Summa Teologica - I-II |
Infra, q. 18, a. 6; q. 72, a. 3; In 2 Sent., d. 40, a. 1; De Virt., q. 1, a. 2, ad 3; q. 2, a. 3
Pare che gli atti umani non ricevano la loro specificazione dal fine.
1. Il fine è una causa estrinseca.
Ma ogni cosa riceve la sua specie da un principio intrinseco.
Quindi gli atti umani non la ricevono dal fine.
2. Ciò che dà la specie deve avere una priorità.
Ma il fine è posteriore in ordine ontologico.
Quindi l'atto umano non può ricevere la specie dal fine.
3. Una medesima cosa non può avere che una sola specie.
Ora, può capitare che il medesimo atto venga ordinato a diversi fini.
Quindi il fine non può determinare la specie degli atti umani.
S. Agostino [ De mor. Eccl. 2,13 ] scrive: « Le nostre opere sono colpevoli o lodevoli secondo che è colpevole o lodevole il loro fine ».
Ogni cosa deriva la sua specie dall'atto e non dalla potenza: infatti gli esseri composti di materia e forma raggiungono la specie mediante le loro forme.
E la stessa cosa vale per il moto in senso stretto.
Infatti l'azione e la passione, in cui il moto si distingue, derivano la loro specie dall'atto: e cioè l'azione dall'atto che è il principio operativo, la passione invece dall'atto che è il termine del moto.
Infatti il riscaldamento all'attivo non è altro che il moto derivante dal calore, e il riscaldamento al passivo non è altro che il moto verso il calore; e la definizione d'altra parte non fa che esprimere la natura della specie.
Ora, gli atti umani considerati in tutti e due i modi, o come azioni o come passioni, ricevono la loro specie dal fine.
Infatti gli atti umani possono essere considerati in entrambi i modi: poiché l'uomo muove se stesso, ed è mosso da se stesso.
Ora, abbiamo spiegato [ a. 1 ] che gli atti sono detti umani in quanto procedono da una volontà deliberata.
Ma l'oggetto della volontà è il bene e il fine.
È perciò evidente che il fine costituisce il principio degli atti umani in quanto umani.
E così pure ne costituisce il termine: infatti l'atto umano ha il suo termine in ciò che la volontà persegue come suo fine; come anche nella generazione naturale la forma del generato è conforme a quella del generante.
E dal momento che, al dire di S. Ambrogio [ In Lc, Prol. ], « i costumi morali sono propriamente umani », ne viene che gli atti morali ricevono la loro specie propriamente dal fine: infatti gli atti umani e gli atti morali si identificano.
1. Il fine non è qualcosa di totalmente estrinseco all'atto: poiché si rapporta all'atto come principio e come termine; ed è proprio dell'atto come tale derivare da un principio in quanto azione, e tendere a un termine in quanto passione.
2. Abbiamo già spiegato [ a. 1, ad 1 ] che il fine appartiene alla volontà in quanto è primo nell'intenzione.
E proprio in questo modo esso specifica le azioni umane o morali.
3. Un solo e medesimo atto, in quanto promana in concreto da un agente, è sempre ordinato a un solo fine prossimo, dal quale riceve la specie, ma può essere ordinato a più fini remoti dei quali l'uno sia fine dell'altro.
- È tuttavia possibile che un atto, unico se considerato nella sua specie fisica, sia ordinato a fini diversi nell'ordine volitivo: come l'uccisione di un uomo, che fisicamente è sempre di una medesima specie, può essere ordinata sia all'esecuzione della giustizia che all'appagamento dell'ira.
E si avranno allora atti specificamente diversi nell'ordine morale: poiché nel primo caso si avrà un atto di virtù e nel secondo un atto peccaminoso.
Il moto infatti non riceve la specie da un termine accidentale, ma solo dal suo termine proprio.
Ora, i fini morali sono accidentali per le realtà naturali, e al contrario la finalità naturale è accidentale nell'ordine morale.
Nulla perciò impedisce che atti specificamente identici nell'ordine fisico siano diversi nell'ordine morale, e viceversa.
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