Francesco Fonti |
Nel dopoguerra si era creato un fruttuoso rapporto di collaborazione tra la Casa di Carità e la ditta Fonti: una folta schiera di operai e tecnici è passata direttamente dalla scuola di Corso Brin alla fabbrica di via Lorenzini, risolvendo situazioni familiari ed economiche non sempre facili ( la guerra aveva lasciato un Paese in rovina ).
Francesco Fonti era il cuore di un ingranaggio che permetteva ai ragazzi meno fortunati di accedere al mondo del lavoro.2
Più in generale ( come si deduce anche da alcune lettere di presentazione ), egli non si preoccupava soltanto di sostenere la scuola, ma di assicurare un posto agli allievi appena qualificati, verificando personalmente il numero degli assunti.
Era una carità compiuta a 360 gradi; non si offriva dunque solo un pezzo di carta bollata e poi "fuori dai piedi", ma anche un "accompagnamento" nel mondo della professione.
Ora, però, è meglio dare la parola a chi ha vissuto in prima persona queste esperienze di vita.
Sono un ex allievo della Casa di Carità, uno di quelli "storici".
La mia iscrizione risale al 1949, quando la scuola aveva ancora sede in via Feletto.
L'anno scolastico cominciò il 1° ottobre 1949.
Giusto una settimana fa ( febbraio 2003 ) sono passato davanti al vecchio edificio e l'ho trovato ancora intatto; la cosa mi ha fatto una certa impressione.
Proprio in quelle aule il Dott. Conti mi sottopose alla prima interrogazione: "chi era Giovanni Boccaccio, quali opere ha scritto?".
Io, omonimo dell'autore del Decamerone, non lo sapevo. Allora avevo 11 anni.
Sono stato uno degli ultimi a frequentare i due anni della cosiddetta scuola di avviamento professionale, che allora sostituiva, per coloro che non avevano modo di frequentare il Liceo, l'attuale scuola media.
In quel periodo ho conosciuto Domenico Conti, Leonardo Rollino, Claudio Brusa ( mio insegnante di disegno e religione ) e l'Ing. Cocco, un docente di matematica davvero superlativo.
Frequentavo i corsi diurni, abitavo a Volpiano e per arrivare a Torino dovevo sopportare non poche tribolazioni perché, nel 1949, viaggiare in treno era davvero un 'avventura.
Il mio primo contatto coi Fonti fu inizialmente limitato al loro nome, stampato sui banchi della scuola: per motivi d'orario non avevo modo di incontrare personalmente i tre frateili.
Per quanto ne so, infatti, a quel tempo si occupavano solo dei corsi serali e festivi.
I primi due anni di avviamento li ho seguiti in via Feletto, mentre i tre anni delle superiori li ho frequentati presso la nuova sede che avviò i corsi a partire dal 1950.
La svolta si verifica il 2 luglio 1954, quando andai a ritirare la pagella che sanciva il mio congedo dalla scuola.
Il Dott. Conti, che era stato mio insegnante di letteratura e di storia, allora era direttore della nuova sede e quindi la sua presenza al momento della consegna era giustificata; mi meravigliò invece di vederlo affiancato dal prof. Pietro Fonti che aveva presenziato, qualche giorno prima, al mio esame teorico e pratico di elettrotecnica, sebbene non fosse tra i membri della commissione.
Lo rivedevo ora, al momento della consegna della pagella, e mi domandavo quale potesse essere la causa di tanto interesse. ( Boccaccio )
Il mistero fu svelato dal Dott. Conti che, chiamato il ragazzo da parte, lo presentò a Pietro Fonti dicendogli: "se hai intenzione di lavorare presso la ditta Fonti, puoi visitarla e farti un'idea dell'ambiente".
L'alunno era assolutamente impreparato ad una simile offerta, ma ben presto capì la motivazione di tanta generosità: egli apparteneva al ristretto gruppo dei diplomati orfani ( il padre era morto nel 1946 ) e i dirigenti della scuola, sempre attenti agli sbocchi professionali dei propri ragazzi, non potevano certo trascurare le esigenze di queste persone meno fortunate ( in tutto tre ).
Boccaccio naturalmente accettò l'invito alla "visita guidata", pur non avendo la minima idea di cosa lo aspettasse.
Appena giunti in fabbrica, Pietro Fonti ( responsabile dell'officina ) gli presentò lo schizzo di una nuova ala dell'edificio in via costruzione, sottoponendo il giovane neo-diplomato ad un nuovo esame attitudinale: "Qui c'è da terminare il tale lavoro per la tale officina, tu dove installeresti i punti luce?"
Figuriamoci, portavo ancora i pantaloni corti … eppure, nonostante la mia inesperienza non mi feci impressionare.
Ho sempre avuto un 'indole tecnica - mentre aborrivo le materie umanistiche - e gli feci subito capire che questa specie di problemi suscitava il mio interesse.
I Fonti, infatti, dopo la partenza del sig. Gaidano, il disegnatore aziendale che era stato chiamato alla Fiat, cercavano un giovane in grado di sostituirlo.
Io facevo al caso loro: possedevo una discreta competenza sia nel disegno che nell'elettrotecnica e la cosa risultava molto comoda, visto che non potevano mantenere un elettricista aziendale a tempo pieno.
Fu allora che cominciò il mio rapporto con la famiglia Fonti: dico famiglia e non ditta, a ragion veduta.
Per quanto potessero essere seri e rigorosi, i fratelli Fonti hanno sempre mantenuto in azienda un clima familiare che ha certamente favorito il mio inserimento - sebbene io fossi un sedicenne alle prime armi e loro professionisti affermati di quarant'anni - e, ancora oggi, gliene sono grato.
Ho lavorato in ditta fino al '98, dunque per quasi mezzo secolo, il che dice molto sulla qualità del mio impiego. ( Boccaccio )
Il sig. Giovanni Obialero, oggi titolare della ditta Fonti, è un altro "allievo storico" della Casa di Carità.
La sua vicenda scolastica e professionale che lo portò, dopo anni di duro lavoro, ad ottenere sul campo quei riconoscimenti che le pressanti esigenze familiari gli avevano impedito di ottenere a scuola, descrive in maniera nitida la "situazione tipo" di quella generazione che pur tra mille traversie ha vissuto in prima linea l'età eroica della ricostruzione.
Una generazione duramente provata dalle conseguenze disastrose della guerra, ma mai abbandonata dalla speranza in un futuro migliore: temperamenti che a nostro avviso, aldilà delle polemiche ideologiche, furono descritti in modo efficace da Giovanni Guareschi nel suo "Don Camillo", piuttosto che dal piagnucoloso e disperante cinema "realista" di De Sica e compagni.
Io ho conosciuto Francesco Fonti nel 1948, quando ultimata la scuola media, su consiglio degli amici di Castelrosso, dove abitavo, sono venuto ad iscrivermi alla Casa di Carità di via Feletto.
Avevo presentato a Francesco Fonti, che allora dirigeva i corsi festivi, la mia pagella dove, pur non essendo contemplate le materie tecniche, erano riportati dei voti discreti, specie in latino che all'epoca veniva studiato con grande zelo.
Fonti ne ha preso atto e mi ha detto: "Va bene. Vorrà dire che comincerai dal secondo anno ".
Era presente anche mia madre che rimase molto impressionata dalla pacatezza, dalla serietà, dalla distinzione del direttore.3
Così ho frequentato tutti i corsi festivi dalla seconda alla quinta, per poi iscrivermi al corso di perfezionamento.
Il mio insegnante di Italiano, Pietro Fonti, aveva evidenziato, come altri, la mia attitudine per le materie umanistiche: "scrivi molto bene ", mi diceva.
Il fatto è che la maggior parte dei frequentanti arrivava dalla scuola di avviamento professionale; eravamo solo in due a poter "vantare " la licenza di scuola media.
Successivamente, io ed altri compagni, ci siamo presentati come privatisti all'Istituto Tecnico Plana per ottenere il diploma.
Ma le equazioni di "macchine " che ci avevano insegnato prima, non corrispondevano a quelle richieste dagli esaminatori, così ho dovuto rinunciare al titolo.
Non eravamo sintonizzati col programma dell'ultimo anno, ci mancavano dei "pezzi " e l'abbiamo pagata cara.
Terminati gli studi, ho fatto l' istruttore presso il laboratorio festivo di Aggiustaggio, sotto la direzione di Giovanni Fonti.
Io che alle medie ( allora riservate a chi intendeva proseguire gli studi superiori ) passavo le traduzioni di latino e le equazioni ai figli di sindaci ed avvocati, sono stato "costretto" a mettermi subito a lavorare e ad essere surclassato da questi "crapun", poi diventati dottori e professori, che, come diceva mio padre, "non sapevano fare una O con l'imbuto ".
Per capire le scelte di vita che spesso toccavano agli allievi della Casa di Carità, bisogna comprendere queste cose. ( Obialero )
L'avventura umana e professionale di Giovanni Obialero conobbe una svolta decisiva con l'ingresso nell'azienda di via Pesaro.
Qui il ragazzo di Castelrosso percorrerà tutte le fasi del "mestiere", vivendo in prima persona il travaglio economico del secondo dopoguerra che certo comportò fatiche e condizioni di lavoro oggi impensabili ( specie per dei minorenni ).
Tuttavia lo spirito di questi giovani - spalleggiati da imprenditori cristiani che, come i fratelli Fonti, conoscevano molto bene le asprezze del lavoro manuale - non si lasciò mai avvelenare dal rancore ideologico, ma anzi trasformò quelle esperienze di vita in un patrimonio di ricordi ed "exempla" ( come dicevano gli antichi Romani ) da trasmettere con orgoglio alle nuove generazioni.
Sono entrato nella ditta Fonti il 21 giugno del 1949, quando ancora l'azienda aveva sede in via Pesaro.
Appena terminato il secondo anno presso la Casa di Carità, Giovanni Fonti mi invitò a lavorare nell'officina meccanica ed io, ovviamente, accettai.
A quel tempo la ditta contava 15 dipendenti.
Dopo il trasferimento in via Lorenzini si toccarono le 80 unità.
L'officina meccanica, che era il mio reparto, arrivò a comprenderne 24.
Il periodo del trasloco da via Pesaro a via Lorenzini è stato molto travagliato.
Ricordo un episodio in particolare, che mise a dura prova le mie capacità.
Gli operai avevano caricato sul motocarro un tornio davvero imponente ( che ancora oggi conserviamo in ditta, sotto una tettoia ), comprato anni prima dall'azienda tranviaria, ma il conducente, dopo qualche chilometro, era finito in una buca della salita Dora.
Il peso del tornio aveva fatto inclinare il veicolo, spezzando alcuni ingranaggi.
Pietro Fonti mi aveva insegnato ad aggiustare la catena di trasmissione usando un fil di ferro e così, quando l'autista ci ha telefonato per dirci del motocarro con le ruote a mezz'aria e la catena rotta, mi hanno mandato in bicicletta sul posto col borsone degli attrezzi.
Intanto, si era formata una lunga fila di tram dietro al motocarro; il passaggio era bloccato proprio in corrispondenza delle rotaie.
Era estate, c'era un caldo infernale su quella strada, tutti i tranvieri mi stavano attorno fremendo d'impazienza: "ma non hai ancora finito?
Sbrigati … stai bloccando il traffico ". Io dicevo: "datemi il tempo di legare la catena! ", ma quelli non sentivano ragioni.
Ero sottoposto ad una tensione quasi insostenibile, ma poi tutto finì per il meglio.
Quel tornio lo usiamo ancora oggi per modellare i cerchi metallici degli attaccapanni.
Erano tempi difficili quelli del dopoguerra.
Oggi i tecnici girano sul furgone della ditta, allora io mi muovevo in bicicletta col carretto legato alla spalla da una bandoliera, e con quest'arnese andavo fino al magazzino Moscheni a ritirare i tubi per la ditta Fonti.
Qui trovavo il geometra Gili, di qualche anno più anziano, che simpaticamente, forte del suo diploma, prendeva in giro noi giovani tira-carretti.
Questo Gili dopo la chiusura di Moscheni ha fondato un 'impresa, la Generai Tubi, dalla quale ci riforniamo ancora adesso.
Ricordando quei giorni, qualche tempo fa, durante una telefonata di lavoro, ho chiesto di lui e mi hanno detto che è morto il Natale scorso, nel sonno.
Lo conoscevo dal 1949 … sono cose che fanno pensare. ( Obialero )
Obialero condusse un periodo di apprendistato alle dirette dipendenze di Claudio Brusa, il noto Catechista del Crocifisso.
Questi espose al ragazzo una serie di accorgimenti tecnici che la scuola non poteva certo insegnare.
Con lo stile che lo contraddistingueva Brusa non si limitò all'addestramento, ma invitò l'apprendista a prendere parte alle sue escursioni in montagna e si preoccupò di conoscere mamma e papa Obialero, visitando Castelrosso in bicicletta.
Ben presto il ragazzo riscosse la fiducia e l'apprezzamento dei fratelli Fonti che, già nel 1950, lo posero alla guida del reparto di meccanica, dopo l'ingresso di Brusa nel corpo docenti della Casa di Carità.
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2 | "Spesso, lo devo dire sinceramente, mi pongo una domanda: ma se queste persone non ci fossero state, il sottoscritto Giovanni Boccaccio, ex ragazzo orfano del dopoguerra, che fine avrebbe fatto? Sono stato beneficato due volte: la prima come alunno delia Casa di Carità, una scuola gratuita davvero unica nel suo genere in Italia, dove ho trovato un calore umano altrove impensabile; la seconda come padre. Mia figlia, che ora ha 27 anni, dopo il diploma di ragioneria ha avuto delle serie difficoltà a trovare un lavoro. Pietro Fonti mi consigliò di farle frequentare il corso di informatica che era stato appena avviato grazie al sostegno convinto di Francesco Fonti. Con quel diploma mia figlia ha ottenuto l'impiego. Quindi che dire? La missione intrapresa da Francesco Fonti e dai suoi fratelli è davvero un' "anomalia" nel panorama torinese. Io ho riflettuto spesso sulla natura del loro sacrificio e non riesco a trovare delle analogie. La rinuncia al mondo praticata dal religioso è cosa assai diversa. Molti ragazzi frequentano la Casa di Carità senza conoscere nulla di questa storia e non sanno di essere dei beneficati come me" ( Boccaccio ). |
3 | "Scorgevo sul suo volto una grande serenità, un'evidente pace interiore. Quando ti senti a posto con la tua coscienza, evidentemente possiedi e trasmetti, nell'espressione del viso e nel modo di fare, una serenità inferiore che non passa inosservata. Tutto questo traspariva dal suo portamento in una maniera tale da conquistarti." ( Bovero ) |