12 Novembre 1969
Diletti Figli e Figlie!
Noi diremo ancora una parola sopra il concetto fondamentale che oggi è nella mente di tutti circa l'essenza della Chiesa: la Chiesa è una comunione ( cfr. Hamer, L'Eglise est une communion, Cerf, 1962 ); una società animata da un solo e misterioso principio vitale, la grazia dello Spirito Santo; donde scaturiscono diversi principi semplicissimi e meravigliosi, come quello dell'eguaglianza fra tutti coloro che compongono la Chiesa: « omnes autem vos fratres estis », voi tutti siete fratelli fra voi ( Mt 23,8 ); come quello della distinzione dal resto dell'umanità non cristiana, chiamata mondo, sebbene nel mondo la Chiesa sia frammista e sommersa ( cfr. Gv 8,23; e Gv 15,19; e Gv 17,14-16, ecc. ); e quello, oggi da molti dimenticato, della originalità morale e formale propria della vita cristiana, rispetto a quella profana e pagana ( cfr. Rm 12,2 ); e della santità, avvertita come un'esigenza della propria coscienza, derivante dalla misteriosa inabitazione dello Spirito di Dio in ciascuna anima partecipante vitalmente alla comunione ecclesiale ( cfr. 1 Cor 3,16 ).
Ma per attenerci al carattere sociale della Chiesa ripeteremo col Concilio che la Chiesa è un popolo, il Popolo di Dio ( Lumen Gentium, n. 9, ecc. ); definizione che dev'essere integrata ( Congar, L'Eglise que j'aime, p. 37 ) con quella di Corpo mistico di Cristo, cioè di società vivente per virtù d'un medesimo principio unificante e animatore, ma società organica, nella quale differenti sono i carismi, differenti le funzioni, differenti le responsabilità ( cfr. 2 Cor 12,4ss ).
Di qui la comunione assurge a collegialità nel ceto episcopale, della quale avrete sentito parlare in occasione del recente Sinodo straordinario.
Ora se la Chiesa è quella comunione spirituale e visibile, che il progresso religioso del nostro tempo sembra aver afferrato come una conquista dottrinale e sociale, noi dobbiamo trarne una conseguenza, la quale sembra invece compromessa, in parte teoricamente, e ancor più praticamente; e la conseguenza è quella del rapporto di coesione, di solidarietà, di concordia, di armonia, di una parola di carità, che deve intercorrere fra i singoli membri ed i singoli ceti appartenenti alla Chiesa; questo rapporto si è fatto più evidente, dunque più obbligante, più stretto, più familiare ed amico; dovrebbe essere più fedele e più facile.
È così oggi nei fatti?
Il rapporto costituzionale, stabilito, prima ancora che dal diritto canonico, dal Vangelo, fra potestà e obbedienza, è anch'esso vittima della moda odierna della contestazione sociologica; e lo si vuole cambiare, minimizzare.
Negare non si può, tanto è chiara la sua origine divina, ma cambiare, cioè correggere, sì: perfezionare.
Ed a questo perfezionamento, auspice il Concilio, chi è responsabile nella Chiesa, chi esercita una qualsiasi autorità: direttiva, magistrale, pedagogica, amministrativa, apostolica si dice disposto, e già esso è sulla via d'una leale e palese esecuzione.
Ma « est modus in rebus »!
Vi sono alcuni pseudo-concetti a questo riguardo da cui dobbiamo guardarci.
Per esempio: si dice che l'autorità è servizio.
Giustissimo; ce lo ricorda il Signore, all'ultima Cena: « Chi governa sia come uno che serve » ( Lc 22,26 ).
Vi fa eco per Noi la spesso ripetuta parola sapiente del Manzoni nel ritratto del Vescovo ideale, Federico Borromeo: « Non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio » ( I Promessi Sposi, c. XXII ).
San Gregorio Magno Ci ha lasciato di sé, come Capo della Chiesa e Pastore dei Pastori, la definizione che tuttora abbiamo nel nostro protocollo pontificio: « Servo dei Servi di Dio ».
Ma questa formula esatta e ammonitrice non annulla la potestà del Papa, come ogni altra formula analoga riferita ad una legittima autorità: l'autorità nella Chiesa è per il servizio dei fratelli; non al servizio altrui; lo scopo cioè dell'autorità è il bene degli altri; non che gli altri siano la fonte dell'autorità stessa; la Chiesa, nell'esercizio dell'autorità, per usare un termine corrente è democratica nel fine, nella sua ragion d'essere; non nella sua origine, non derivando dalla così detta « base » il suo potere, ma da Cristo, da Dio, davanti al quale soltanto è responsabile.
Il che comporta un'altra importante precisazione, per la quale la potestà nella Chiesa non può rivestire le forme storicamente variabili che essa assume nel governo della società civile, come quando chi presiede ad essa ha solo l'ufficio di legalizzare ciò che la comunità ha elaborato e decretato; la potestà nella Chiesa conserva la libertà e l'iniziativa che il Signore ha conferite agli Apostoli, alla gerarchia, e non solo a garanzia dell'ordine esteriore, ma al bene sia dei singoli fedeli, sia della comunità; a quel bene che mette ai primi posti la dignità, la libertà, la responsabilità, la santificazione di tutti e di ciascuno i componenti il corpo ecclesiale.
Perciò quando oggi si dice che non si contesta nella Chiesa l'autorità come tale, ma si critica il modo di esercitarla, si dice bene, a condizione che la ricerca di questo modo ideale non autorizzi l'affrancamento, cioè la disobbedienza, dal modo reale e legittimo, con cui l'autorità esplica il suo mandato.
Così si dica del dialogo, che oggi fa le spese di tante discussioni non solo fra la Chiesa e chi di fuori la circonda, ma fra quelli altresì che sono dentro la Chiesa e vi hanno posizioni e funzioni differenti.
Ottima cosa il dialogo, inteso al rispetto e alla promozione della persona o del gruppo di fronte a chi deve disporre d'un dato ordinamento ecclesiale, o deve formare coscienze e costumi, conformi al disegno, o allo spirito di Cristo; educare all'intelligenza e all'amore del precetto è progresso pedagogico, che esigerà grande pazienza e arte sagace; ma non per questo il dialogo deve paralizzare l'esercizio normale della guida responsabile, né sostituire normalmente il libero esame del singolo fedele al giudizio del pastore o del maestro, né esigere un tal quale condominio dell'autorità, che la renda imbelle e irresponsabile.
Comprendiamo che la materia è delicata e complessa, ed è di grande attualità.
Non ne diciamo di più in questa sede.
Gli insegnamenti del Concilio sono chiari e abbondanti in proposito ( cfr. Lumen Gentium, n. 27, n. 32, n. 37; ecc. ).
Tanti maestri ne parlano ( cfr. D'Avack, « L'Osservatore Romano », 8 nov. 1969; T. Goffi, Obbedienza e autonomia personale, Ancora, 1965; C. Colombo, De auctoritate et oboedientia in Ecclesia; L. Lochet, Autorité et obéissance, Colloque d'Ephrem, Park, 1966; anche Rosmini, La società teocratica, Morcelliana, 1963, ecc. ).
Faremo bene a dedicare a questo problema capitale un'attenta e onesta riflessione.
Ma quanto a Noi, in questo momento insistiamo sulla visione della Chiesa, ch'è poi la visione della nostra vita nel pensiero di Dio che si attualizza nella nostra storia, alla visione della Chiesa, diciamo, come comunione; come comunione gerarchica, come « scienza dell'armonia », « consonantia disciplinae », per usare una parola d'un antico dottore ( Origene, Hom. 26 ).
Nella formazione della nuova mentalità ecclesiale, chiamiamola pure post-conciliare, dobbiamo sviluppare il senso della comunione, in cui, come membri della Chiesa, siamo inseriti.
Per quanto viva debba essere la coscienza della nostra libertà e della nostra personalità non dobbiamo dimenticare che non siamo né soli, né autonomi; che anzi tanto ci dobbiamo sentire unità a se stanti, autodeterminabili e responsabili, quanto in pari tempo avvertiamo d'essere collocati in un ordine comunitario e gerarchico: le due coscienze si sviluppano insieme, e con vicendevole stimolo.
Questo vuol dire essere cattolici: unici ed universali.
Ed è in questa acquisita pienezza della nostra personalità aderendo all'ordinamento, che obbiettivamente la riconosce e la trascende, cioè l'obbedienza alla volontà di Dio, anche e specialmente quando ci è manifestata per tramite d'un fratello autorizzato a farsene interprete, che viviamo il mistero della comunione gerarchica, cioè viviamo la Chiesa, e riflettiamo in noi il mistero di Cristo, la cui umana apparizione fu tutta dominata da una cosciente ed eroica adesione alla volontà del Padre: « factus oboediens usque ad mortem », si fece obbediente fino a morire ( Fil 2,5-8; Gv 6,38; Gv 8,29; etc.; da rileggere il capitolo: « Gesù e la vita » , in Adam, Cristo nostro Fratello, Morcelliana, 1931 ).
Vi è talvolta, ai nostri giorni, chi attende dal progresso della coscienza che la Chiesa oggi acquista di se stessa come ad una auspicata dissolvenza dei suoi rapporti e vincoli giuridici, che la costituiscono quale mistico corpo, visibile e organico, di Cristo nella realtà storica del mondo; ovvero vi è chi considera tale processo dottrinale come un trapasso dei poteri, onde la Chiesa si regge e adempie la sua missione, a profitto dei gradi inferiori rispetto a quelli superiori nel Popolo di Dio; noi guarderemo piuttosto alla Chiesa come a una solidarietà profonda ed organica; come a quella società, a quella comunione, « coinonia » dite il termine ormai noto dell'Apostolo Giovanni, che ci fa consorti della vita stessa di Dio ( cfr. 2 Pt 1,4 ), e che ci affratella tutti in Cristo ( cfr. 1 Gv 1,6-7 ).
Vi assista in questo studio amoroso la Nostra Benedizione Apostolica.