9 aprile 2000
Omelia del Card. Roger Etchegaray - Basilica San Giovanni in Laterano
Con quale gioia - direi francescana - accolgo il vostro pellegrinaggio giubilare a san Giovanni in Laterano!
Senza dubbio, perché eravate ieri ad Assisi, in particolare alla Porziuncola, questo luogo sacro che ha anticipato nella Chiesa la serie dei perdoni giubilari.
Senza dubbio, perché qui, sede del Vescovo di Roma, il Poverello ha ricevuto dopo una visione del Papa la consacrazione della sua avventura evangelica.
Senza dubbio, e soprattutto, perché la famiglia francescana, per le sue origini, porta in sé stessa e come connaturati i tratti più salienti di ogni passo giubilare.
Il radicalismo del ritorno al Vangelo vissuto da san Francesco e santa Chiara fa di voi i protagonisti del Giubileo.
In questo senso, la vostra responsabilità giubilare è alla misura della vostra vocazione spirituale: le esigenze di un Anno Santo che Giovanni Paolo II non cessa di promuovere devono trovare in voi le risposte più sollecite, più profonde.
Stasera, non trattengo della vostra famiglia che il segno che mi sembra meglio vi definisca e meglio raggiunga lo sforzo giubilare della Chiesa: la fraternità.
Al seguito di Cristo, inviato dal Padre per servire e non per essere servito ( Mt 20,28 ), educare l'umanità ad una vita veramente fraterna fu il sogno folle, il progetto audace, il programma ostinato di Francesco e dei suoi primi compagni.
La loro vita brulica di esempi e di fioretti che testimoniano come la fraternità evangelica, lungi dall'essere un'utopia, può essere vissuta giorno per giorno: uomini di condizione diversa che abitano insieme, liberi da ogni rapporto di dominio.
Ma nella fraternità che essi provano, san Francesco introduce il senso della responsabilità per l'esigenza di ciò che chiama una "reciprocità di servizi" e anche una "mutua obbedienza" fino in seno ad una comunità religiosa.
Il contatto immediato con il Vangelo, un Vangelo applicato "alla lettera e senza glossa", ha provocato attorno a san Francesco un'esplosione di fraternità contagiosa e di gioia vibrante.
La fraternità francescana è apparsa come l'immagine profetica di un'umanità in cui tutti si riconoscono pienamente fratelli; con essa il Vangelo ha ritrovato un soffio messianico, giubilare, è ridiventato la speranza del mondo.
San Francesco non si è accontentato di scrivere una lettera di pace "a tutti gli abitanti del mondo" o di correre audacemente verso il Sultano, a mani vuote in piena Crociata armata.
Niente dà tanto la misura del suo orizzonte fraterno che il Cantico delle Creature che allarga la fraternità umana fino ad una fraternità cosmica, rivelando non solo un sentimento ecologico ma una reale consanguinità con tutta la Creazione.
E oggi, all'alba di un nuovo millennio, l'avventura francescana ha ancora un senso, ha ancora qualche probabilità di successo?
Mai la vera fraternità è stata al tempo stesso tanto auspicata e così poco vissuta.
Mai il carisma francescano è stato più attuale per offrire il Cristo totale a un mondo scoppiato che ha paura di una fraternità solidale di tutti gli uomini senza esclusione.
A fraternità universale, solidarietà universale e non selettiva secondo i propri interessi o comodità: si scelgono gli amici ma non i fratelli e le sorelle, ciò che rende, per il suo carattere indelebile, la fraternità assai onerosa.
Non vi è alcuna ricetta, alcun piano che possa assicurare la solidarietà con tutti.
Ma la Chiesa offre una chiave che ci introduce alla solidarietà universale, paradossalmente, attraverso una solidarietà particolare la più sorprendente e la più pressante: la solidarietà con i poveri.
Cristo ne aveva fatto la chiave d'oro del Vangelo nella sua missione inaugurata a Nazareth ( Lc 4,16-21 ) e nella sua parabola del giudizio finale ( Mt 25,39-46 ) ed è con questa chiave che il Poverello ha letto la sua propria vita e quella di tutta la Chiesa.
Non solo l'incontro del povero ma la condivisione della vita del povero risvegliato e garantiscono la nostra disponibilità ad essere solidali con tutti: chi non conosce il morso della povertà nella sua carne rischia di addormentarsi in un conforto solitario, di non potere più affinare lo sguardo per scoprire nuovi spazi aperti ad una solidarietà continuamente elargita.
Così vita fraterna e vita povera si spalleggiano vicendevolmente al punto di essere insieme la grande leva capace di sollevare e issare l'umanità intera fino a una vita di giustizia e di pace.
Così è reso meglio visibile uno dei grandi segni indicati da Giovanni Paolo II per il Giubileo: il segno della carità ( cfr Incarnationis mysterium, n. 12 ).
La grande lezione che ci dà san Francesco è di avere illustrato nella sua vita il comandamento evangelico dell'amore dal duplice volto: amare Dio e il suo prossimo e testimoniare che Dio e il prossimo non sono intercambiabili.
Amare i propri fratelli non è una semplice ripetizione dell'amare Dio.
Amare i propri fratelli è più di amare Dio nei propri fratelli, è amare l'uomo trovando nell'amore di Dio per l'uomo il modello e il fondamento.
Ogni uomo è mio fratello, mia sorella e questo uomo deve essere amato per se stesso, non deve essere confuso con Dio.
Cari pellegrini della famiglia francescana, mi fermo lì con la mia piccola omelia, perché so che il santo di Assisi non cessa di trascinarvi lui stesso sui cammini del Grande Giubileo, di farvi respirare a pieni polmoni il Vangelo della fraternità e della riconciliazione.
La grazia francescana è di irradiare il giubilo, il vero giubilo nato dal perdono che diamo ai nostri fratelli.
Il mondo è un immenso campo di lotta per la potenza e la ricchezza.
E le troppe sofferenze e atrocità gli nascondono il volto di Dio.
Un Giubileo che affonda le sue radici nelle piaghe gloriose del Cristo di san Damiano deve scaturire tutto grondante della "gioia perfetta".
Essere gioiosi è una maniera di amare i fratelli.
La gioia è proprio un atto fraterno, un atto comunitario, un atto missionario.
Con Giovanni Battista, la Chiesa vi ripete: "Convertitevi e credete alla Buona Novella".
Così san Francesco accolse il Vangelo come la novella più straordinaria e più semplice.
Sì, "convertiamoci e crediamo alla Buona Novella".