Confessioni |
O speranza mia fin dalla mia giovinezza, dov'eri per me, dove ti eri ritratto?
Non eri stato tu a crearmi, a farmi diverso dai quadrupedi e più sapiente dei volatili del cielo?
Ma io camminavo fra le tenebre e su terreno sdrucciolevole; ti cercavo fuori di me e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore.
Ormai avevo raggiunto il fondo del mare: come non perdere fiducia, non disperare di scoprire più il vero?
Già mi aveva raggiunto mia madre, che, forte della sua pietà, m'inseguì per terra e per mare, traendo sicurezza da te in ogni pericolo.
Così anche nei fortunali marini confortava gli stessi marinai, da cui abitualmente chi attraversa per la prima volta gli abissi riceve conforto nella sua paura, promettendo loro un arrivo sicuro alla meta, poiché tu glielo avevi promesso in una visione.
Mi trovò in grave pericolo. Non speravo più di scoprire la verità.
Tuttavia, quando la informai che, pur senza essere cattolico cristiano, non ero più manicheo, non sobbalzò di gioia come alla notizia di un avvenimento imprevisto: da tempo era tranquilla per questa parte della mia sventura, ove mi considerava come un morto, ma un morto da risuscitare con le sue lacrime versate innanzi a te e che ti presentava sopra il feretro del suo pensiero affinché tu dicessi a questo figlio della vedova: "Giovane, dico a te, alzati", ed egli tornasse a vivere e cominciasse a parlare, e tu lo restituissi a sua madre.
Nessuna esultanza scomposta commosse dunque il suo cuore alla notizia che quanto ti chiedeva ogni giorno, fra le lacrime, di compiere, si era compiuto: se non avevo ancora colto la verità, ero però stato ormai tolto dalla menzogna.
Fermamente sicura, anzi, che avresti concesso anche il resto, poiché tutto le avevi promesso, mi rispose con assoluta pacatezza e il cuore pieno di fiducia: "Credo in Cristo che prima di migrare da questo mondo ti avrò veduto cattolico convinto".
Questa la risposta che diede a me; ma a te, fonte di misericordie, diede più intense preghiere e lacrime, affinché affrettassi il tuo aiuto e illuminassi le mie tenebre.
Con maggior fervore correva anche in chiesa, ove pendeva dalle labbra di Ambrogio, fonte di acqua zampillante per la vita eterna.
Amava quell'uomo come un angelo di Dio da quando aveva saputo che per suo merito ero arrivato frattanto a ondeggiare almeno nel dubbio, a questo varco obbligato e più pericoloso, come sono gli attacchi che i medici chiamano critici, del mio transito, per lei sicuro, dalla malattia alla salute.
Un giorno mia madre, secondo un'abitudine, che aveva in Africa, si recò a portare sulle tombe dei santi una farinata, del pane e del vino.
Respinta dal custode, appena seppe che c'era un divieto del vescovo, lo accettò con tale devozione e ubbidienza, da stupire me stesso al vedere la facilità con cui condannava la propria consuetudine anziché discutere la proibizione del vescovo.
Il suo spirito non era soffocato dall'ebrietà né spinto dall'amore del vino a odiare il vero, mentre i più fra i maschi e le femmine all'udire il ritornello della sobrietà vengono assaliti dalla nausea che prende gli ubriachi davanti a un bicchiere d'acqua.
Quando portava lei il canestro con le vivande rituali da distribuire agli intervenuti dopo averle assaggiate, poneva davanti solo un calicetto di vino diluito secondo le esigenze del suo palato piuttosto sobrio e per riguardo verso gli altri; e se erano molte le sepolture dei defunti che così si volevano onorare, portava intorno quell'unico, piccolo calice da deporre su ogni tomba, e in quello condivideva a piccoli sorsi con i fedeli presenti un vino non solo molto annacquato, ma anche molto tiepido.
Alle tombe infatti si recava per devozione, non per diletto.
Perciò, una volta informata che il predicatore illustre, l'antesignano della devozione aveva proibito di eseguire quelle cerimonie anche sobriamente, per non dare ai beoni alcuna occasione d'ingurgitare vino e per la grande somiglianza di quella sorta di parentali con le pratiche superstiziose dei pagani, se ne astenne ben volentieri.
In luogo di un canestro pieno di frutti terreni imparò a portare alle tombe dei martiri un cuore pieno di affetti più puri.
Così dava ai poveri quanto poteva, anche se a celebrarsi era la comunione del corpo del Signore: perché i martiri s'immolarono e furono coronati a imitazione della passione di lui.
Eppure credo, Signore Dio mio, ed è in proposito la mia intima convinzione davanti ai tuoi occhi, che probabilmente mia madre non si sarebbe arresa con tanta facilità a troncare le sue usanze, se la proibizione fosse venuta da una persona che non avesse amato come Ambrogio; e Ambrogio lo amava soprattutto a cagione della mia salvezza.
Lui poi amava mia madre a cagione della sua vita religiosissima, per cui fra le opere buone con tanto fervore spirituale frequentava la chiesa.
Spesso, incontrandomi, non si tratteneva dal tesserne l'elogio e dal felicitarsi con me, che avevo una tal madre.
Ignorava quale figlio aveva lei, dubbioso di tutto ciò e convinto dell'impossibilità di trovare la via della vita.
Non t'invocavo ancora con gemiti affinché venissi in mio aiuto.
Il mio spirito era piuttosto attratto dalla ricerca e mai sazio di discussioni.
Lo stesso Ambrogio era per me un uomo qualsiasi, fortunato secondo il giudizio mondano perché riverito dalle massime autorità; l'unica sua pena mi sembrava fosse il celibato che praticava.
Delle speranze invece che coltivava, delle lotte che sosteneva contro le tentazioni della sua stessa grandezza, delle consolazioni che trovava nell'avversità, delle gioie che assaporava nel ruminare il tuo pane entro la bocca nascosta del suo cuore, di tutto ciò non potevo avere né idea né esperienza.
Dal canto suo ignorava anch'egli le mie tempeste e la fossa ove rischiavo di cadere.
Non mi era infatti possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo.
Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell'angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca.
I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l'alimento indispensabile, o l'anima con la lettura.
Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano.
Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l'ingresso e non si usava preannunziargli l'arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente.
Ci sedevamo in un lungo silenzio: e chi avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa?
Poi ci allontanavamo, supponendo che aveva piacere di non essere distratto durante il poco tempo che trovava per ricreare il proprio spirito libero dagli affari tumultuosi degli altri.
Può darsi che evitasse di leggere ad alta voce per non essere costretto da un uditore curioso e attento a spiegare qualche passaggio eventualmente oscuro dell'autore che leggeva, o a discutere qualche questione troppo complessa: impiegando il tempo a quel modo avrebbe potuto scorrere un numero di volumi inferiore ai suoi desideri.
Ma anche la preoccupazione di risparmiare la voce, che gli cadeva con estrema facilità, poteva costituire un motivo più che legittimo per eseguire una lettura mentale.
Ad ogni modo, qualunque fosse la sua intenzione nel comportarsi così, non poteva non essere buona in un uomo come quello.
Certo è che non mi era assolutamente possibile interrogare quel tuo santo oracolo, ossia il suo cuore, su quanto mi premeva, bensì soltanto su cose presto ascoltate.
Invece le tempeste della mia anima esigevano di trovarlo disponibile a lungo, per riversarsi su di lui; ma invano.
Ogni domenica lo ascoltavo mentre spiegava rettamente la parola della verità in mezzo al popolo, confermandomi sempre più nell'idea che tutti i nodi stretti dalle astute calunnie dei miei seduttori a danno dei libri divini potevano sciogliersi.
La scoperta poi da me fatta, che i tuoi figli spirituali, rigenerati per tua grazia dalla maternità della Chiesa cattolica, non intendevano le parole ov'è detto che l'uomo fu da te fatto a tua immagine nel senso di crederti e pensarti rinchiuso nella forma di un corpo umano, per quanto non riuscissi a scorgere neppure debolmente e in un enigma come fosse una sostanza spirituale, mi fece arrossire gioiosamente di aver latrato per tanti anni non già contro la fede cattolica, bensì contro fantasmi creati da immaginazioni carnali.
Temerario ed empio ero stato, perché avevo asserito, accusando, cose che avrei dovuto asserire indagando.
Tu, altissimo e vicinissimo, remotissimo e presentissimo, non fornito di membra più grandi e più piccole, ma esistente per intero in ogni luogo e in nessuno, facesti però l'uomo a tua immagine senza possedere affatto questa nostra forma corporale; ed ecco l'uomo esistere in un dato luogo dalla testa ai piedi.
Ignorando in quale modo l'uomo fosse tua immagine, avrei dovuto, bussando, controllare in quale modo bisognava credervi, non, burlando, contrastare, quasi che vi si credesse come io mi immaginavo.
Tanto più acuto era dunque nel mio intimo l'assillo di conoscere cosa dovevo ritenere per certo, quanto più mi vergognavo di essermi lasciato illudere e ingannare così a lungo da una promessa di certezza, e di aver proclamato per certo un grande numero di dottrine incerte, come un fanciullo impetuoso nei suoi errori.
La fallacia di quelle dottrine mi apparve più tardi; fin d'allora però ebbi la certezza della loro incertezza, benché un tempo le avessi tenute per certe, quando sferravo alla cieca attacchi e accuse contro la tua Chiesa cattolica, ignaro che insegna la verità, ma non insegna le dottrine di cui l'accusavo gravemente.
Di qui la mia confusione, la mia conversione e la mia gioia, Dio mio, perché la tua unica Chiesa, corpo del tuo unico Figlio, nel cui grembo mi fu inoculato, infante, il nome di Cristo, non si compiaceva di futilità infantili, e il suo insegnamento sicuro non ti confinava, creatore di tutte le cose, in uno spazio fisico, sia pure altissimo ed ampio, ma tuttavia limitato in ogni direzione dal profilo delle membra umane.
Gioivo pure che la lettura dell'antica Legge e dei Profeti mi fosse proposta con una visuale diversa dalla precedente, la quale me li faceva apparire assurdi, mentre rimproveravo ai tuoi santi una concezione che non avevano; e mi rallegravo di sentir ripetere da Ambrogio nei suoi sermoni davanti al popolo come una norma che raccomandava caldamente: "La lettera uccide, lo spirito invece vivifica".
Così quando, scostando il velo mistico, scopriva il senso spirituale di passi che alla lettera sembravano insegnare un errore, le sue parole non mi spiacevano, benché ignorassi ancora se erano veritiere.
Trattenevo il mio cuore dall'assentirvi minimamente, per timore del precipizio, e il pencolare a quel modo era una morte peggiore.
Che pretesa la mia, di raggiungere su cose che non vedevo la stessa certezza con cui ero certo che sette più tre fa dieci!
Non così, pazzo da ritenere che nemmeno quest'ultima verità si può comprendere, volevo però comprendere allo stesso modo anche le altre verità, sia le corporee non sottoposte ai miei sensi, sia le spirituali, per me pensabili esclusivamente sotto una forma corporea.
Potevo guarire con la fede, cosicché l'occhio della mia mente si fissasse più puro sulla tua verità permanente e indefettibile; ma, come accade di solito, che dopo aver incontrato un medico cattivo si ha paura di affidarsi anche al buono, così la mia anima ammalata e risanabile soltanto dalla fede respingeva la guarigione per timore di una fede sbagliata, resistendo alle tue mani che confezionarono la medicina della fede e la sparsero sulle malattie dell'universo intero, dotandola di cosi grande potere.
Tuttavia da allora incominciai a preferire la dottrina cattolica, anche perché la trovavo più equilibrata e assolutamente sincera nel prescrivere una fede senza dimostrazioni, che a volte ci sono, ma non sono per tutti, altre volte non ci sono affatto.
Il manicheismo invece prometteva temerariamente una scienza, tanto da irridere la fede, e poi imponeva di credere a un grande numero di fole del tutto assurde, dal momento che erano indimostrabili.
Sotto il lavorio della tua mano delicatissima e pazientissima, Signore, ora il mio cuore lentamente prendeva forma.
Tu mi facesti considerare l'incalcolabile numero dei fatti a cui credevo senza vederli, senza assistere al loro svolgimento, quale la moltitudine degli eventi storici, delle notizie di luoghi e città mai visitate di persona, delle cose per cui necessariamente, se vogliamo agire comunque nella vita, diamo credito agli amici, ai medici, a persone di ogni genere; e infine come ero saldamente certo dell'identità dei miei genitori, benché nulla potessi saperne senza prestare fede a ciò che udivo.
Così mi convincesti che non merita biasimo chi crede nelle tue Scritture, di cui hai radicato tanto profondamente l'autorità in quasi tutti i popoli, ma piuttosto chi non vi crede.
Dunque non dovevo prestare ascolto, se qualcuno per caso mi diceva: "Come sai che questi libri furono trasmessi al genere umano dallo spirito dell'unico Dio vero e assolutamente veritiero?".
Proprio ciò bisognava soprattutto credere, poiché non v'era stata violenza di calunniose obiezioni nelle molte dispute dei filosofi lette sui libri, che avesse potuto strapparmi neppure per un attimo la fede nella tua esistenza sotto qualunque forma a me ignota, e nel governo delle cose umane, che ti appartiene.
8 Però questa fede era in me ora più salda, ora più fievole.
Tuttavia credetti sempre che esisti e ti curi di noi, pur ignorando quale concezione bisognava avere della tua sostanza e quale sia la strada che conduce o riconduce a te.
Essendo dunque gli uomini troppo deboli per trovare la verità con la sola ragione, e avendo perciò bisogno dell'autorità di testi sacri, io avevo incominciato a credere ormai che non avresti attribuito un'autorità così eminente presso tutti i popoli della terra a quella Scrittura, se non avessi desiderato che l'uomo per suo mezzo credesse in te e per suo mezzo ti cercasse.
Dopo le molte spiegazioni accettabili che ne avevo udito, ormai attribuivo le assurdità che mi solevano urtare in quei testi alla sublimità dei simboli.
La loro autorità mi appariva tanto più venerabile e degna di fede pura, in quanto si offrivano a qualsiasi lettore, ma serbavano la maestà dei loro misteri a una penetrazione più profonda.
L'estrema chiarezza del linguaggio e umiltà dello stile li rendevano accessibili a tutti, eppure stimolavano l'acume di coloro che non sono leggeri di cuore; e se accoglievano nel loro seno aperto l'umanità intera, lasciavano passare per anguste fessure fino a te un numero piccolo di persone molto più grande tuttavia di quanto non sarebbe stato, se ad essi fosse mancato un prestigio così eminente e una santità così umile, da attrarre nel proprio grembo le turbe.
Mentre andavo così riflettendo, tu mi eri vicino, udivi i miei sospiri, mi guidavi nei miei ondeggiamenti, mi accompagnavi nel mio cammino attraverso l'ampia strada del mondo.
Cercavo avidamente onori, guadagni, nozze, e tu ne ridevi.
Per colpa di queste passioni soffrivo disagi amarissimi, ma la tua benignità era tanto più grande, quanto meno dolce mi facevi apparire ciò che tu non eri.
Guarda il mio cuore, Signore, per il cui volere rievoco e ti confesso questi fatti.
Si unisca ora a te la mia anima, che hai estratta dal vischio tenacissimo della morte. Quanto era misera!
E tu stuzzicavi il bruciore della piaga perché, lasciando tutto, si rivolgesse a te che sei sopra tutto e senza di cui tutto sarebbe nulla; perché si volgesse a te e fosse guarita.
Quanto ero misero, dunque, e tu come hai operato per farmi sentire la mia miseria!
Quel giorno mi preparavo a recitare un elogio dell'imperatore, infarcito di menzogne, ma capace di conciliare, al mentitore í favori di altre persone, ben consapevoli.
Il cuore ansimante di preoccupazioni e riarso dalle febbri di rovinosi pensieri, nel percorrere un vicolo milanese scorsi un povero mendicante, che, credo, oramai saturo di vino, scherzava allegramente.
Sospirando feci rilevare agli amici che mi accompagnavano le molte pene derivanti dalle nostre follie: tutti i nostri sforzi, quali quelli che proprio allora sostenevo traendo sotto il pungolo dell'ambizione il fardello della mia insoddisfazione e ingrossandolo per via, a che altro miravano, se non al traguardo di una gioia sicura, ove quel povero mendico ci aveva già preceduti e noi, forse, non saremmo mai arrivati?
Il risultato che egli aveva ottenuto con ben pochi e accattati soldarelli, ossia il godimento di una felicità temporale, io inseguivo attraverso anfratti e tortuosità penosissime.
Egli non possedeva, evidentemente, la vera gioia; ma anch'io con le mie ambizioni ne cercavo una più fallace ancora, e ad ogni modo egli era allegro, io angosciato, egli sicuro, io ansioso.
Richiesto di dire se preferivo l'esultanza o il timore, avrei risposto: "L'esultanza"; ma se poi mi fosse stato chiesto: "Preferiresti essere come costui, o come sei tu ora?", avrei scelto di essere com'ero, stremato d'affanni e timori.
Quale perversione! Infatti secondo ragione non avrei dovuto anteporre al mendico la mia più vasta cultura, se non ne ricavavo motivi di gioia, bensì la impiegavo per piacere agli uomini, non ammaestrandoli, ma solo dilettandoli.
Perciò tu col bastone della tua scuola spezzavi le mie ossa.
10 Si allontani dunque dalla mia anima chi le dice: "Bisogna considerare la fonte del godimento in un uomo.
Il mendico lo traeva dall'ebbrezza, tu lo cercavi nella gloria".
Quale gloria, Signore? Una gloria estranea a te.
Se non era vera gioia quella del mendico, neppure la mia gloria era vera, e contribuiva a traviare la mia mente.
Inoltre il mendico avrebbe smaltito la sua ebbrezza nel giro della notte seguente; io con la mia mi ero addormentato e destato, mi sarei addormentato e destato guarda quanti giorni!
Certo bisogna considerare la fonte del godimento in un uomo lo so.
Il godimento di una speranza pia e incomparabilmente distante dalla gioia vana del mendico.
Però allora c'era un'altra distanza fra noi due: egli era certamente il più felice non solo perché inondato dall'ilarità, mentre io ero disseccato dagli affanni, ma anche perché egli si era procurato il vino con auguri di bene, mentre io ricercavo la vana gloria con menzogne.
In questo senso parlai allora lungamente con i miei amici, e spesso poi osservai le mie reazioni in circostanze analoghe, constatando che mi sentivo a disagio e soffrivo, così raddoppiando il disagio stesso.
Se poi a volte la fortuna mi arrideva, riluttavo a coglierla, poiché se ne volava via quasi prima che potessi afferrarla.
Così conversavamo gemendo fra noi amici, accomunati dalla medesima vita.
Ma più che con gli altri e con maggiore confidenza discorrevo di queste cose con Alipio e Nebridio.
Alipio, nativo del mio stesso paese e figlio di genitori colà eminenti, era più giovane di me, e infatti era stato alunno alla mia scuola nel primi tempi del mio insegnamento sia in patria, sia poi a Cartagine.
Mi amava molto, credendomi virtuoso e dotto, e io lo ricambiavo con pari affetto a motivo della sua indole fortemente e visibilmente inclinata alla virtù fin da giovane età.
Ciò nonostante il vortice della moda cartaginese, fervida di spettacoli frivoli, lo aveva inghiottito con una passione forsennata per i giochi del circo.
Però al tempo in cui vi era miseramente sballottato, non frequentava ancora le lezioni di retorica che io tenevo pubblicamente, a motivo di certi dissapori sorti fra me e suo padre.
Venuto a conoscenza della sua funesta passione per il circo, ero profondamente afflitto dal pensiero che avrebbe guastato, se non l'aveva già fatto, le più belle speranze; ma come ammonirlo o richiamarlo duramente, se non potevo giovarmi né dell'affetto di un amico, né dell'autorità di un maestro?
Supponevo infatti che nutrisse verso di me gli stessi sentimenti del padre.
Invece non era così, tanto che pospose in questa faccenda la volontà patema e prese a salutarmi, frequentando la mia aula, ove mi ascoltava un po' di tempo, per poi allontanarsi.
12 A me però era ormai caduto dalla memoria il proposito di agire su di lui per impedire alla sua passione cieca e irruente degli spettacoli insulsi di stroncare disposizioni tanto buone.
Ma non tu, Signore, che governi il timone di ogni tua creatura, avevi dimenticato come dovesse diventare pontefice del tuo sacramento fra i tuoi figli; e perché il suo ravvedimento fosse ascritto inequivocabilmente a te, lo attuasti per mio tramite, ma senza un mio proposito.
Un giorno sedevo al mio solito posto, gli allievi di fronte a me, quando entrò, salutò, sedette e cominciò a seguire la trattazione in corso.
Io tenevo per caso fra mano un testo, e nel commentarlo pensai bene di trarre un paragone dai giochi del circo per rendere più piacevole e chiara l'idea che volevo inculcare, schernendo mordacemente le vittime di quella follia.
Allora, tu sai, Dio nostro, non pensavo a guarire Alipio dalla sua peste; sennonché egli si appropriò delle mie parole come se le avessi pronunciate espressamente per lui; e se altri ne avrebbe tratto motivo di risentimento verso di me, quel giovane virtuoso ne trasse motivo di risentimento verso di sé e d'amore più ardente verso di me.
Tu avevi detto un tempo e inserito nelle tue Scritture queste parole: Rimprovera il saggio, ed egli ti amerà; ma io non avevo rimproverato quel giovane.
Tu invece, che ti servi di tutti, coscienti o incoscienti, secondo l'ordinato disegno da te conosciuto, e giusto disegno, facesti del mio cuore e della mia lingua altrettanti carboni ardenti per cauterizzare la piaga devastatrice di quell'anima ricca di buone speranze, e guarirla.
Non canti le tue lodi chi non riconosce gli atti della tua commiserazione; essi ti rendono merito dalle più intime fibre del mio essere.
Alipio, dunque, dietro il suono di quelle parole si gettò fuori dalla fossa profondissima, in cui affondava compiaciuto e con strano diletto si privava della luce; scosse il suo spirito con vigorosa temperanza, e ne schizzarono lontano tutte le sozzure del circo, ove non mise più piede; quindi, vincendo le resistenze del padre, mi prese per maestro.
Il padre non dissentì, anzi acconsenti, e Alipio, tornando a frequentare le mie lezioni, cadde con me nella rete delle superstizioni manichee.
Nei manichei ammirava l'austerità che ostentavano e che invece credeva reale e genuina, mentre era un'esca insana per accalappiare le anime valorose ancora incapaci di attingere le vette della virtù e inclini a lasciarsi ingannare dall'esteriorità di una virtù solo adombrata e finta.
Senza abbandonare davvero la via del mondo, a lui decantata dai suoi genitori, mi aveva preceduto a Roma con l'intenzione di apprendervi il diritto.
E là in circostanze stravaganti venne travolto dalla stravagante passione per gli spettacoli gladiatori.
Mentre evitava e detestava quel genere di passatempi, incontrò per strada certi suoi amici e condiscepoli, che per caso tornavano da un pranzo e che lo condussero a forza, come si fa tra compagni, malgrado i suoi vigorosi dinieghi e la sua resistenza, all'anfiteatro, ov'era in corso la stagione dei giochi efferati e funesti.
Diceva: "Potete trascinare in quel luogo e collocarvi il mio corpo, ma potrete puntare il mio spirito e i miei occhi su quegli spettacoli?
Sarò là, ma lontano, così avrò la meglio e su di voi e su di essi"; ma non per questo gli altri rinunciarono a tirarselo dietro, forse curiosi di vedere se appunto riusciva a realizzare il suo proposito.
Ora, quando giunsero a destinazione e presero posto come poterono, ovunque erano scatenate le più bestiali soddisfazioni.
Egli impedì al suo spirito di avanzare in mezzo a tanto male, chiudendo i battenti degli occhi: oh, avesse tappato anche le orecchie!
Quando, a una certa fase del combattimento, l'enorme grido di tutto il pubblico violentemente lo urtò, vinto dalla curiosità, credendosi capace di dominare e vincere, qualunque fosse, anche la visione, aprì gli occhi.
La sua anima ne subì una ferita più grave di quella subìta dal corpo di colui che volle guardare, e cadde più miseramente di colui che con la propria caduta aveva provocato il grido.
Questo, penetrato attraverso le orecchie, spalancò gli occhi per aprire una breccia al colpo che avrebbe abbattuto quello spirito ancora più temerario che robusto, tanto più debole, quanto più aveva contato su di sé invece che su di te come avrebbe dovuto fare.
Vedere il sangue e sorbire la ferocia fu tutt'uno, né più se ne distolse, ma tenne gli occhi fissi e attinse inconsciamente il furore, mentre godeva della gara criminale e s'inebriava di una voluttà sanguinaria.
Non era ormai più la stessa persona venuta al teatro, ma una delle tante fra cui era venuta, un degno compare di coloro che ve lo avevano condotto.
Che altro dire? Osservò lo spettacolo, gridò, divampò, se ne portò via un'eccitazione forsennata, che lo stimolava a tornarvi non solo insieme a coloro che lo avevano trascinato la prima volta, ma anche più di coloro, e trascinandovi altri.
Eppure tu lo sollevasti da quell'abisso con la tua mano potentissima e misericordiosissima, gli insegnasti a non riporre fiducia in sé, ma in te; però molto più tardi.
La vicenda era tuttavia accantonata fin d'allora nella sua memoria come una medicina per il futuro.
Anche un altro fatto: che ancora durante i suoi studi a Cartagine e quando aveva già preso a frequentare le mie lezioni, un giorno, mentre sul mezzodì, nella piazza, meditava un discorso da recitare a scuola per esercizio, secondo l'usanza, lo lasciasti arrestare come ladro dai sorveglianti del foro, penso che tu, Dio nostro, non l'abbia permesso per altro motivo, se non per questo: che quel gentiluomo, destinato a divenire un giorno così grande, cominciasse fin d'allora a imparare quanto debba rifuggire da una temeraria credulità nel condannare un altro uomo l'uomo che istruisce un processo.
Alipio dunque passeggiava tutto solo davanti al tribunale, le tavolette e lo stilo fra le mani, quand'ecco un giovane studente, il ladro appunto, munito nascostamente di una scure si avvicina, non visto da lui, alla cancellata di piombo che sovrasta la via degli orafi, e incomincia a scalpellare il metallo.
Ai colpi della scure gli orafi che si trovavano di sotto parlottarono fra loro sommessamente e mandarono alcuni ad arrestare chiunque avessero trovato sul posto.
Il ladro, udite le loro voci, se la svignò, abbandonando l'attrezzo per paura di essere preso mentre l'aveva con sé; Alipio invece, che, come non l'aveva visto all'entrata, così lo notò all'uscita, vedendo che si allontanava frettolosamente, e curioso di conoscerne il motivo, entrò e trovò la scure.
Fermo in piedi la stava considerando meravigliato, quand'ecco i messi degli orafi lo sorprendono solo e fornito del ferro, ai cui colpi si erano riscossi ed erano partiti.
Lo acciuffano, lo trascinano con sé, e di fronte agli abitanti della piazza, che s'erano radunati, si vantano di aver preso il ladro in flagrante, poi si avviano per metterlo nelle mani della giustizia.
15 Ma la lezione doveva finire qui.
Tu, Signore, venisti immediatamente in soccorso dell'innocenza, di cui eri l'unico testimone.
Mentre Alipio veniva condotto in prigione o al supplizio, s'imbatté nel corteo un architetto, soprintendente agli edifici pubblici.
Le guardie si rallegrarono di aver incontrato proprio lui, che era solito sospettarle dei furti accaduti nel foro: ora finalmente avrebbe riconosciuto chi era l'autore.
Senonché l'architetto aveva visto sovente Alipio in casa di un certo senatore, che abitualmente andava a ossequiare; e appena lo ebbe riconosciuto, lo prese per mano, lo trasse in disparte dalla folla e gli chiese il motivo di un guaio così grosso.
Udito il racconto dell'accaduto, ordinò agli astanti, che tumultuavano e rumoreggiavano minacciosamente, di seguirlo.
Giunsero così all'abitazione del giovane delinquente.
Sulla porta stava uno schiavo così tenerello, da poter rivelare facilmente tutto il caso senza sospettare che ne venisse del danno al padrone.
Infatti lo aveva accompagnato nella piazza. Anche Alipio lo riconobbe e ne avverti l'architetto.
Questi mostrò al fanciullo la scure, domandandogli di chi era.
"È nostra", rispose immediatamente il fanciullo. Più tardi, interrogato, rivelò il resto.
Così l'accusa ricadde su quella casa, con grande smacco della folla, che aveva già incominciato il suo trionfo su Alipio.
Il futuro dispensatore della tua parola e giudice di molte cause nella tua Chiesa ne uscì più esperto e più agguerrito.
A Roma, quando lo incontrai, Alipio si legò a me della più stretta amicizia e parti con me alla volta di Milano sia per non lasciarmi, sia per mettere a frutto le nozioni di diritto che aveva appreso, secondo il desiderio dei genitori più che suo.
Aveva già esercitato per tre volte la mansione di assessore giudiziario, meravigliando i colleghi con la sua integrità, ma meno di quanto si meravigliava lui di essi, che anteponevano l'oro alla rettitudine.
Il suo carattere fu pure messo alla prova non solo con la seduzione della cupidigia, ma anche col pungolo della paura.
A Roma era assessore presso il conte preposto alle finanze italiche.
Viveva in quel tempo un senatore potentissimo, che si teneva molta gente legata con i benefici e soggetta con l'intimidazione.
Costui pensò di permettersi, secondo l'usanza dei potentati suoi pari, non so quale atto non permesso dalla legge. Alipio gli resistette.
Gli fu promessa una ricompensa, ed egli ne rise di cuore; furono proferite minacce, ed egli le calpestò, con ammirazione di tutti verso un ardire non comune, indifferente all'amicizia e imperturbabile all'inimicizia di un personaggio tanto potente e notissimo per le infinite possibilità che aveva così di giovare come di nuocere.
Lo stesso giudice di cui era consigliere, per quanto contrario egli pure alle richieste del senatore, tuttavia non osava opporsi apertamente.
Addossava la responsabilità ad Alipio, si diceva impedito da lui perché, ed era vero, l'avrebbe avversato, se per conto suo avesse ceduto.
Una sola passione per poco non l'aveva sedotto, la letteratura, per la quale fu tentato di farsi trascrivere alcuni codici usando la cassa del tribunale.
Interpellata però la virtù della giustizia, mutò in meglio il suo parere, giudicando più vantaggiosa la rettitudine, che glielo proibiva, della, possibilità, che glielo permetteva.
È cosa da poco? Ma chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto, né saranno mai vane le parole che uscirono dalla bocca della tua verità: Se non foste fedeli riguardo alle ricchezze inique, chi vi affiderà quelle genuine? e se non foste fedeli nell'amministrare le ricchezze altrui, chi vi affiderà le vostre?
Tale l'uomo che si stringeva allora a me, e con me esitava a decidere il genere di vita che si doveva abbracciare.
Anche Nebridio aveva lasciato il paese natio, nei pressi di Cartagine e poi Cartagine stessa, ove lo s'incontrava sovente; aveva lasciato la splendida tenuta del padre, lasciata la casa e la madre, non disposta a seguirlo, per venire a Milano con l'unico intento di vivere insieme a me nella ricerca, ardentissima delle verità e della sapienza.
Investigatore appassionato della felicità umana, scrutatore acutissimo dei più difficili problemi, come me anelava e come me oscillava.
Erano, le nostre, le bocche di tre affamati che si ispiravano a vicenda la propria miseria, rivolte verso di te, in attesa che dessi loro il cibo nel tempo opportuno.
Nell'amarezza che la tua misericordia faceva sempre seguire alle nostre attività mondane, cercavamo di distinguere lo scopo delle nostre sofferenze; ma intorno a noi si levavano le tenebre.
Rivolgendoci allora indietro, ci domandavamo tra i gemiti: "Per quanto tempo dureremo in questo stato?", e ripetevamo spesso la domanda, ma senza abbandonare per ciò quella vita, mancandoci ogni luce di certezza a cui aggrapparci dopo averla abbandonata.
Io soprattutto mi stupivo, allorché con uno sforzo rievocavo il lungo tempo passato dal momento in cui, diciannovenne, avevo cominciato a infervorarmi nella ricerca della sapienza, progettando di abbandonare, appena l'avessi scoperta, tutte le speranze fatue e i fallaci furori delle vane passioni.
Ed eccomi ormai trentenne, vacillante ancora nella medesima mota, avido di godere del presente fugace e dispersivo, mentre mi andavo dicendo: "Domani troverò.
Ecco che il vero mi si manifesterà chiaramente, e l'afferrerò; ecco che verrà Fausto e mi spiegherà tutto.
O accademici, spiriti grandi, nessuna certezza si può davvero raggiungere a guida della vita.
Ma no, cerchiamo con maggiore diligenza anziché disperare.
Ecco ad esempio che quelle che sembravano assurdità nei libri ecclesiastici, non lo sono più: è possibile intenderle in maniera diversa e degna.
Prenderò dunque come appoggio ai miei passi il gradino ove fanciullo mi posero i genitori, finché mi si riveli chiaramente la verità.
Ma dove cercarla? quando cercarla? Non ha tempo Ambrogio, non abbiamo tempo noi per leggere, e poi, anche i libri dove cercarli? da chi e quando ottenerli, a chi chiederli?
Riserviamo del tempo e assegniamo alcune ore alla salvezza dell'anima. Una grande speranza è spuntata: gli insegnamenti della fede cattolica non sono quali li pensavamo, le nostre accuse erano inconsistenti.
I suoi esperti conoscitori reputano un'empietà il, credere Dio chiuso nel profilo di un corpo umano; e noi dubitiamo a bussare perché ci si schiudano le altre verità?
Le ore del mattino sono occupate dalla scuola; nelle altre cosa facciamo?
Perché non impiegarle in quest'opera? Ma quando andremmo a ossequiare gli amici importanti di cui ci occorre l'appoggio, quando prepareremmo le dissertazioni da smerciare agli alunni, quando, anche, ci ristoreremmo, rilassando lo spirito dopo la tensione delle occupazioni?
19 Tutto crolli, sbarazziamoci di queste vane futilità e votiamoci unicamente alla ricerca della verità!
La vita è miserabile, la morte è incerta.
Potrebbe sopravvenire all'improvviso, e allora come usciremmo da questo mondo? dove potremmo imparare quanto qui abbiamo negletto?
Non dovremmo pagare piuttosto il fio della presente negligenza?
E se la morte stessa troncasse e concludesse ogni angustia insieme alla sensibilità?
Anche questo è un problema da investigare.
Ma no, lontano da me il pensiero che sia così.
Non senza un motivo, non per nulla l'autorità della fede cristiana s'irradia da tanta altezza sul mondo intero.
La divinità non realizzerebbe tante e tali cose per noi, se con la morte del corpo si estinguesse anche la vita dell'anima.
Perché dunque esitiamo ad abbandonare le speranze mondane, per votarci totalmente alla ricerca di Dio e della vita beata?
No, adagio: anche il mondo è piacevole e possiede una sua grazia non lieve.
Bisogna essere cauti a troncare l'impulso che ci spinge verso di esso, perché sarebbe indecoroso tornarvi da capo.
Ormai, ecco, siamo abbastanza valenti per ottenere un posto onorato, e che altro desiderare nella nostra condizione? Abbiamo un buon numero di amici potenti.
Se non vogliamo brigare troppo per avere di meglio, una presidenza la possiamo ottenere senz'altro.
Poi si dovrà sposare una donna provvista di qualche soldo, che non aggravi le nostre spese, e questo sarà il termine dei desideri; molti spiriti grandi, degnissimi d'imitazione, si dedicarono allo studio della sapienza con le mogli al fianco.
20 Fra questi discorsi, fra questi venti alterni, che spingevano il mio cuore or qua or là, passava il tempo e io tardavo a rivolgermi verso il Signore.
Differivo di giorno in giorno l'inizio della vita in te, ma non differivo la morte giornaliera in me stesso.
Per amore della vita felice temevo di trovarla nella sua sede e la cercavo fuggendola.
Mi sembrava che sarei stato troppo misero senza gli amplessi di una donna; non ponevo mente al rimedio che ci porge la tua misericordia per guarire da quell'infermità, poiché non l'avevo mai sperimentato.
Pensavo che la continenza si ottiene con le proprie forze, e delle mie non ero sicuro.
A tal segno ero stolto, da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente, se tu non lo concedi.
E tu l'avresti concesso, se con gemito interiore avessi bussato alle tue orecchie e con salda fede avessi lanciato in te la mia pena.
Alipio mi sconsigliava, per la verità, di prendere moglie: se lo avessi fatto, mi ripeteva su tutti i toni, non avremmo potuto assolutamente vivere assieme e indisturbati, nel culto della sapienza, come da tempo desideravamo.
Personalmente egli osservava fin da allora una castità assoluta, e questa condotta era tanto più ammirevole, in quanto nei primi anni della sua adolescenza aveva sperimentato il piacere della carne.
Però non vi era rimasto invischiato: ne aveva avuto piuttosto rimorso e disprezzo, e da allora viveva ormai in una continenza assoluta.
Io gli opponevo l'esempio di quanti, coniugati, avevano coltivato gli studi, guadagnato meriti presso Dio e conservato fedeltà d'affetti verso gli amici.
Senonché per mio conto ero lontano da tanta magnanimità.
Avvinto alla mia carne ammorbata, ne trascinavo la catena con un godimento mortale, timoroso che si sciogliesse e respingendo, quasi rimescolasse la piaga, la mano liberatrice dei buoni consigli.
Ma c'era di più per mia bocca il serpente parlava allo stesso Alipio e lo accalappiava, disseminando sulla sua strada per mezzo della mia lingua dolci lacci, ove impigliare i suoi onesti e liberi piedi.
22 Egli si stupiva che io, non poco stimato da lui, fossi invischiato nel piacere a tal punto, da asserire, quando se ne discuteva fra noi, che non avrei potuto assolutamente condurre una vita celibe; ed io, al vedere il suo stupore, mi difendevo sostenendo che passava una bella differenza tra le sue momentanee e furtive esperienze, rese innocue e facilmente disprezzabili dal ricordo ormai quasi svanito, e i diletti della mia consuetudine, cui mancava soltanto l'onorato titolo di matrimonio per togliergli ogni ragione di stupore, se non riuscivo a spregiare quella vita.
Alla fine era entrato in corpo anche a lui il desiderio di sposare, facendo breccia non tanto con la lusinga del piacere, quanto con quella della curiosità.
Era curioso, diceva, di conoscere il bene, senza del quale la mia vita, a lui accetta così com'era, a me non sembrerebbe più una vita, ma un tormento.
Il suo animo, libero da legame, si meravigliava della mia schiavitù, e la meraviglia lo stuzzicava a farne esperienza.
Ma, venuto appunto all'esperienza, forse sarebbe caduto nella schiavitù di cui si meravigliava: cercava di stringere un patto con la morte, e chi ama il pericolo, vi cadrà.
Certo nessuno di noi due era gran che mosso dalla dignità coniugale, quale può consistere nel compito di guidare un matrimonio e di allevare dei figli: io, per essere soprattutto e duramente schiavo torturato dell'abitudine di appagare l'inappagabile sensualità; lui, per essere trascinato alla schiavitù dal fascino dell'ignoto.
Tale il nostro stato, finché tu, altissimo, che non abbandoni il nostro fango, impietosito dalla nostra condizione pietosa, ci venisti in aiuto in modi mirabili e segreti.
Intanto mi si sollecitava instancabilmente a prendere moglie.
Così ne avevo ormai avanzato la richiesta e ottenuta la promessa.
Chi lavorava maggiormente in questo senso era mia madre, con l'idea che, una volta sposato, il lavacro salutare del battesimo mi avrebbe ripulito.
Gioiva che io vi fossi ogni giorno meglio disposto, e nella mia fede riconosceva il compiersi dei suoi voti e delle tue promesse.
Su mia richiesta e per sua stessa inclinazione ti supplicava quotidianamente con l'ardente grido del cuore perché tu le facessi in sogno qualche rivelazione sul mio futuro matrimonio, ma non volesti mai esaudirla.
Aveva, sì, delle visioni, però inconsistenti e bizzarre, prodotte dalla tensione del suo spirito umano in angustie per quell'evento.
Me le descriveva senza la fiducia a lei abituale quando aveva una tua rivelazione, bensì con disprezzo.
A suo dire, ella sapeva discernere da non so quale sapore, che a parole era incapace di spiegare, la differenza tra le tue rivelazioni e i sogni della sua anima.
Ciò nonostante si insisteva, e la fanciulla fu richiesta.
Le mancavano ancora due anni all'età da marito, però piaceva a tutti, e così si aspettava.
Eravamo molti amici, che per avversione alle noie e ai disturbi della vita umana avevamo progettato, discusso e già quasi deciso di ritirarci a vivere in pace lontano dalla folla.
Si era organizzato il nostro ritiro così: tutti i beni che mai possedessimo sarebbero stati messi in comune, costituendosi, di tutti, un patrimonio solo.
In tale maniera, per la nostra schietta amicizia non ci sarebbero stati beni dell'uno o dell'altro, ma un'unica sostanza, formata da tutti; questa sostanza collettiva sarebbe stata di ognuno, e tutte le sostanze sarebbero state di tutti.
A nostro parere ci saremmo potuti riunire in una decina di persone, alcune delle quali molto facoltose, specialmente Romaniano, mio concittadino e amicissimo fin dall'infanzia, allora condotto alla corte dal turbine gravoso dei suoi affari.
Era lui anzi a insistere più di tutti per l'attuazione del progetto, e le sue sollecitazioni avevano un peso notevole a causa del suo ingente patrimonio, superiore di molto a tutti gli altri.
Avevamo anche e stabilito che anno per anno due di noi si occuperebbero, come magistrati, di provvedere tutto il necessario agli altri, invece tranquilli.
Ma quando si venne a considerare se le donnicciuole, che alcuni di noi avevano già in casa e che noi desideravamo prendere, avrebbero dato il loro assenso, l'intero progetto, così ben formulato, ci andò in pezzi fra mano e fu gettato, infranto, in un angolo.
Così tornammo ai nostri sospiri, ai nostri gemiti, ai nostri passi sulle strade ampie e battute del mondo, poiché molti pensieri passavano nel nostro cuore, mentre il tuo disegno sussiste eternamente.
Dall'alto di quel disegno deridevi le nostre decisioni e preparavi le tue, attendendo di darci il cibo al momento opportuno, di aprire la mano e saziare le nostre anime con la tua benedizione.
Frattanto i miei peccati si moltiplicavano e quando mi fu strappata dal fianco, quale ostacolo alle nozze, la donna con cui ero solito coricarmi, il mio cuore, a cui era attaccata, ne fu profondamente lacerato e sanguinò a lungo.
Essa partì per l'Africa, facendoti voto di non conoscere nessun altro uomo e lasciando con me il figlio naturale avuto da lei.
Ma io, sciagurato, incapace d'imitare una femmina e di pazientare quei due anni di attesa finché avrei avuto in casa la sposa già richiesta, meno vago delle nozze di quanto fossi servo della libidine, mi procurai un'altra donna, non certo moglie, quale alimento, quasi, che prolungasse, intatta o ancora più vigorosa, la malattia della mia anima, vegliata da una consuetudine che doveva durare fino al regno della sposa.
Non guariva per questo la ferita prodotta in me dall'amputazione della compagna precedente; però, dopo il bruciore e lo strazio più aspro, imputridiva, e la sofferenza, perché più gelida, era anche più disperata.
Lode a te, gloria a te, fonte di misericordie.
Io mi facevo più miserabile, e tu più vicino.
Ormai, ormai era accostata la tua mano, che mi avrebbe tolto e levato dal fango, e io lo ignoravo.
Solo, a trattenermi dallo sprofondare ulteriormente nel gorgo dei piaceri carnali, stava il timore della morte e del tuo giudizio futuro, mai dileguato dal mio cuore pur nel variare delle mie opinioni.
Con i miei amici Alipio e Nebridio mi ero messo a discutere sul massimo dei beni e dei mali.
Per me, dicevo, avrebbe ricevuto la palma Epicuro, se non avessi creduto alla sopravvivenza dell'anima e al prolungarsi delle nostre azioni oltre la morte, ciò che Epicuro si rifiutò di credere; e domandavo perché mai l'immortalità e una vita trascorsa in perpetua voluttà del corpo, senza alcun timore di perderla, non dovrebbero renderci felici, o che altro dovremmo cercare.
Non riflettevo che l'incapacità stessa di immaginare, perché sprofondato nella cecità, la luce della virtù e di una bellezza che si fa abbracciare da sé sola, invisibile all'occhio della carne, visibile all'intimo dello spirito, è arte di una grande miseria.
Né mi chiedevo, nella mia miseria, da quale fonte mi fluiva il diletto che pure provavo a discutere di argomenti cosi laidi con gli amici.
Senza amici non avrei potuto essere felice nemmeno nel senso che davo allora alla parola, con la massima abbondanza delle soddisfazioni carnali.
Sì, io amavo quegli amici disinteressatamente e mi sentivo a mia volta amato disinteressatamente da loro.
Ma ahimè, quali vie tortuose! Guai all'anima temeraria, che sperò di trovare di meglio allontanandosi da te.
Voltati e rivoltati sulla schiena, sui fianchi, sul ventre, ma tutto è duro, e tu solo il riposo.
Ed eccoti, sei qui, ci liberi dai nostri errori miserabili e ci metti sulla tua strada e consoli e dici: "Correte io vi reggerò, io vi condurrò al traguardo e là ancora io vi reggerò".
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