Supplemento alla III parte |
Pare che si debba avere la contrizione non solo della colpa, ma anche della pena.
1. S. Agostino [ Serm. 351,3 ] afferma: « Nessuno desidera la vita eterna se non prova dispiacere di questa vita mortale ».
Ora, la mortalità della vita è una pena.
Quindi il penitente deve addolorarsi anche delle pene.
2. Citando S. Agostino [ De vera et falsa poenit. 14 ], sopra [ Sent., 4,16,1 ] abbiamo detto che il penitente deve addolorarsi di « essersi privato della virtù ».
Ma la privazione della virtù è un castigo.
Quindi la contrizione è un dolore che abbraccia anche le pene, o castighi.
Nessuno tiene ciò di cui si addolora.
Ora il penitente, stando all'etimologia del termine, « tiene la pena ».
Perciò non si addolora di essa.
Quindi la contrizione, che è il dolore del penitente, non ha per oggetto la pena.
La contrizione, come si è spiegato sopra [ q. 1, a. 1 ], implica l'idea di frantumazione di una cosa dura e integra.
Ora, questa integrità e durezza si riscontra nel male della colpa: poiché la volontà da cui esso procede, in colui che compie il male, rimane sulle proprie posizioni e non cede al precetto della legge.
E così il dispiacere di questo male viene detto metaforicamente contrizione.
Ma questa metafora non si può applicare al male della pena: poiché di per sé la pena dice già menomazione.
Quindi del male della pena si può avere il dolore, ma non la contrizione.
1. Secondo S. Agostino, la penitenza deve avere per oggetto questa vita mortale non a motivo della sua mortalità ( a meno che non si prenda il termine penitenza nel significato generico di dolore ), ma a motivo dei peccati a cui siamo trascinati dall'infermità di questa vita.
2. Il dolore col quale uno si rammarica della perdita della virtù per il peccato non è essenzialmente la contrizione stessa, ma ne è il movente o principio: come infatti ci si muove a desiderare una cosa per il bene che da essa ci si ripromette, così ci si muove ad addolorarsi di una data cosa per il male che ne è derivato.
Indice |