Il paralitico sanato
Questo brano dell'evangelista Matteo è inserito all'interno di una sezione ( cap. 8 e 9 ) in cui troviamo raccolti molti miracoli di Gesù.
A differenza di Marco, la cui narrazione ha seguito un ordine più prettamente cronologico, Matteo colloca i miracoli all'interno di un'unità letteraria.
Il suo scopo, infatti, non è di scrivere una biografia di Gesù, ma di presentare una catechesi.
Egli rielabora quindi il materiale a sua disposizione, formando tre unità di tre elementi ciascuna, il cui scopo è di presentare Gesù come il medico, il guaritore dell'umanità.
All'interno di questa sezione, il nostro brano occupa il posto centrale.
Su di esso siamo invitati a posare lo sguardo, per comprendere il senso profondo dei miracoli di Gesù e della sua azione di guaritore.
Come vedremo, infatti, tutto il testo è un invito ad andare oltre, a non fermarsi su di una realtà unicamente materiale, per cogliere invece che la vera guarigione, la vera cura è più totale rispetto al dono, pur così eccezionale, del riacquistare la capacità motoria.
É tutta la persona, infatti, che qui viene curata: la persona nella sua totalità di spirito, anima e corpo, quale ce la presenta l'antropologia paolina ( cf 1 Ts 5,23 ).
Dopo aver collocato l'avvenimento nel suo contesto geografico – il ritorno a Cafarnao, divenuta orma sua città di adozione – il testo descrive la scena in cui alcuni uomini portano a Gesù un paralitico disteso sul suo letto.
Ci troviamo dunque davanti a un individuo immobilizzato, impossibilitato nel provvedere a se stesso, privo di quella capacità così fondamentale per l'essere umano, che è il poter gestire la propria vita in modo autonomo.
Di fronte a questa scena Matteo mette in risalto, come prima azione da parte di Gesù, il vedere.
Notiamo subito, però, che ciò che egli vede non è solo – o prima di tutto – la sofferenza dell'uomo.
Ad essa Gesù non è certo insensibile, altrimenti non compirebbe il miracolo.
La sua percezione della realtà è però più vasta; il suo sguardo, infatti, si ferma anche sulla fede degli uomini che hanno condotto da lui il malato.
Subito dopo, quasi in forma parallela, il brano sottolinea il conoscere.
Anche qui egli non si limita a individuare le reazioni manifeste degli scribi, ma intuisce il loro pensiero.
La comprensione della realtà da parte di Gesù manifesta una profondità a noi sconosciuta: essa ci rivela come lo sguardo di Gesù vada ben al di là di ciò che può essere percepito dai sensi e sia capace di penetrare i cuori, di scorgere le intenzioni profonde, i giudizi severi, ingiusti ma inespressi e formulati nel segreto dell'interiorità, i generosi desideri di bene per gli altri.
Lo sguardo di Gesù è più ampio del nostro, abituato a giudicare severamente e a etichettare gli altri seguendo criteri rigidi e ingiusti.
Esso, infatti, non proviene solo dalla percezione, che osserva e si lascia colpire dai dati della realtà; è più profondo perché ha origine nel cuore, un cuore misericordioso, abitato dall'amore e che dunque non può limitarsi a cercare un bene parziale – la salute fisica – ma, insieme a questa, deve aspirare a una guarigione piena e totale.
La misericordia, infatti, è sempre accompagnata da uno sguardo diverso: uno sguardo più ampio e profondo, che non si ferma alle apparenze, che si interroga e rifugge dalle conclusioni affrettate, basate su giudizi superficiali e di parte.
Tale è, invece, il giudizio degli scribi.
Certo, la loro reazione è comprensibile: il perdono dei peccati è prerogativa di Dio ed è dunque naturale che, di primo acchito, la risposta di Gesù li trovi scandalizzati.
Essi però non si lasciano interrogare dalla novità apportata dal Cristo e nemmeno – sembra dirci il testo, che sottolinea la reazione delle folle, ma non la loro – dal segno della guarigione, che accompagnerà le sue parole.
Mentre il cuore di Gesù si rivela misericordioso, attento al bene, desideroso di donare una salvezza che va oltre i desideri stessi del paralitico e dei suoi accompagnatori, quello degli scribi risulta gretto e insensibile.
Al centro della loro attenzione notiamo la tutela della tradizione, dello status quo, la protezione di se stessi e la chiusura all'altro.
Il loro cuore è insensibile di fronte alla sofferenza del malato, incapace di gioire per la sua guarigione, disinteressato alla sua storia e al suo futuro, incapace di cogliere la bellezza del gesto di coloro che gli sono amici.
È il tipico cuore di pietra a cui spesso fa riferimento la Scrittura, così diverso da quello misericordioso e tenero di Gesù.
É un cuore così fossilizzato, che rifiuta di interrogarsi, di mettersi in discussione, di aprirsi alla novità che il Cristo viene a portare.
Il parlare con se stessi – che non a caso il testo mette in risalto – invece di entrare in dialogo, di interrogarsi, di mettersi in discussione, rivela la durezza di un cuore, che l'attesa costante e desiderosa del Messia avrebbe invece dovuto aprire alla speranza e alla compassione.
Gesù, al contrario, comprende il dramma profondo dell'uomo senza giudicarlo; egli vede e agisce.
La misericordia, infatti, non è puro sentimento, non è semplice commozione.
"Il bene è sempre concreto", scrive un filosofo.
Il bene, l'amore che non giudica, non rimprovera, non pretende, vive la necessità interiore di operare a favore dell'altro, di risollevarlo dal male, di offrirgli quella pienezza di vita che rappresenta lo scopo dell'incarnazione del Verbo: "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" ( Gv 10,10 ), dice il buon pastore al suo gregge.
In Gesù questo bisogno di agire a favore dell'uomo, le cui radici affondano nel suo cuore misericordioso, va sempre "oltre" la necessità immediata o la richiesta di cui è stato fatto oggetto.
Qui la bontà di Gesù si esprime nel dono offerto e nel modo in cui lo offre.
Il dono è rappresentato dal perdono dei peccati.
L'evangelista usa la forma passiva, per mettere in risalto come questo dono abbia un'origine ben più profonda rispetto a qualsiasi altro dono umano: esso, infatti, proviene da Dio, l'unico che può perdonare i nostri peccati.
Dall'alto, da Dio, dice san Giacomo, provengono "ogni buon regalo e ogni dono perfetto" ( Gc 1,17 ).
Ognuno di questi doni ha a che fare con la vita, che è il dono assoluto di Dio, quella vita che nell'incarnazione del Figlio si è resa visibile ( cf 1 Gv 2 ).
Nelle sue innumerevoli sfaccettature, la vita si esprime anche come perdono; grazie ad esso possiamo così instaurare una relazione completamente nuova con Dio, con gli altri, con la creazione, ma anche con noi stessi.
Il perdono infatti, ci fa uscire dalle nostre percezioni scisse della realtà, che ci inducono a guardare a noi stessi in modo parziale o distorto.
Senza la consapevolezza di essere perdonati, noi ci vediamo unicamente peccatori, rischiando così di lasciarci sopraffare dalla consapevolezza del nostro peccato; oppure posiamo su noi stessi uno sguardo intriso dell'irrealistica indulgenza di chi si illude di non essere toccato dal male e dalla fragilità, per finire poi di scontrarci costantemente con essi.
Anche il modo in cui Gesù offre il suo perdono è però manifestazione della sua infinita bontà.
La misericordia, infatti, non solo non giudica e non applica categorie rigide e severe nel considerare la condizione o l'agire degli altri; essa si lascia anche toccare dalla sofferenza altrui.
La misericordia è empatica, "sente con" l'altro, al di là di ogni differenza e distanza tra i soggetti coinvolti nella relazione, come è appunto del rapporto tra il paralitico, peccatore come ognuno di noi, e il Figlio di Dio, il quale non è mai stato sfiorato dal peccato.
Per questo motivo la prima parola che Gesù rivolge all'uomo è un incoraggiamento.
Egli – proprio perché il suo cuore misericordioso penetra nelle profondità dell'interiorità umana – sa che cosa significa rimanere immobili, dipendere dagli altri, soffrire fisicamente, non poter gestire la propria vita.
Egli però conosce ancor più profondamente – non per esperienza, ma per conoscenza d'amore – che cosa vuol dire essere abitati dal peccato.
Per questo egli opera il bene a quel livello più profondo, sapendo che la guarigione dello spirito porterà con sé anche quella dell'anima.
Nell'incoraggiare, Gesù si rivolge al paralitico chiamandolo "figlio".
Non è certo un appellativo scelto a caso.
Esso, al contrario, rivela l'origine profonda dell'azione di Gesù, che è proprio il suo cuore misericordioso.
La Scrittura, infatti, ci rivela che la misericordia esprime sia la tenerezza materna, le "viscere" d'amore di una mamma, sia l'amore paterno, fatto di forza e di giustizia.
Per il padre e per la madre l'altro è sempre "figlio", oggetto delle proprie preoccupazioni, della cura, della vigilanza e del desiderio di bene.
Così è ogni uomo bisognoso di salvezza per Gesù.
Il brano termina con la glorificazione di Dio da parte della folla, stupita per il potere che Egli ha conferito agli uomini.
Questo potere, con la venuta del Cristo, è, infatti, donato anche a noi: anche noi, chiamati a una riconciliazione continua, possiamo perdonarci reciprocamente. In questo modo la forza guaritrice di Gesù può circolare anche nel suo corpo, che è la Chiesa.
Ogni suo membro, infatti, è un paralitico, immobilizzato nel suo agire, incapace di camminare per raggiungere la casa di Dio a cui è chiamato.
Attraverso la riconciliazione e il perdono reciproci, possiamo però restituirci l'un l'altro la capacità di realizzare la nostra vocazione di figli di Dio in cammino verso il Regno.
Anna Bissi