivetti, Simon, Sturzo, ed in buona misura anche Benda.

Supposto che il compito prioritario sia conferire legittimazione alla democrazia, questi autori sono in grado di adempiere il programma.

All'estremo opposto sembra collocarsi Kelsen, favorevole ad una democrazia dell'individuo, ad una razionalità debole, formale e relativistica, al non-cognitivismo etico ed alla estraneità tra democrazia e cristianesimo.

Egli è sostenitore di una teoria « fredda » e procedurale della democrazia.

Bobbio, Popper ed in certo modo Apel, Habermas e Schumpeter si situano a metà strada: non assegnano particolare rilievo al nesso cristianesimo-democrazia, sostengono una teoria ridotta della razionalità, talvolta anche il non-cognitivismo etico, ma non l'idea che la filosofia idonea alla democrazia sia il relativismo, né il distacco tra etica e politica.

6. Quale cultura favorisce meglio la democrazia?

1) Come già osservato, la democrazia non richiede necessariamente una visione antropologica ottimistica, sebbene nella vicenda della cultura politica sia stata più vicina a questa che al pessimismo.

Ne fanno fede l'idea dell'individuo e della sua bontà naturale del razionalismo e dell'illuminismo settecentesco, nonché l'elaborazione romantica dell'idea di popolo e di Volksgeist quale riserva inesauribile di virtù e di saggezza.

In tempi a noi più vicini si è invece venuto evidenziando un nesso tra democrazia e moderato pessimismo antropologico, in relazione ad una più generale curvatura dell'epoca, favorita anche dall'esplorazione dell'inconscio e della psicologia del profondo, che presenta l'uomo come un essere assai dinamico nel bene e nel male, abitato da istinti potenti.

E d'altronde difendibile l'opinione che la democrazia sconti un certo pessimismo sull'uomo.

Lo mostra la conquista stessa del suffragio universale, tra le cui ragioni c'è l'esperienza ininterrotta e universale che il governo elitistico o aristocratico non si cura del popolo che in misura assai ridotta.

« L'argomento decisivo in favore del suffragio universale, cioè il bisogno di distribuzione del potere a coloro che non fruiscono di nessuna altra distinzione, a parte il fatto di avere i numeri dalla loro parte, è strettamente imparentata con il pessimismo.

L'esperienza mostra che l'azione delle élite non è rassicurante per coloro che di fatto non sono inclusi in alcuna élite riconosciuta ».18

2) Nella ricerca sulle migliori culture per la democrazia spesso si sente tessere l'elogio di una cultura a base empiristica e sociologica.

Si tratta di un assunto che, sostenuto da autori di rilievo per i quali l'opzione per l'empirismo è irrinunciabile, veicola verità e ambiguità.

Naturalmente sono lontano dal negare il valore di una sana cultura a base empirica, soprattutto se la paragono con la vocazione antidemocratica dello Stato etico del neohegelismo ( G. Gentile ) o di varie filosofie dell'idealismo che si nutrono di una malcelata adesione alla violenza e allo scontro fra gli Stati.

Tuttavia l'adesione ad un empirismo chiuso e alquanto dogmatico come quello di un Neurath o magari anche di un Russell non sembra una risposta adeguata.

In una situazione migliore si trovano le culture prodemocratiche di un Bobbio e di un Popper, che pur tessendone l'elogio, si difendono da un empirismo assolutizzato in base ad un'opzione etica che finisce per limitare di molto la tesi, tipica ad es. in Kelsen, che lo spirito scientifico, empiristico e pragmatico sia il migliore per la democrazia.

Rimane il rischio che la mentalità empiristica pura, in quanto considera irrazionale tutto ciò che esula dall'esperienza empirica, non sia in grado di opporre sufficiente resistenza alla volontà di potenza che oggi può esplodere entro un uso estremo della tecnologia.

Non meglio vanno le cose con il relativismo cui si attribuiscono virtù che non ha e del quale si nascondono difetti seri.

Secondo l'enciclica Centesimus Annus « Un'autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana …

Oggi si tende ad affermare che l'agnosticismo e il relativismo scettico sono la filosofia e l'atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti sono convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici.

A questo proposito bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere.

Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia » ( n. 46 ).

Una fondata fiducia nella verità si allontana tanto dal relativismo quanto dal fondamentalismo, sebbene oggi lo scontro fra i due fratelli nemici sembra opporli senza mediazione.

In effetti si ritiene che solo volgendo verso il relativismo sia possibile sconfiggere il duro volto del fondamentalismo.

Vedremo più avanti che esiste un'altra strada di gran lunga migliore.

3) Un notevole problema, di solito alquanto trascurato, consiste nell'individuare le tradizioni meglio capaci di persuadere, educare e favorire il passaggio all'azione, un tema nuovamente cruciale nelle società atomizzate, poco capaci di creare un solido legame fra i cittadini.

Éarduo vivere insieme solo sulla base delle libere scelte individuali.

Acuta è la domanda se lo Stato costituzionale e democratico sia da solo in grado di gestire e rinnovare le proprie basi di valore e ancor più di offrire ai cittadini sufficienti motivazioni all'agire: E. W. Bockenforde ha ricordato che lo Stato laico riposa su fondamenti che non può garantire.

Se è possibile, come ritengo, una fondazione razionale autonoma ( ossia indipendente dalla religione ) dell'etica, che non è comunque un gioco da ragazzi, considero ben più difficile per non dire impossibile motivare il volere all'azione civicamente buona e giusta senza l'appoggio delle grandi tradizioni educative.

Tutto ciò richiede quell'educazione del volere, una sorta di pedagogia nazionale, che appare drammaticamente assente in quasi tutto il pensiero politico e la prassi politica contemporanee, forse in specie liberali, compreso il repubblicanesimo attuale di stampo kantiano.

Qui il richiamo alle culture religiose opera non solo come capace di legittimare ma anche di motivare.

7. La tentazione del fondamentalismo

A) Domandiamo: che cos'è il fondamentalismo?

Senza trascurare i rischi della coscienza illusa o i morbosi travestimenti del ressentiment e dei complessi di inferiorità e di delusione che sboccano in terribili reazioni, in esso vedo un duplice atteggiamento intellettuale e volitivo consistente nell'assolutizzare la propria parziale verità - talvolta fondata ma appunto limitata, talaltra invece si tratta di mera opinione cui volontà e passione attribuiscono un valore assoluto - intendendola come la verità unica, assoluta e definitiva, e nel tendere a imperla ad altri in maniera intollerante e perfino violenta.

L'aggettivo in corsivo intende dire che nel fondamentalismo entrano in gioco tanto le convinzioni della mente quanto, e con quale forza!, gli orientamenti del volere e le passioni, per cui sarebbe una grave semplificazione limitarsi all'ambito cognitivo e curare il fondamentalismo col relativismo.

Si dice infatti: relativizziamo il vero, il bene e il bello per far fronte alla violenza, maneggiare la diversità e disinnescare il conflitto.

Il richiamo al relativismo riceve oggi molti applausi, in specie se considerato l'anticamera della tolleranza.

Questa è qualcosa di valido, purché si sappia da che parte prendere l'uomo.

Ora gli uomini vanno a verità tanto quanto i termosifoni a metano, ed hanno perciò bisogno di verità per esistere.

Consisterebbe in questo il massimo pericolo, per cui chi crede in verità ferme sarebbe un killer virtuale?

Tuttavia non si uccide in nome della verità, ma in forza dell'odio dell'altro.

Non la verità è violenta ma l'odio.

Ricondurre la violenza all'uso fondamentalista della verità è una semplificazione che equivoca in merito a uno dei più grandi enigmi dell'avventura umana, quello dell'oscura origine della violenza in noi.

Siamo intrisi di violenza ben più che di verità.

Riterrei perciò che non si dia un legame necessario fra tolleranza e relativismo.

Nel relativista teoretico e nel nichilista che impiegano la ragione per procedere in giudizio contro ogni valore, è nascosta una segreta violenza, una violenza « ermeneutica ».

Essi pensano la ragione come uno strumento di decostruzione e di distruzione, alla fine anche di se stessa.

L'analisi dissolvente è l'esito di una ragione solo critica, che gira a vuoto e si decentra dalla realtà.

Il nichilista è come Kirillov che non ride mai, che non è ironico, mentre la verità lo è.

E i terroristi fanatici di I Demoni hanno le loro radici in Nicolaj Stavroghin, depravato e lucidissimo, ma soprattutto scettico e incapace di amore o almeno di rispetto.

Il fondamentalismo è di due colori: religioso e laicistico.

Il primo tende a fare della propria religione un assoluto e quindi a totalizzare tutta la verità in essa: non dunque la verità religiosa come una verità alta e universale ma come la verità unica e totale ( si ponga attenzione alla differenza fra universale e totale ), e conseguentemente tende ad imporla anche con la forza.

Il fondamentalismo laicistico tende a considerare i valori che si richiamano ad una fede o rivelazione religiosa, come una favola o peggio una superstizione del passato, da cui occorre liberarsi a ogni costo.

Per cui tale fondamentalismo è secolaristico, ostile ad ogni religione e a favore della libertà assoluta del singolo.

Nel fondamentalismo di marca religiosa spesso si vuole erigere la legge religiosa a legge civile, fare della seconda quasi la fotocopia della prima.

Specularmente il fondamentalismo laicistico intende procedere etsi Deus non daretur e cancellare accuratamente la religione dalla piazza pubblica, marginalizzandola nel privato.

Il fondamentalismo che si esprime con l'intolleranza introduce un'alterazione del rispetto e dell'agape, poiché follemente ritiene che la guerra, il dominio, la forza siano l'anticamera della conversione e del vero.

Uno dei compiti fondamentali delle religioni, quando non deviino dalla loro vocazione, consiste nel mantenere viva la consapevolezza della comune appartenenza alla famiglia umana.

Esse debbono ricordare agli uomini e alle donne di ogni popolo che nonostante le loro diversità sono fra loro fratelli.

Ricordando il trascendente destino cui sono indirizzati, possono educare gli uomini a camminare insieme senza guerre né contrapposizioni.

Ma le religioni possono cedere al fanatismo e andare nella direzione opposta, magari spinte da una ricerca spasmodica di appartenenza, tanto più intensa quanto più ci si sente privi di un luogo di consistenza ed esposti a precipitare.

Non dimentichiamo i legami che intercorrono fra mancanza di appartenenza e violenza: lo spaesamento o delocalizzazione « spirituale », prodotto da un aggressivo relativismo che dissolve i valori ricevuti, può generare la via di fuga del fondamentalismo.

B) Va mantenuta l'estraneità di due poli che, pur avendo qualche affinità lessicale, fanno riferimento ad universi concettuali lontani: il fondazionalismo e il fondamentalismo.

Il primo termine dice che un certo pensiero è fondato e che può render conto di sé, mentre il secondo è l'atteggiamento di chi vuole imporre qualcosa.

Nel caso della fondazione o fondazionalismo si ricerca un principio fermo dell'essere o del conoscere che consenta di giustificare il discorso che intendiamo proporre, mentre nel fondamentalismo la partenza e l'intento sono largamente pratici: trarre da una convinzione, un'ideologia o una fede criteri assoluti, non negoziabili e intolleranti di prassi.

C) La base spirituale del principio totalitario risiede nella distruzione dell'idea di persona, nell'adozione di un'antropologia in cui l'io empirico non ha valore, e nella cancellazione delle religioni trascendenti con contestuale elevazione della politica a religione intramondana ( la politica è tutto ).

Viceversa il fondamentalismo è un cortocircuito fra religione e politica oppure fra irreligione e politica.

Dunque appariscenti sono le diversità fra i due fenomeni, nel senso che nel totalitarismo la religione è distrutta o è allontanata dalla politica nel segno di un assoluto primato della politica, mentre nel fondamentalismo religioso accade il contrario, cioè la subordinazione della politica alla religione.

D) Nei fondamentalismi religiosi si può forse giungere a pensare che Dio è verità, ma una verità separata dall'agape, e perciò intesa con una coloritura di passionalità e di intolleranza.

Remota appare la considerazione che chi converte e volge il cuore a riconoscere il vero è Dio, e che Dio lo fa nel silenzio, nella mitezza, senza violenza.

In proposito la mente corre ad un celebre episodio narrato nell'Antico Testamento, al dialogo fra Elia e il Signore sul monte Oreb, quando il Signore passò ed Elia desiderò vederlo.

Dapprima ci fu un vento grande e gagliardo, ma il Signore non era nel vento, e neppure successivamente nel terremoto e poi neanche nel fuoco, ma nel sussurro di una brezza leggera: « non in spiritu Dominus, non in commotione Dominus, non in igne Dominus » ( 1 Re 19,11 ).

Siamo perciò ammaestrati che Dio non si fa presente nel disordine, nell'affanno, nello zelo amaro e violento.

Va da sé - ma non è inutile sottolinearlo - che le guerre di religione e le lotte scatenate dai fondamentalismi non sono in alcun modo guerre sante, per il semplice motivo che l'idea stessa di guerra santa è illecita e ingiustificata.

Nessuna guerra ha mai e in nessun caso il diritto di chiamarsi santa: non esistono « guerre sante », neppure quelle che si vorrebbero combattere nel nome di Dio.19

E) Non si può debellare il fondamentalismo religioso rinunciando all'ambito della verità, ossia derubricando le religioni e assegnandole al quadro del non-vero, della sola pietas e del culto: questa sarebbe una soluzione illusoria poiché l'uomo è un essere che mira al vero.

Occorre distinguere fra tolleranza teoretica che accoglie la validità di qualsiasi opinione e che è assurda, e tolleranza « morale » che è valida.

La tolleranza verso l'altro non esige la tolleranza teoretica, in cui tutte le opinioni valgono ugualmente.

Illustrando la convergenza tra sentimento cristiano e democrazia personalista, Maritain sostiene che la fede nell'Assoluto è garanzia contro la creazione di falsi assoluti terreni e contro atteggiamenti totalitari: si tratta di tesi contraria a quella di Kelsen, per il quale chiunque ritiene di conoscere la verità assoluta cercherà di imperla agli altri e non potrà essere un democratico.

Rispondendo, Maritain qualificherà come barbara e sbagliata tale posizione, aggiungendo: « Non c'è tolleranza reale e autentica se non quando un uomo è fermamente e assolutamente convinto di una verità, o di quella che ritiene una verità, e quando, nel medesimo tempo, riconosce a quelli che negano questa verità il diritto di esistere e di contraddirlo e quindi di esprimere il loro pensiero, non perché siano liberi nei confronti della verità, ma perché cercano la verità a modo loro e perché rispetta in essi la natura umana e la dignità umana, e quelle risorse e quelle sorgenti vive dell'intelligenza e della coscienza che li rendono, in potenza, capaci di attingere anche loro la verità che egli ama, se un giorno arriveranno a vederla ».20

F) Un problema notevole riguarda la collocazione geografica dei fondamentalismi e del loro paradigma polare, il relativismo.

Mentre il relativismo è più diffuso nell'area occidentale sì da costituirvi la congiuntura spirituale prevalente ( non saremmo divenuti in Occidente troppo scettici per appassionarci a una fede? ), il fondamentalismo religioso circola più ampiamente nei Paesi islamici.

Nel rapporto tra fondamentalismo e relativismo lascerei un punto interrogativo per quanto riguarda la complessa situazione asiatica, difficile da interpretare anche sul piano religioso.

Per il resto sarei incline a sostenere che fondamentalismo religioso e relativismo si richiamino a vicenda nel senso che ciascuno dei due indurisce e radicalizza la propria posizione al cospetto dell'altro, per non parlare poi di non infrequenti passaggi dall'estremo dogmatismo all'estremo relativismo e viceversa.21

8. Esportare la democrazia o i diritti umani? L'Isiam

1) Si può esportare la democrazia e in che modo?

Non certo con le armi, i missili, i bombardieri, la guerra preventiva.

Oltre questa ovvia considerazione rimane centrale la domanda se sia più fondamentale esportare la democrazia oppure i diritti umani o almeno una loro lista minimale.

In molti Paesi l'obiettivo primario appare quello di garantire diritti essenziali più che quello dell'esportazione della democrazia, poiché la garanzia dei primi pone rimedio a grandi mali che la procedura democratica da sola non offre: diritto al cibo, alla vita, ad un ambiente decente, a una soglia minima di cure sanitarie, ecc.

Il pur auspicabile godimento dei diritti civili e politici quali si hanno con la democrazia non è sufficiente e può non avere priorità sul godimento di essenziali diritti economici e sociali.

È l'idea fra gli altri di A. Cassese: « Per quanto riguarda i diritti sostanziali da proteggere, la proposta che ritengo di avanzare è che la comunità internazionale dovrebbe concentrarsi in primo luogo su alcuni fondamentali diritti sociali ed economici, la cui realizzazione, necessaria in qualunque parte del mondo, rivestirebbe particolare valore per i Paesi più svantaggiati ».22

Diversa, ma forse solo all'apparenza, è la posizione di A. Sen che in La democrazia degli altri non nutre alcuna generale sfiducia sulla possibilità di esportare la democrazia perfino nell'attuale Iraq ( cfr. p. 5 ), poiché per lui le radici della democrazia non si trovano esclusivamente in un tipo specifico di pensiero occidentale al di fuori del quale la democrazia languirebbe e morirebbe ( cfr. pp. 7 e 40 ).

La democrazia è qui intesa non come un insieme di procedure ma come l'esercizio della ragione pubblica, circolazione d'informazioni, discussione aperta con la partecipazione dei cittadini al dibattito politico, secondo una determinazione larga di democrazia, più ampia di quella promossa da Lincoin a Gettysburg.

Una posizione quella di Sen alquanto diversa dalla visione di Huntington per il quale le elezioni libere e aperte a tutti sono l'essenza o il sale della democrazia, con il grande rilievo della salvaguardia del pluralismo e delle libertà fondamentali.

2) Anche supponendo che la democrazia possa essere di casa dappertutto, vi sono errori notevoli da evitare per conseguire l'esito.

Non persuade l'assunto di esportare una versione del tutto secolarizzata di democrazia nei Paesi islamici.

Un autore americano autorevole come A. Etzioni scrive: « Gli Stati Uniti dovrebbero desistere dal promuovere, in Iraq e in altri Paesi, una società civile laica come unica alternativa a una teocrazia sciita di stampo talebano ».23

Non vi è un solo schema di democrazia, e tentare di imporre quello che si ritiene unico rappresenta un serio equivoco.

Se la democrazia non è solo un'invenzione occidentale ma qualcosa che ha radici in India e in Africa, in specie sotto l'aspetto della discussione e deliberazione pubblica, non esiste un unico codice democratico, ed è problematico il progetto di esportarne una versione completamente secolarizzata, magari raddoppiata da un arrogante scientismo.

Un islamismo flessibile può convivere con istituzioni democratiche, ammettere elezioni libere, libertà di stampa, uguali diritti, mentre si troverebbe in contrasto con un aggressivo laicismo.

3) Con l'evocazione del « problema Isiam » ci si imbatte in un pelago di difficoltà.

Mi limito ad una sola considerazione, ossia la necessità di conoscere a fondo la situazione e la storia dei Paesi arabo-mussulmani dal lato culturale, religioso, geopolitico.

La loro cultura attuale è impregnata più di quanto pensiamo del ricordo di eventi accaduti nel VII, X, XII e XV secolo, profondamente e tenacemente sedimentatisi nella memoria collettiva.

Sottolinea con appropriatezza il diverso peso della storia in Europa e nell'Isiam B. Lewis, grande conoscitore di quei Paesi, osservando che perdura in Europa un certo disprezzo e non-conoscenza della storia araba.

Nel rapporto fra democrazia e religione si osserva finora una differenza fra area del cristianesimo e area dell'Isiam.

Mentre nella prima democrazia e cristianesimo hanno raggiunto dopo notevoli difficoltà un'intesa, nell'altra non ancora.

Anzi alcuni domandano se democrazia ed islam siano compatibili, se sia possibile trovare sufficienti evidenze empiriche della loro compatibilità: in effetti non pare essere disponibile una esperienza storica sufficiente per corroborare o meno l'assunto, il quale invece è attestato per la relazione fra induismo e democrazia dopo oltre mezzo secolo di accettabile funzionamento della democrazia in India.

Alquanto diversamente vanno le cose nell'area islamica, che ha sì trapiantato modelli europei in casa propria nel XX secolo, ma molti di loro sono stati modelli sbagliati desunti dal fascismo, dal nazionalismo, dal nazismo e in tempi più vicini dal socialismo sovietico, con l'effetto di trasformare le forme tradizionali di governo mediorientale, in genere autoritario ma non dispotico, in forme dittatoriali e totalitarie copiate dall'Occidente.

Potrebbe perfino darsi che il terrorismo islamico abbia imparato qualcosa dall'epoca del Terrore.

« Il movimento rivoluzionario islamico oggi in agguato nel mondo, da Kabul a Giava, non sarebbe esistito senza lo smaccato laicismo propugnato dallo scià Reza o senza i vari esperimenti di un socialismo di stato azzardati in Egitto, Siria e Algeria.

Per questo deve considerarsi un'enorme sventura, per molti versi, che il Medio Oriente sia entrato per la prima volta in contatto con l'Occidente moderno attraverso gli echi della Rivoluzione Francese.

In Robespierre e nei giacobini il radicalismo arabo vedeva modelli di eroismo: propugnatori del progresso e dell'egualitarismo, avversi alla Chiesa cristiana.

Ancor più disastrosi furono i paradigmi cui guardò in seguito: l'Italia mussoliniana, la Germania nazista e l'Unione sovietica » ( I. Buruma e A. Margalit, Occidentalism: thè West in thè Eyes of its Enemies, Penguin Press 2004 ).

Spesso i fondamentalisti arabi hanno combattuto l'Occidente con idee sorte in Europa.

È comprensibile che il fallimento di queste politiche abbia suscitato nel mondo islamico la persuasione che abbandonare le proprie tradizioni per seguire quelle altrui abbia condotto alla distruzione della propria civiltà, per cui l'unico rimedio intravisto resta il ritorno all'Islam.

Così l'occidentalizzazione che alcuni ancora desiderano, per altri sarebbe la causa di molti mali: si presenta oggi nell'area islamica, certo in termini propri, qualcosa di analogo all'illimitato dibattito fra occidentalisti e slavofili iniziato quasi due secoli fa in Russia e tuttora in corso.

9. Conclusioni

Per diffondere la democrazia nel mondo occorre rendere meno debole quel sentimento di comune appartenenza al genere umano che oggi, nonostante la globalizzazione, langue, e che se non si sviluppa non è in grado di stabilire un sistema di reciprocità nel riconoscimento di diritti e di doveri.

Qui il personalismo e non l'individualismo può aiutare il cammino della democrazia contro i rischi di degenerazione.

Poi occorre prestare attenzione ai fondamenti preanalitici della democrazia quale evento di portata storico-mondiale: l'idea che la storia umana ha senso, che non va verso una fine catastrofica, che non è un racconto privo di significato e scritto da un idiota.

In secondo luogo un tema assume sempre di più decisivo rilievo, tale da condizionare profondamente il futuro della democrazia: la sua capacità di esercitare un controllo morale, giuridico e politico del potere, oggi in specie quello tecnologico, il quale si trova di fatto investito di enormi e crescenti possibilità di operare e distruggere.

Anche da questo lato si evince la necessità del predomino del paradigma della Giustizia sul paradigma della Forza e del Potere, che è al cuore dello spirito democratico e dell'autentico governo politico.

Indice

1 La democrazia, il Mulino, Bologna 1984, p. 37.
2 "Fra tutti gli eventi del XX secolo non ho avuto in fondo alcuna difficoltà a sce-
gliere quello per me decisivo: l'ascesa della democrazia", A. Sen, La democrazia degli
altri, Mondadori, Milano 2004, p. 45.
3 R. Niebuhr, Il destino e la storia, Rizzoli, Milano 1999, p. 41e s.
4 C. Schmitt, Le categorie del 'politico', il Mulino, Bologna 1972, p. 146.
5 V. Possenti, Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofìa della società, Marietti, Genova 1991, p. 101. Per un'analisi del concetto di popolo nel pensiero poli tico di Agostino, Tommaso, Hobbes, Rousseau, Hegel, Kelsen, Schmitt, Maritain cfr il cap. IV di questo libro, pp. 101-139.
6 La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1992, p. 732 e s.
7 Per vari spunti concementi l'autorità cfr. il mio L'azione umana. Morale, politi ca e Stato in J. Maritain, Città Nuova, Roma 2003, pp. 172-196, nonché lo studio Sovranità, pace, guerra. Considerazioni sul globalismo politico, «Teoria politica», n. 1, 2006. Il compito dell'autorità politica è attentamente elaborato da Y. R. Simon in Filosofìa del governo democratico (1952) e nel postumo A Generai Theory of Authority (1980) e da H. Arendt in Che cos'è l'autorità? (1958). Precedentemente la crisi del suo concetto fu analizzata da Capograssi in Riflessioni sull'autorità e la sua crisi (1921).
8 La posizione kelseniana non crede all'esistenza di criteri fermi del bene e del male, ma al relativismo etico. Contrariamente ad un facile ma diffuso giudizio, la tol leranza verso l'altro non ha bisogno del relativismo per esercitarsi, e parimenti l'intol leranza non si lega soltanto al dogmatismo. Occorre distinguere fra tolleranza verso l'altro e tolleranza 'dogmatica', una differenza che la dottrina della democrazia di Kelsen esclude: "La tolleranza presuppone la relatività della verità sostenuta o del valore postulato" (p. 313). Sembra che per Kelsen la tolleranza sia propria solo di coloro che non credono a niente di stabile.
9 Il testo dell'intervento è ora in G. La Pira, La casa comune. Una costituzione per l'uomo, a e. di U. De Siervo, Cultura Editrice, Firenze 1979, p. 251.
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J. Habermas, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 27. Oltre 50 anni fa l'idea della costituzione progressiva di una società politica mondiale trovò elaborato sviluppo in J. Maritain, L'uomo e lo Stato, Marietti, Genova-Milano 2003.

11 R. Niebuhr, Uomo morale e società immorale, Jaca Book, Milano 1960, p. 1.
12 Su questi aspetti cfr. il mio Religione e vita civile. Armando, Roma 2002.
13 La democrazia in America, 1. II, cap. IX, p. 296 e s.
14 Secondo Habermas una filosofia conscia della sua fallibilità "insiste per differenziare - in modo generico, ma non certo in senso peggiorativo - il discorso secolare che ha la pretesa di essere accessibile in generale, e il discorso religioso, dipendente dalla verità di fede. Diversamente che in Kant e in Hegel, questa delimitazione grammaticale non si collega alla pretesa della filosofia di determinare essa stessa - oltre al sapere mondano socialmente istituzionalizzato - cosa sia vero e cosa sia falso nel contenuto delle tradizioni religiose. Il rispetto (Respekt), che va di pari passo con questa astensione di giudizio, si fonda sull'attenzione (Achtung) nei confronti di persone e modi di vita che attingono la loro integrità e la loro autenticità in primo luogo da convinzioni religiose. Ma il rispetto non è tutto, la filosofia ha motivi per relazionarsi alle tradizioni religiose con una disponibilità ad apprende rè", J. Habermas, I fondamenti morali prepolitici dello stato liberale, «Humanitas», n. 2, 2004, p. 247. Su democrazia e cristianesimo e sul modo di declinare un loro rapporto fecondo cfr. nel mio volume Oltre l'illuminismo. Ed. Paoline, Milano 1992, il saggio "La democrazia e il cristianesimo", pp. 156-175.
15 N. Bobbio, il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p. XI.
16 Quanto alle immagini dell'io adottate nelle principali scuole democratiche del XX secolo, si va dall'io comunicativo a quello deontologico; dall'io personalista a quello sociale marxiano; da quello denotato dalla libertà di scelta a quello contrassegnato dai fini. Perfino un autore come Kelsen, deciso sostenitore della separazione tra antropologia e scienza nel campo della dottrina pura del diritto, nel momento in cui entra nella teoria della democrazia, inizia la trattazione con un problema squisitamente antropologico quale è quello della libertà. E se dall'oggi si risale verso il passato, incontriamo il self-love e la benevolence in A. Smith, il self-interest nei trattati di economia politica. Si provi infine a confrontare l'immagine di uomo della teoria di Rawls e quella dell'utilitarismo: nel primo caso predomina l'idea di persone intese come agenti morali liberi, uguali, dotati di autonomia; nel secondo esse sono considerate in base alla loro capacità di essere soddisfatte dalla massima somma di benessere generale, mentre il concetto di autonomia è trascurato.
17 Considero positivo il distacco di varie teorie democratiche dall'apparato concettuale che circola nel Contratto sociale su numerosi problemi. Viene infatti accolto l'istituto della rappresentanza e abbandonata l'idea che un popolo che si da dei rappresentanti non è più libero; rifiutato il potenziale totalitario inerente al mito della volontà generale quale Volontà di un Io mistico collettivo; quasi capovolto è il giudizio nei confronti delle formazioni sociali poste tra il cittadino e lo Stato che, esorcizzate dalla teoria settecentesca, in genere trovano riconoscimento in quella attuale. Abbandonata è infine la figura intellettualistica della "religione civile", interpretata da Rousseau come una religione dogmatica minimale capace di assicurare l'unità e la sociabilità della società civile.
18 Y. R. Simon, Filosofia del governo democratico. Massimo, Milano 1983, p. 96.
19 Non tutti i fondamentalismi sono di tipo politico-religioso, vi sono anche dei fondamentalismi letteralistici di chi interpreta alla lettera i testi originari e fondativi di un credo religioso o razionale. Nel caso dei fondamentalismi politico-religiosi si incontra una reale continuità tra il dogma religioso, a cui ci si vota senza riserve, e la volontà di dominio o almeno di controllo politico del diverso, del miscredente. I fondamentalismi politico-religiosi combattono guerre la cui tipologia può essere così descritta: guerre della verità o guerre del credo, nelle quali si fondono in un unico scopo l'imposizione del proprio credo e il dominio.
20 J. Maritain, II filosofo nella società, Morcelliana, Brescia 1976, p. 64.
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Per relativismo religioso intendo la parità fra tutte le religioni, comprese come cammini equivalenti verso un Dio che ha infiniti volti e che ad ogni cultura ne mostra uno e uno solo. Nel relativismo religioso l'assunto che esista una molteplicità delle rivelazioni viene spesso appoggiato ad un discorso di origine kantiana, il dualismo tra fenomeno e noumeno, per cui gli uomini conoscono solo il Dio-per-noi, che è l'elemento fenomenico e molteplice, e mai il Dio-in-sé, che ci è completamente sconosciuto. Un autore ha scritto, meno di un secolo fa, che il cristianesimo sarebbe soltanto quel particolare volto di Dio - uno tra gli infiniti - rivolto verso l'Occidente e percepito dentro gli schemi della tradizione occidentale. In ciò sembra consistere l'essenza teologica del relativismo religioso.

22 P. Alston, A. Cassese, Ripensare i diritti umani nel XXI secolo, EGA, Torino 2004, p. 86 e s.
23 Dall'Islam soft arriva la democrazia, «Vita e Pensiero», n. 2, 2004, p. 22.