11 Agosto 1965
Diletti Figli e Figlie!
Abbiamo parlato in altre udienze simili a questa circa le impressioni che i Nostri visitatori, specialmente se sono forestieri, subiscono entrando nella sfera dei luoghi, di persone, di riti, di usi, che circonda il Papa e che sembra dare un'immagine, un concetto del Pontificato romano e, per estensione, della Chiesa Cattolica, che intorno a lui confluisce.
Ma l'elenco di tali impressioni, anche se Ci limitiamo alle più consuete, è piuttosto lungo; e il Nostro commento non è finito; potremmo annunciarne altre parecchie.
Accenniamo ora soltanto ad una, molto frequente e, ai nostri giorni, caratteristica; è l'impressione d'antichità.
Veramente la sala che accoglie questa udienza, qui a Castel Gandolfo, non dà affatto questa impressione; dà piuttosto quella contraria, di modernità; ma venendo a trovare il Papa, ogni visitatore non può sottrarsi dalla meraviglia, che nasce in tutti istintivamente al pensiero ch'Egli rappresenta una lunga, lunghissima storia; travagliata fin che si vuole, ma coerente e permanente nei secoli:
la visita al Papa è una rievocazione storica;
obbliga a pensare al passato;
solleva immagini d'altri tempi;
sembra trasferire l'attenzione verso un mondo tramontato e solo simbolicamente sopravvissuto.
È l'impressione, dicevamo, dell'antichità, che si prova studiando la storia, l'archeologia, o visitando case vecchie e fuori moda, ovvero musei e cimiteri.
È un'impressione insolita e un po' sgradevole per la mentalità giovanile e moderna, che non ama guardare indietro, ma vuole guardare al presente soprattutto, e un po' anche all'avvenire.
È la mentalità attualista, che può trovarsi disturbata, visitando un ambiente come il nostro, per un motivo anche più pungente, che non sia quello della vecchiaia, riscontrata nella scena esteriore, ed è quello dell'antichità, non solo delle cose, ma delle idee, del modo di pensare e di parlare.
Qui è presente ed affermata una tradizione, che non pochi uomini moderni non comprendono più, anzi non stimano più.
La Chiesa è superata, si dice da alcuni: è un fenomeno d'immobilismo; non ci dice più nulla, o ben poco.
Non viviamo, è stato scritto, in un'epoca postcristiana.
Questa l'impressione; un'impressione triste, come ognun vede, contro la quale coloro che hanno l'occhio limpido, e specialmente coloro che tuttora hanno la fortuna di conservare la fede, la fede in Cristo e nella sua Chiesa, facilmente reagiscono.
C'è chi reagisce compiacendosi di tale impressione.
Nel secolo scorso, ad esempio, era di moda compiacersi romanticamente di tutto quanto parlava del passato; e le rovine hanno questo linguaggio più d'ogni altra cosa.
Oggi invece la simpatia, se una vi è, per ciò che rievoca i tempi andati è data dal così detto senso della storia, dalla percezione cioè del movimento registrata nei segni superstiti delle cose generate e divorate dal tempo.
Ma questa non è per noi credenti la reazione sufficiente all'impressione della caducità e della vecchiaia, che può nascere in chi osserva superficialmente il quadro della vita ecclesiastica qui rappresentato nei suoi tratti più caratteristici.
Il quadro non è « natura morta », è realtà viva.
La realtà della Chiesa, se pur riveste forme ereditate dai secoli trascorsi è una realtà estremamente ricca di attualità; a ben guardare, è una realtà che non invecchia e che ha in sé una misteriosa virtù di rigenerarsi, di ringiovanirsi, di esprimersi in segni di perenne e assoluta
Presenza, tanto da poter indicare al progresso stesso del mondo in via di febbrile evoluzione i criteri della novità che non inganna e che si protendono con speranza non fallace, con sicurezza piena di attesa verso il futuro.
La Chiesa segna le ore del tempo che corre senza paura, e guarda all'avvenire con ansia profetica, con tensione escatologica.
La Chiesa non è vecchia, è perenne; è sempre giovane e sa mantenersi tale.
Qui si porrebbe il grande problema teologico del rapporto della Chiesa col tempo, del Vangelo eterno col fiume scorrente delle vicende umane.
Ma non è questo il momento di entrare in un mare così grande.
Contentiamoci, per semplificare, di osservare che vi sono due modi per la Chiesa di mantenersi giovane, cioè inserita come religione viva nel tessuto della storia sfuggente.
Uno, che potremmo dire risolto « ad extra », è quella di accostarsi al mondo che la circonda, di assumerne il linguaggio, i costumi, la mentalità, fin dove questo è compatibile con la natura e con la missione della Chiesa di inserirsi nella storia che passa, di « storicizzarsi ».
L'altro modo, che potremmo dire « ad intra », per cui la Chiesa cerca in se stessa la vitalità inesauribile della sua verità, della sua coerenza tradizionale, della sua ricchezza spirituale.
L'uno e l'altro modo sono buoni, purché siano saggiamente complementari.
È, a un dipresso, il binomio « nova et vetera » del Vangelo che dobbiamo cercare di mettere in pratica per dare forza e testimonianza della perenne fioritura del regno di Dio.
Ma purtroppo talvolta, oggi, in questo sforzo di rinnovamento, alcuni, mossi certamente da zelo sincero, si attengono al primo modo, dimenticando o trascurando il secondo.
Avviene allora che molti sono tentati di credere vivo solo ciò che è nuovo, solo ciò che è moderno, solo ciò che si confonde con l'esperienza del mondo contemporaneo, e nasce d'istinto la tentazione di ripudiare ciò che ieri è stato fatto e pensato, di staccarsi dalla teologia e dalla disciplina tradizionale, di mettere tutto in questione, come se si dovesse cominciare oggi a costruire la Chiesa, a rifare le sue dottrine partendo non tanto dai dati della rivelazione e della tradizione, quanto piuttosto dalle realtà temporali in cui si svolge la vita contemporanea, per dare inizio a nuove forme di pensiero, di spiritualità, di costume, col pretesto di infondere nel nostro cristianesimo un'autenticità solo ora scoperta, e solo essa comprensibile agli uomini del nostro tempo.
Dapprima questo processo di rinnovamento tocca e toglie cose e forme caduche; ma poi, in alcuni, arriva a intaccare cose e forme essenziali e intangibili nella Chiesa; e allora v'è pericolo che, pur non volendo, la mentalità del riformatore si adatti, si faccia relativa alle correnti di pensiero di moda o del pensiero altrui; e verità che sono fuori del tempo, perché divine, sono piegate ad uno storicismo che le priva talora del loro contenuto e della loro stabilità.
San Paolo sembra montare la guardia, ed ammonirci lui, l'apostolo più teso a farsi tutto a tutti ( 1 Cor 9,22 ) che non deve svuotarsi la croce di Cristo: « Ut non evacuetur crux Christi » ( 1 Cor 1,17 ).
L'altro modo, quello della fedeltà della Chiesa a se stessa, è certamente quello che ha il vero segreto della sua perenne giovinezza, quello che le fa cercare nel tesoro divino confidatole da Cristo la sapienza e la forza per presentarsi sempre viva ed operante in mezzo agli uomini a cui vuole recare il messaggio di fede, di carità, di salvezza.
Solo che questo modo deve appunto manifestarsi in maniera accessibile agli uomini; chi lo fa proprio deve sforzarsi di conoscerli, deve comprenderli, deve loro facilitare la pratica della vita cristiana, deve loro dare la gioia dell'incontro con Cristo; deve, in una parola, mostrarsi « apostolico »: arte questa bellissima, ma difficilissima!
Ed è precisamente ciò che oggi la Chiesa, sapientemente e coraggiosamente, cerca di fare mediante il Concilio, così che Cristo rifulga al mondo, com'è scolpito sulla base dell'obelisco di Piazza San Pietro, il Cristo di sempre: heri, hodie et in saecula.
Vi aiuti a comprendere e a godere di queste altissime cose la Nostra Benedizione Apostolica.