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XV - Passaggio della conoscenza dell'uomo a Dio

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La prevenzione che induce all'errore.

È una cosa deplorevole vedere che gli uomini si occupano solo dei mezzi e non del fine.

Ognuno pensa a come assolvere i doveri della propria condizione, ma la scelta della condizione e della patria tocca alla sorte.

È penoso vedere quanti turchi, eretici, infedeli, seguono le abitudini dei padri per il solo motivo che ciascuno pensa siano le migliori, così come ciascuno si adegua alla condizione di fabbro, soldato, ecc.

Per lo stesso motivo i selvaggi non sanno che farsene della Provenza.

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Perché la mia conoscenza è limitata, e così la mia statura, e posso durare cent'anni piuttosto che mille?

Quale ragione ha avuto la natura di darmi proprio quella, e di sceglierla al posto di un'altra in un'infinità in mezzo a cui non c'è ragione di scegliere una cosa invece di un'altra, dove nulla può attirare più di altro?

Poco di tutto.

Poiché non si può essere universali, sapendo gratuitamente tutto ciò che è possibile sapere su tutto, è meglio sapere un po' di tutto, poiché è molto più bello conoscere qualcosa di tutto piuttosto che conoscere tutto di una sola cosa.

È un'universalità più bella.

Se si potessero avere entrambe sarebbe meglio; ma dovendo scegliere, dobbiamo scegliere la seconda.

La gente lo sa e lo mette in pratica, poiché spesso la gente è buon giudice.

Il mio gusto mi fa disprezzare uno che fa rumore e che sbuffa mangiando.

Il gusto ha un grande peso.

Cosa dobbiamo dedurne?

Che ci lasceremo trascinare da questo peso dal momento che è naturale?

Al contrario, gli resisteremo.

Nulla rivela la vanità degli uomini meglio della riflessione sulle cause e sugli effetti di quell'amore, poiché il mondo intero ne risultò cambiato.

Il naso di Cleopatra.

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Vedendo l'accecamento e la miseria dell'uomo, osservando come tutto l'universo sia muto e l'uomo senza luce, abbandonato a se stesso e quasi smarrito in questo angolo dell'universo, senza conoscere chi ve lo ha messo, cosa ci deve fare, che ne sarà di lui con la morte, incapace di ogni conoscenza, mi afferra la paura, come un uomo che fosse stato portato nel sonno su un'isola deserta e terribile e si svegliasse senza sapere dove si trova e senza poterne uscire.

E mi stupisco che non ci si disperi in una condizione così miserabile.

Attorno a me vedo altre persone di una simile natura.

Chiedo loro se sono meglio istruite di me.

Mi rispondono di no; e in effetti questi uomini abbandonati e miserabili, dopo essersi guardati attorno e aver scorto qualche oggetto gradevole, vi si sono affidati e aggrappati.

Per quanto mi riguarda, non mi sono aggrappato a niente, e riflettendo su come sia probabile che ci siano altre cose oltre a quelle che vedo, mi sono messo a cercare se Dio non avesse lasciato qualche traccia di sé.

Vedo più religioni in contrasto tra loro, e dunque tutte false tranne una.

Ciascuna esige di essere creduta in forza della propria autorità e minaccia gli increduli.

Non è per questo motivo dunque che posso credere loro.

Chiunque può dirlo.

Chiunque può dirsi profeta, ma nella religione cristiana trova delle profezie, e questo non tutti possono farlo.

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Sproporzione dell'uomo.

« Ecco dove ci conducono le conoscenze naturali.

Se non sono vere, nell'uomo con c'è verità, ma se lo sono, questo è un motivo di grande umiliazione per lui, costretto in un modo o nell'altro ad abbassarsi.

Ma poiché non può vivere senza credervi, mi auguro che, prima di inoltrarsi nelle più profonde ricerche della natura, egli la consideri almeno una volta con calma e serietà e pensi anche a se stesso, riconoscendone le proporzioni. »

Che l'uomo contempli dunque l'intera natura nella sua alta e piena maestà, distolga il suo sguardo dai bassi oggetti che lo circondano.

Osservi quella luce splendente messa come una lampada eterna per illuminare l'universo, finché la terra gli appaia come un punto a confronto con il vasto giro descritto dall'astro, e si stupisca di come quello stesso vasto giro non è che un filo fragilissimo rispetto a quello percorso dagli astri che ruotano nel firmamento.

Ma se la nostra vista si ferma lì, che l'immaginazione vada oltre, sarà lei a smettere di pensare prima che la natura smetta di fornirle materia.

L'intero mondo visibile non è che un impercettibile segno nell'ampio seno della natura.

Nessuna idea vi si avvicina.

Abbiamo un bel dilatare i nostri pensieri al di là degli spazi immaginabili, a confronto della realtà partoriremo dei semplici atomi.

È una sfera infinita il cui centro è dovunque e la circonferenza in nessun luogo.

Che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero è in fondo la più grande testimonianza sensibile dell'onnipotenza divina.

Dopo aver fatto ritorno a sé, l'uomo consideri ciò che è rispetto a ciò che esiste, si veda smarrito in un angolo dimenticato della natura, e da questa piccola cella dove si trova, cioè l'universo, impari a dare il giusto valore alla terra, ai regni, alle città e a se stesso.

Cos'è un uomo nell'infinito?

Ma per fornirgli un altro prodigio di uguale eccezionalità, esamini le cose più impercettibili, come un acaro, che pur nella piccolezza del suo corpo rivela parti incomparabilmente più piccole: zampe con giunture, e vene nelle zampe, e sangue nelle vene, e umori nel sangue, e gocce in questi umori, e vapori nelle gocce.

Ma divida ancora queste ultime cose, spinga al limite la sua capacità di pensare, e l'ultimo oggetto a cui può arrivare sia per ora quello che interessa il nostro discorso.

Forse penserà che questa è la cosa più piccola della natura.

Ma anche là dentro voglio che scorga un nuovo abisso.

Non voglio raffigurargli solo l'universo visibile, ma l'immensità della natura racchiusa in questo minuscolo atomo.

Guardi che infinità di universi, ciascuno col suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile.

E animali su questa terra, e acari nei quali ritroverà tutto ciò che ha trovato negli altri, e altri ancora nei quali ritroverà le medesime cose, incessantemente e senza tregua.

Si perda in queste meraviglie stupefacenti per la loro piccolezza come le altre per la loro grandezza.

Chi non proverà ammirazione per il fatto che il nostro corpo, poco fa impercettibile in un universo a sua volta impercettibile in seno al tutto, sia diventato ora un colosso, un mondo o meglio un tutto davanti all'inarrivabile nulla?

Chi rifletterà in questo modo si spaventerà di se stesso, e considerandosi sospeso alla massa che la natura gli ha dato tra i due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà alla vista di queste meraviglie e penso che, mutando la curiosità in ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a farne oggetto di una ricerca presuntuosa.

Ma alla fine, cos'è un uomo nella natura?

Un nulla davanti all'infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli estremi.

Il fine e il principio delle cose gli sono inesorabilmente nascosti da un segreto impenetrabile.

Incapace al tempo stesso di vedere il nulla da dove è tratto e l'infinito che lo sommerge, cosa potrà fare se non cogliere qualche aspetto di ciò che sta a metà, disperando eternamente di conoscerne il principio e la fine?

Tutte le cose sono uscite dal nulla e portate nell'infinito.

Chi saprà seguire questi incredibili passaggi?

Solo il loro autore li comprende.

Nessun altro lo può fare.

Per non aver contemplato questi infiniti, gli uomini si sono messi alla temeraria ricerca della natura, come se tra loro e la natura ci fosse qualche proporzione.

È curioso che abbiano voluto comprendere i principi delle cose per poi spingersi a conoscere tutto, con una presunzione infinita quanto il suo oggetto.

Poiché certamente un simile progetto è possibile solo a patto di una presunzione o di una capacità infinita, come quella della natura.

Quando si è studiato si capisce che, avendo la natura impresso la propria immagine e quella del suo autore in tutte le cose, quasi tutte partecipano della sua doppia infinità.

Per questo constatiamo che l'estensione della ricerca è infinita in tutte le scienze, e così, per esempio, chi può dubitare che la geometria possa dispiegare un'infinita infinità di proposizioni?

Anche la moltitudine e la sottigliezza dei loro princìpi sono infinite, perché chi non vede come quelli che prendiamo per ultimi non si sostengono da soli, ma si appoggiano ad altri i quali, appoggiandosi ad altri ancora, non ne ammetteranno mai un ultimo definitivo?

Ma riguardo ai princìpi ultimi che appaiono alla ragione, noi ci comportiamo come davanti alle cose corporee, quando chiamiamo indivisibile quel punto oltre il quale i nostri sensi non percepiscono altro, per quanto infinitamente divisibile per sua natura.

Di questi due infiniti delle scienze, l'infinitamente grande è molto più evidente, ed è per questo che poche persone hanno avuto la pretesa di conoscere tutte le cose.

« Parlerò di tutto », diceva Democrito.

Invece l'infinititamente piccolo è molto meno visibile.

Sono stati piuttosto i filosfi a pretendere di arrivarvi, e qui tutti si sono arenati.

Da questo hanno origine titoli così comuni come: I Princìpi delle cose!

Principi della filosofia, e altri ugualmente pomposi, a dir la verità, benché meno appariscenti di questo che abbaglia: De omni scibili.

Naturalmente ci si crede molto più capaci di raggiungere il centro delle cose che di abbracciare la loro circonferenza, e l'estensione visibile del mondo ci oltrepassa visibilmente.

Ma, dal momento che oltrepassiamo le piccole cose, ci crediamo anche più capaci di possederle, senza pensare che non ci vuole meno capacità per raggiungere il nulla di quanta ce ne voglia per raggiungere il tutto.

Si tratta di una capacità infinita per l'uno e per l'altro, e secondo me chi avesse compreso i principi ultimi delle cose potrebbe anche arrivare a conoscere l'infinito.

Uno dipende dall'altro, uno conduce all'altro.

Questi estremi si toccano e si ricongiungono in forza della loro lontananza, e in Dio, in Dio solo si ritrovano.

Riconosciamo dunque i nostri limiti.

Noi siamo qualcosa, non siamo tutto.

Quel poco d'essere che abbiamo ci sottrae la conoscenza di quei primi principi che nascono dal nulla, ma la sua stessa esiguità ci nasconde la vista dell'infinito.

La nostra intelligenza sta all'ordine delle cose intellegibili come il nostro corpo sta all'estensione della natura.

Limitati in ogni genere, questa condizione, che sta a metà tra i due estremi, si rivela in ogni nostra facoltà.

I nostri sensi non sono in grado di percepire niente di estremo, un rumore eccessivo ci assorda, una luce troppo forte ci acceca, una distanza esageratamente lunga o corta ci impedisce di vedere.

Un discorso troppo lungo o troppo breve diventa oscuro, un eccesso di verità ci stordisce.

Conosco gente che non riesce a comprendere come sottraendo quattro allo zero, questo rimanga zero.

I primi princìpi sono troppo evidenti per noi; troppo piacere ci spiace, anche nella musica un eccesso di armonia lo troviamo disdicevole e troppa benevolenza ci irrita.

Vogliamo essere sempre in grado di ricambiare in sovrappiù il debito.

« Beneficia eo usque laeta sunt dum videntur exsolvi posse; ubi multum antevenere, pro gratia odium redditur ».

Non avvertiamo né il caldo né il freddo estremi.

Le qualità eccessive ci sono ostili e non le percepiamo, le soffriamo.

Troppa giovinezza e troppa vecchiaia impacciano lo spirito, così come troppa o troppo poca istruzione.

Infine, le cose estreme sono per noi come se non fossero affatto, e noi non siamo nulla nei loro confronti.

O noi sfuggiamo a loro o loro a noi.

Ecco la nostra vera condizione.

È questo che ci rende incapaci di un sapere certo e di un'assoluta ignoranza.

Navighiamo nella vastità, sempre incerti e fluttuanti, spinti da un estremo all'altro.

Qualunque appiglio a cui pensiamo di attaccarci per essere sicuri, viene meno e ci abbandona, e se lo seguiamo si sottrae alla nostra presa, scivola e fugge in una fuga eterna.

Niente per noi è solido.

È la nostra condizione naturale eppure la più contraria alle nostre inclinazioni.

Ci brucia un desiderio di trovare un fondamento sicuro, e come una base ferma per costruirvi una torre che si alzi verso l'infinito, ma ogni fondamento si spezza e la terra si apre fino agli abissi.

Non cerchiamo dunque sicurezza e stabilità, la nostra ragione è continuamente delusa dalla mutevolezza delle apparenze: niente può fissare la finitezza tra i due infiniti che la racchiudono e la fuggono.

Se questo è stato davvero capito, credo che resteremo tranquilli, ciascuno nella condizione dove l'ha posto la natura.

Essendo questa mediocrità che ci è toccata in sorte sempre lontana dagli estremi, che importanza può avere che un altro conosca un po' di più le cose?

Se ne ha, egli le prende da un po' più in alto, ma non è sempre e infinitamente lontano dalla meta?

E la durata della nostra vita, se anche fosse prolungata di dieci anni, non è forse ugualmente infima rispetto all'eternità?

Al cospetto di questi infiniti, tutti i finiti sono eguali, e non vedo perché riposare la propria immaginazione su uno piuttosto che su un altro.

Il solo confrontarci con il finito ci addolora.

Se l'uomo studiasse prima di tutto se stesso, si accorgerebbe di come è incapace di andare oltre.

Come potrebbe una parte conoscere il tutto?

Forse egli desidererà almeno conoscere le parti con cui è in proporzione.

Ma le parti del mondo sono tutte in una tale relazione e talmente concatenate tra loro, che ritengo impossibile conoscerne una senza l'altra e senza il tutto.

L'uomo, per esempio, è in relazione con tutto ciò che conosce.

Ha bisogno di un luogo che lo contenga, del tempo per durare, del movimento per vivere, di elementi che lo compongano, di calore e di alimenti per nutrirsi, d'aria per respirare.

Egli vede la luce, sente i corpi, tutto cade insomma in relazione con lui.

Per conoscere l'uomo è necessario dunque sapere perché abbia bisogno d'aria per vivere, e per conoscere l'aria sapere in che rapporto sta con la vita dell'uomo, ecc.

La fiamma non vive senza l'aria, dunque per conoscere una bisogna conoscere l'altra.

Essendo così tutte le cose cause ed effetti, sostegni e sostenuti, mediate e immediate, ed essendo reciprocamente implicate da legami naturali e non sensibili che le legano per quanto lontane e indifferenti, ritengo impossibile la conoscenza delle parti senza la conoscenza del tutto, non meno della conoscenza del tutto senza la conoscenza specifica delle parti.

« L'eternità delle cose in se stesse o in Dio dovrebbe colpire la nostra piccola durata.

Anche la fissa e costante immobilità della natura, paragonata al continuo mutamento che si verifica in noi, dovrebbe provocare il medesimo effetto. »

Ma ciò che completa la nostra impotenza di conoscere le cose è che esse sono semplici in sé e che noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso, l'anima e il corpo.

È impossibile che la parte che in noi ragiona non sia quella spirituale.

Ma anche se qualcuno ipotizzasse che siamo esseri puramente corporei, proprio ciò ci escluderebbe a maggior ragione dalla conoscenza delle cose, niente essendo così poco plausibile dell'affermazione che la materia conosce se stessa.

Non ci è possibile conoscere come essa si conoscerebbe.

E così, se siamo semplici creature materiali, non possiamo conoscere niente, e se siamo composti di spirito e di materia, non possiamo conoscere perfettamente le cose semplici, spirituali o corporali che siano.

Da ciò deriva che quasi tutti i filosofi confondono le idee di queste cose e parlano in modo spirituale delle cose corporali e in modo corporale delle cose spirituali, affermando audacemente che i corpi tendono verso il basso, che aspirano al loro centro, che fuggono la loro distruzione, che temono il vuoto, che hanno inclinazioni, simpatie, antipatie, tutte cose che appartengono solo allo spirito.

Viceversa, parlando degli spiriti essi li considerano come se fossero in un luogo, attribuiscono loro il movimento da uno spazio a un altro, tutte cose che appartengono solo ai corpi.

Invece di formulare le idee pure di queste cose, noi le coloriamo con le nostre qualità, proiettando la nostra natura composta su ogni cosa semplice.

Chi dubiterebbe, vedendoci attribuire a ogni cosa spirito e corpo, che questa mescolanza ci sia comprensibile?

E tuttavia è la cosa meno comprensibile: l'uomo è per se stesso il più prodigioso fenomeno della natura, dal momento che non riesce a comprendere cosa sia corpo e ancora meno cosa sia spirito, e meno di tutto come un corpo possa essere unito a uno spirito.

Proprio questo è il culmine delle sue difficoltà, e proprio questo è il suo essere: « modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab homine non potest, et hoc tamen homo est ».

« Ecco una parte dei motivi che rendono l'uomo così inadatto a conoscere la natura.

Essa gode di una doppia infinità, egli è finito e limitato; essa dura e si conserva perpetuamente nel suo essere, egli passa ed è mortale.

Le cose in particolare si corrompono e mutano ad ogni istante.

Egli le vede solo di sfuggita.

Esse hanno un principio e una fine.

Egli non comprende né l'uno né l'altra.

Esse sono semplici, egli è composto di due nature diverse. »

Infine, per esaurire le prove della nostra debolezza, farò ancora un paio di considerazioni …

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L'uomo non è che un fuscello, il più debole della natura, ma è un fuscello che pensa.

Non è necessario che l'universo intero si armi per spezzarlo, bastano un po' di vapore, una goccia d'acqua, per ucciderlo.

Ma anche quando l'universo lo spezzasse, l'uomo rimarrebbe ancora più nobile di ciò che lo uccide, poiché sa di morire, mentre del vantaggio che l'universo ha su di lui, l'universo stesso non sa niente.

Ogni nostra dignità consiste dunque nel pensare.

Su ciò dobbiamo far leva, non sullo spazio e sulla durata, che non sapremmo colmare.

Sforziamoci dunque di pensare correttamente: ecco il principio della morale.

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L'eterno silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce.

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Consolatevi: non è da voi che dovete aspettarla, al contrario, l'attenderete non aspettandovi niente da voi.

XV bis - La natura è corrotta

[ N.d.R. A questo titolo, presente nell'elenco compilato da Pascal, non corrisponde alcun testo ].

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