Di questo voi siete testimoni

Allora aprì loro la mente per comprendere le Scitture e disse loro; "così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.

Di questo voi siete testimoni". ( Lc 24,45-48 )

Il messaggio di Gesù è riassunto dalle parole che egli pronuncia all'inizio della sua missione: il Regno di Dio è qui, convertitevi e credete al Vangelo.

Il testo di Luca sopra citato pone, come conclusione di tutta l'opera di Gesù la promessa e l'impegno perché tutte le genti si convertano e così possano ottenere la salvezza.

Questo è il compito della Chiesa nel mondo e nella storia.

Possiamo affermare che Gesù ha vissuto secondo uno "stile" e secondo una "pratica" del tutto singolare.

Riassumerei così: nei confronti delle "classificazioni" che la cultura del suo tempi utilizzava nei confronti delle persone, Gesù non assume posizioni teoriche di contestazione; Gesù offre, in realtà, un comportamento preciso ed evidente: egli si incontra con tutti, a tutti lascia intravedere come raggiungibile e a disposizione la misericordia del Padre.

Tra questi gesti di "disponibilità", uno appare particolarmente espressivo del suo stile e delle sue scelte: rendersi commensale con gli uomini del suo tempo.

Ricordiamo che già nell'Antico Testamento, la convivialità si inscrive nella esperienza dell'alleanza tra Dio e il suo popolo.

Gesù si inserisce in questo modo di fare ed i Vangeli attestano tanti suoi incontri conviviali, tanti episodi di banchetti con le più diverse categorie di persone.

Di fronte a questo modo di comportarsi di Gesù, le reazioni e le interpretazioni furono varie e i Vangeli ce le fanno conoscere.

Per certi suoi contemporanei quei "pasti con gli uomini" dovettero significare che egli era "un mangione ed un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori"; più volte scribi e farisei dimostrano di ben comprendere il senso dato da Gesù a quei "conviti con i peccatori" e condannano tale "novità".

Da parte sua Gesù dichiara apertamente di fare quei gesti esattamente per manifestare la misericordia di Dio.

Diremmo: per togliere ogni sospetto su chi veramente è Dio …

Nei Vangeli è viva la "memoria" di questo e proprio tale "memoria" – basata sull'agire di Gesù stesso - fonda la Chiesa come "comunità per l'incontro e la riconciliazione".

Proprio tale "memoria" istituisce quel gesto ecclesiale che chiamiamo il "sacramento della riconciliazione".

Nella Chiesa, dunque, esiste un sacramento detto della "riconciliazione"; ma …, è proprio Gesù ad aver istituito questo sacramento?

Oppure, come tanti dicono, è una "invenzione della Chiesa?

Il modo d'essere e di fare di Gesù è un modo che rivela chiaramente la sua identità: quella di "colui che riconcilia".

Non può sfuggire a chi legge con attenzione e con umile fede il vangelo che Gesù inaugura una forma nuova di incontro tra la misericordia di Dio e l'uomo peccatore: viva appare nei vangeli la "memoria" di questo fatto, ma i diversi evangelisti – rispondendo probabilmente alle esigenze dei destinatari - approfondiscono, sviluppano ed esprimono il senso di quei gesti di Gesù, tutti rivelatori del "grande cuore" di Dio, ora pienamente manifestato in Cristo.

Matteo e Luca – oltre ad esprimere ampiamente il tema penitenziale, quello della conversione, quello della misericordia per l'uomo che "diviene" cristiano - affrontano, con diversità di modi, il problema con cui è confrontata una comunità di cristiani allorché vive l'esperienza del "persistere del peccato": escludere i peccatori, ovvero rivolgere anche a loro l'invito alla penitenza?

Mi sembra che proprio l'insistenza sul fatto che Gesù "mangia con i peccatori", l'insistenza su questo modo d'agire di Gesù che sconvolge tutte le "classificazioni" permetta di intravedere una comunità che, incontrando a banchetto i peccatori ( tutti i peccatori ), li riammette nella comunità e così li fa incontrare con la misericordia di Dio in Cristo.

I vangeli, infine, permettono di raggiungere un livello profondo per quanto attiene al fatto dell'incontro di Dio con gli uomini e della loro riconciliazione con lui: intendo riferirmi alla esplicita comprensione di Gesù quale unico e definitivo mediatore di tale incontro e riconciliazione, nel ruolo già delineato dal profeta Isaia nei testi che presentano la singolare figura del "Servo di Dio"; ruolo da Gesù scelto, applicato a sé, da lui portato a compimento.

In questa prospettiva la Chiesa – in modalità diversificate a seconda dei diversi vangeli- appare chiamata ad essere per tutti luogo in cui è annunciata e realizzata la penitenza e la riconciliazione.

Proseguendo la nostra riflessione vediamo ora L'eredità e la missione lasciata da Gesù agli apostoli

Gesù di Nazaret ha predicato la conversione al Regno, cioè l'accoglienza della misericordiosa iniziativa di Dio che salva e riconcilia; ha rivelato ai poveri ( i lontani, i peccatori ) la "lieta notizia" della misericordia di Dio; con gesti concreti ha manifestato la possibilità per tutti di essere ammessi ( ri-ammessi ) alla comunione con Dio attraverso la sua persona e la sua opera.

Agli apostoli ed ai discepoli, continuatori della sua opera nel mondo, Gesù ha dato per missione e per eredità di annunciare - attuare questo messaggio di misericordia e di comunione con Dio in Cristo.

I vangeli ci testimoniano innanzitutto il fatto del "mandato" conferito da Gesù.

Organizzando poi quanto di Gesù veniva ricordato e predicato – a proposito della misericordia di Dio e dell'urgenza della conversione - gli stessi vangeli mettono in luce quanto di più originale e vivo veniva ancora presentato nella Chiesa apostolica.

L'intenzione originaria e chiara di Gesù, mai dimenticata e trascurata, ininterrottamente praticata dalla Chiesa, ha il carattere di un "appello" e di un "mandato" che fonda e costituisce l'intera realtà della Chiesa.

Proprio l'obbedienza da parte della Chiesa al "mandato" ( al compito ) che viene da Gesù stesso, aiuta la Chiesa a comprendere ed a realizzare in concreto quel "potere di rimettere i peccati" di cui Gesù l'ha investita; e la Chiesa – nel corso dei secoli - verrà realizzando la "pratica della penitenza e della riconciliazione in favore dei battezzati peccatori" e la realizzerà in modalità diverse secondo diverse esigenze.

Sì, l'evento della perenne fedeltà di Dio che trova nel Figlio suo la rivelazione piena – pienezza che supera ogni peccato ed infedeltà dell'uomo e dona al cuore convertito e credente lo Spirito Santo vivificante e buono - accade proprio ogni volta che il sacramento è celebrato; lì, davvero, è detto e fatto l'evento, e l'accoglienza, l'adesione, l'attuazione del dono da parte dell'uomo penitente …

Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: "questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me".

E dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi". ( Lc 22,19-20 )

Siamo di fronte al racconto della cena.

Ora, il primo e fondamentale dato che ci viene offerto, e che c'introduce al cuore dell'intenzione istitutrice di Gesù, è che la cena – e quanto essa anticipa e dischiude della croce – è racchiusa e avvolta dallo sguardo d'amore, per l'uomo, di quel Dio che Gesù ha vissuto e testimoniato al mondo come l'Abbà.

È Dio, dunque, il Padre il protagonista di ciò che sta per accadere.

Come lo è stato, sin all'inizio, quando Gesù ha preso ad annunciare la "buona notizia": « il tempo è compiuto e il Regno di Dio sta venendo; convertitevi e credete nel Vangelo » ( Mc 1,15 ).

La morte di croce, verso cui Gesù sta andando, non è un incidente di percorso, un fuori d'opera imprevisto, la fine e il fallimento di tutto.

Nella paradossalità tragica e oscura che la investe, l'enigmatica morte di Gesù è in tutto avvolta e penetrata dall'amore del Padre.

Essa, anzi, è veramente e in modo definitivo il luogo e l'ora dell'accadimento del Regno che viene a noi, attraverso il Figlio.

Tutto è sotto lo sguardo di misericordia dell'Abbà, dunque, tutto è disposto dal e nel suo disegno di salvezza che si dispiega nel Figlio.

Niente sfugge alla forza redentrice e trasformatrice del suo amore.

Ma il disegno diventa storia, appunto, grazie all'adesione del Figlio che si dispone a vivere il sacrificio di sé, sino alla morte, entro la trama insensata e peccaminosa di ciò che gli è ingiustamente e insensatamente inflitto: « non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu » ( cfr. Mc 14,36 ).

La cena è radicalmente eucaristia, ringraziamento e lode, eucaristia rivolta dal Figlio e nel Figlio al Padre perché il Figlio, sulla croce, adempie infine e definitivamente il disegno di salvezza del Padre.

La coscienza cristiana delle origini, e l'ininterrotta tradizione della Chiesa, fissando questo nome – eucaristia –, tra i molti possibili, per designare il memoriale della cena celebrato dai discepoli in memoria del Maestro e Signore, con l'infallibile senso soprannaturale della fede, ne coglie ed esprime l'ultima verità.

Di qui, senza soluzione di continuità, un secondo dato, altrettanto radicale e decisivo.

Se il Padre è l'indiscusso regista del dramma di salvezza che sta per consumarsi – regista quant'altri mai presente e piegato con tutto se stesso a seguire il dipanarsi della scena, nell'intenzionalità premurosa e discreta che ognuno degli attori faccia al meglio la sua parte –, il Figlio, Gesù, ne è il protagonista.

E ciò significa, innanzi tutto, che egli è l'attore libero, consapevole e responsabile, di ciò che sta accadendo.

La libertà di Gesù, nell'aderire, meglio ancora, nel far accadere la volontà d'amore del Padre come storia, è il cuore pulsante della cena.

E dunque della croce.

Senza di essa nulla avrebbe senso.

La libertà di Gesù, di fronte al Padre, meglio sotto lo sguardo d'amore del Padre, nell'intima unione d'amore e di reciproca intesa con lui, se, da un lato, rivela per sempre il volto e il cuore di Dio – in lui non c'è tenebra, né doppiezza, né rivendicazione, né giustizia vendicativa –, dall'altro, penetra con la luce dell'amore, che è libertà, e della libertà che è amore, la tenebra anche più fitta e impenetrabile del cuore umano.

« Prese, spezzò, diede … »

In questi gesti di Gesù, egli, il Figlio dell'uomo che è il Figlio di Dio, espone se stesso, si espone.

Se lo "spezzare" allude, da un lato, al realismo – cruento – della dedizione di sé, che non è un fatto idealistico e velleitario, ma ha la concretezza del corpo straziato sulla croce e del sangue da essa versato, e, dall'altro, alla logica distributiva implicita in questo gesto, per cui ciascuno è oggetto e termine inteso e voluto di tale gesto; il "dare" esibisce la logica profonda e intenzionale di Gesù.

Egli si dà.

E cioè, non solo, liberamente, offre il suo corpo, se stesso, rivelando così, all'estremo, quanto già ha donato con la parola, lo sguardo, i gesti.

Ma, con ciò stesso, si comunica e si trasferisce in chi l'accoglie.

Per questo, il "diede loro" si esprime e si traduce nel "prendete".

La dedizione si realizza e compie quand'è assunta e nella misura in cui è assunta.

Con questa parola – "prendete" – i discepoli sono costituiti come discepoli: perché coinvolti e abilitati a far vivere in sé il Figlio dell'uomo che è il Figlio di Dio.

La dedizione, in tal modo, suscita la convivialità e la fraternità, che tale è e diviene se sempre di nuovo riscopre e rivive la sua radice e la sua forma nella dedizione di sé: « egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ).

È questo che Gesù « ha imparato dal Padre » ( cfr. Gv 6,45 ): « Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio di avere la vita in se stesso » ( Gv 5,26 ).

La cena – e la croce – sono la comunicazione di questa dedizione che ha sua sorgente nel Padre, attraverso il Figlio – che dal Padre anch'egli ha in sé la vita –, a chi lo accoglie riconoscendolo e accogliendolo per chi egli è: il Figlio.

Mons Alceste Catella