5 Luglio 1972
Noi prendiamo lo stimolo a questo breve colloquio dalla stagione in cui ci troviamo.
Siamo in questo atteggiamento tutti figli del nostro tempo; cioè facciamo dell'esperienza, vissuta in un dato momento, il libro dei nostri pensieri.
La stagione estiva offre a ciascuno un'esperienza nuova; ciascuno durante le così dette vacanze, chi più, chi meno, è messo a contatto con luoghi diversi, con forme di vita insolite, con conoscenze nuove, con esperienze originali.
Chi ripensa dentro di sé queste forme inconsuete, fossero pure del tutto occasionali e superficiali, di esperienze ( come avviene, ad esempio, viaggiando ), è sollecitato a proporsi uno dei più grandi e complessi problemi: che cosa è la vita?
che cosa la qualifica in modo essenziale?
Nasce da questa elementare, ma fondamentale questione una prima risposta, che vale la pena di ricordare; la vita è fatta per l'azione; non è statica, è dinamica; essa cambia, si sviluppa, si muove, cerca, desidera, lavora, tende a qualche scopo.
Non basta esistere, bisogna impiegare l'esistenza per raggiungere qualche cosa di nuovo, di più, di perfetto, di buono, di felice.
Se l'esperienza ha risvegliato in noi questa concezione della vita in cerca d'un fine, noi siamo arrivati alle soglie del problema morale, problema umano per eccellenza; se l'azione infatti, che dà incremento e significato alla vita, impegna ciò che in noi vi è di più umano, il pensiero, la volontà, e perciò la libertà, dire atto morale e dire atto umano è la stessa cosa ( Cfr. S. TH. I-IIæ, 1, 3 ).
Questa prima osservazione è già una conquista, che inviterebbe a farvi sosta con altre riflessioni, tra cui questa per ora ci basti: non si può prescindere dal valore morale della nostra vita.
Ora qui nasce una seconda osservazione; ed è questa: nel mondo in cui viviamo esiste, anzi resiste ancora un sistema morale, il quale imprima alla vita il suo volto umano, quale noi finora siamo abituati a considerare normale e autentico?
Notiamo alcuni aspetti generali del nostro tempo, dai quali la nostra vita è profondamente sconvolta.
Per esempio, uno degli aspetti più generali della storia presente è il cambiamento: tutto cambia.
Non vi è angolo della nostra vita che rimanga immune da cambiamento.
Ogni scienza, ogni arte, ogni attività, ogni rapporto sociale, ogni fenomeno collettivo, come la scuola, i trasporti, l'economia, l'assistenza sanitaria e sociale, i quadri legislativi e politici … tutto cambia, la mentalità pubblica, il costume, … tanto che la storia del nostro tempo si caratterizza con i termini di evoluzione, di progresso, di rivoluzione.
Il « tipo » umano non muta anch'esso?
Che cosa rimane di umano, di morale, in tanta vertiginosa trasformazione della vita?
Noi possediamo un patrimonio ereditato di concetti, di valutazioni, di tradizioni …
Che cosa è da conservare? che cosa da mutare?
Anche nel campo della Chiesa, custodito da secoli, quante forme di vita, quante usanze, quanti valori subiscono un processo critico circa la validità della loro permanenza; l'« aggiornamento », di cui tanto si parla, si traduce forse in un trasformismo, che altera non solo i connotati esteriori della vita ecclesiastica: lingua, abito, rito, attività … ma altresì i concetti interiori su cui si fonda, la fede, il culto, la compagine di carità e di disciplina?
Avvertiamo tutti, da un lato, che qualche cosa può e forse deve essere cambiato, ma nello stesso tempo, sappiamo d'altro lato che qualche altra cosa è così importante ( non foss'altro per certo valore suo proprio, come l'arte, la storia, la tradizione, il tesoro di istituzioni e di civiltà accumulato nei secoli … ); ed è così essenziale, come la verità divina e la costituzione ecclesiastica che ne è derivata autorevolmente e legittimamente, che non deve cedere a questa travolgente ondata di trasformismo, di abdicazioni, di infedeltà, ma deve essere difeso, conservato, riaffermato, rinnovato nel sentimento interiore e nelle forme esteriori, assolutamente.
Cioè, siamo davanti ad un dovere nuovo, proprio del nostro tempo, quello del discernimento fra ciò che è caduto, o forse meglio: perfezionabile, e ciò invece che dev'essere stabile e fisso, pena la vita, vogliamo dire la ragion d'essere inalienabile e permanente.
Diciamo subito: questo discernimento non lo potremo compiere arbitrariamente da noi stessi.
Membri, come siamo d'un corpo sociale organizzato e civile, dovremo essere riflessivi e rispettosi di quanto la società legittima e stabilita ci ordina e ci comanda; un problema d'autorità subito si impone, anche se questo non vieta soluzioni evolutive, che oggi anzi le costituzioni civili ammettono e promuovono.
E ciò tanto più nel corpo sociale e mistico, che si chiama la Chiesa, nel quale l'elemento divino esige un continuo sforzo di perfezionamento, e nel tempo stesso impone un ossequio fedele, fino all'eroismo, alla sua identità dogmatica ed ortodossa, tutelata e custodita, insegnata e interpretata da un'autorità legittima, a cui divinamente è stato commesso questo servizio di carità per la verità.
Ma concludiamo subito con due osservazioni, anzi due esortazioni.
La prima: dobbiamo renderci conto senza timore e senza interiore sfiducia verso il nostro tempo, che la Provvidenza ci ha fatto nascere in un'ora storica come la nostra, caratterizzata, dicevamo, dal cambiamento, dal progresso.
Procuriamo di capire questa condizione dell'umanità in via di sviluppo, e benediciamo con cuore saggio ed aperto le cose buone che lo sforzo umano sa offrire alla vita umana.
La seconda: non lasciamoci prendere dal capogiro delle metamorfosi che avvengono intorno a noi; ché anzi procuriamo di scoprire in esse un bisogno tanto più logico di principii superiori che devono fare da cardini ai movimenti in cui siamo impegnati, affinché questi non siano né travolgenti, né anarchici, né amorfi, ma piuttosto inviti ed impulsi a percorrere nel tempo le vie di Dio, che oltre il tempo ci devono condurre.
Con la nostra apostolica benedizione.