Supplemento alla III parte |
Pare che non sia accettabile la definizione che alcuni danno della consanguineità: « La consanguineità è il vincolo contratto tra persone discendenti dal medesimo capostipite mediante la generazione carnale » [ Raimondo, Summa 4,6,1 ].
1. Tutti gli uomini discendono dal medesimo capostipite per figliolanza naturale, cioè da Adamo.
Perciò se la definizione suddetta fosse esatta, tutti gli uomini sarebbero consanguinei.
Il che è falso.
2. Un vincolo non può sussistere che tra persone aventi un rapporto di somiglianza: poiché il vincolo unisce.
Ora, tra i discendenti da un medesimo casato la somiglianza reciproca non è superiore a quella esistente tra gli altri uomini: poiché anch'essi sono simili nella specie e differenti nel numero come gli altri uomini.
Perciò la consanguineità non costituisce un vincolo.
3. La generazione, come insegna il Filosofo [ De gen. animal. 1,18 ], avviene mediante « il superfluo del nutrimento ».
Ma tale superfluo è più affine alle sostanze commestibili, essendo della stessa natura, che non a colui che le ingerisce.
Come quindi non nasce un vincolo di consanguineità tra chi deriva da tale seme e le sostanze commestibili, così non nasce un vincolo di affinità in seguito alla generazione carnale.
4. Labano [ Gen 29,14 ] disse a Giacobbe a motivo della sua parentela con lui: « Tu sei mio osso e mia carne ».
Perciò tale affinità va denominata più carnalità che consanguineità.
5. La generazione carnale è comune agli uomini e agli animali.
Ma con essa gli animali non contraggono un vincolo di consanguineità.
Quindi non lo contraggono neppure gli uomini.
Come nota il Filosofo [ Ethic. 8,14 ], « qualsiasi amicizia si fonda su una comunicazione, o comunanza ».
Essendo dunque l'amicizia un legame, o un'unione, la comunanza, che è la causa dell'amicizia, viene denominata vincolo.
E così per qualsiasi comunanza si dice che certe persone sono collegate fra loro: come si dicono concittadini quelli che hanno tra loro una comunanza politica, e commilitoni quelli che sono associati in un'impresa militare.
Così dunque quelli che convengono tra loro in una comunanza di natura, ossia di origine, si dicono consanguinei.
Perciò nella suddetta definizione il « vincolo » funge quasi da genere nella consanguineità; le « persone discendenti dal medesimo capostipite », fra le quali esiste tale vincolo, indicano invece il soggetto; la « generazione carnale » infine indica il principio di questo legame.
1. La virtù attiva non viene ricevuta negli strumenti secondo lo stesso grado di perfezione con cui si trova nell'agente principale.
Essendo dunque ogni motore mosso come uno strumento, di conseguenza la virtù di un motore che è primo in un dato genere, se passa attraverso vari soggetti intermedi, alla fine si esaurisce giungendo a un soggetto che è soltanto mosso e non motore.
Ora, la virtù del generante muove non soltanto alla forma specifica, ma anche alle particolarità individuali, per cui i figli assomigliano al padre anche negli accidenti, e non solo nella specie.
Tuttavia la virtù individuale del padre non si trova nel figlio così perfettamente come nel padre; e nel nipote meno ancora; per cui gradatamente si attenua.
E finalmente viene a cessare.
Poiché dunque la consanguineità consiste nel partecipare di tale virtù in forza della generazione, « un po' per volta la consanguineità distrugge se stessa », come dice S. Isidoro [ Etym. 9,6 ].
Perciò nella definizione della consanguineità il capostipite non è quello remoto, ma quello prossimo, la cui virtù attiva rimane ancora nei discendenti.
2. Da quanto si è detto sopra [ ad 1 ] risulta che i consanguinei non sono simili soltanto nella natura specifica, ma anche nella virtù individuale derivata in molti da un unico capostipite: per cui può avvenire che il figlio assomigli non solo al padre, ma al nonno, o ai proavi, come nota Aristotele [ De gen. animal. 4,3 ].
3. La somiglianza va riscontrata più in base alla forma, per cui una cosa è in atto, che in base alla materia, per cui essa è in potenza: come il carbone acceso è più simile al fuoco che all'albero da cui fu tagliata la legna.
E allo stesso modo il nutrimento già trasformato nella specie del nutrito dalla facoltà di nutrizione è più simile al soggetto nutrito che alla sostanza da cui il nutrimento fu desunto.
L'argomento invece sarebbe valido secondo l'opinione di coloro i quali dicevano che la materia costituirebbe tutta l'essenza di una cosa, mentre le forme sarebbero solo accidenti.
Il che è falso.
4. Ciò che immediatamente si converte in seme è il sangue, come dimostra Aristotele [ De gen. animal. 1,19 ].
Per questo è più giusto chiamare consanguineità piuttosto che carnalità il vincolo che viene contratto con la generazione carnale.
E quando si dice che un consanguineo è « carne dell'altro », ciò è dovuto al fatto che il sangue, il quale si trasforma in seme o in mestruo, è in potenza carne e ossa.
5. Alcuni sostengono che il vincolo di consanguineità si contrae tra gli uomini e non tra gli animali per il fatto che quanto c'è di vera natura umana in tutti gli uomini si sarebbe trovato nel nostro progenitore: il che non avviene negli animali.
- Ma in base a ciò la consanguineità non avrebbe limiti.
E poi questa posizione l'abbiamo già confutata [ cf. I, q. 119, a. 1 ].
Perciò rispondiamo che ciò avviene perché gli animali in forza della generazione da un comune ascendente prossimo non contraggono un vincolo di amicizia, come invece avviene tra gli uomini, secondo le spiegazioni date [ nel corpo ].
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