17 Luglio 1974
Alla scuola del Concilio, una scuola che deve dare la sua impronta alla vita cristiana del nostro tempo, noi siamo educati a guardare il mondo in cui viviamo con ottimismo, con rispetto, con simpatia; noi credenti, noi cristiani, noi membri della Chiesa.
E qui per mondo intendiamo la vita reale dell'umanità, quale essa è, quale potrebbe e dovrebbe essere, senza per questo nascondere al nostro sguardo i suoi malanni ed i suoi bisogni;
anzi facendo anche di questi aspetti negativi della scena umana un incentivo ad avvicinarla di più, a servirla di più, perché l'amore è alla base della nostra concezione cristiana del mondo;
e l'amore sa scoprire motivo del suo interesse dove il bene esiste, per riconoscerlo e per goderne;
e dove il male esiste, per curarlo e per porvi rimedio.
È questa una grande « maturazione » della coscienza cristiana e dell'atteggiamento generale della Chiesa nel tempo e nella società; e noi faremo bene a uniformare la nostra mentalità a questa visione, che, in un certo senso, possiamo dire nuova circa la valutazione del panorama esistenziale da cui siamo circondati, senza per questo perdere il senso profondo e reale del bene e del male, ch'è nella drammatica situazione della nostra vita, e senza allontanarci dalla disciplina del Vangelo e della Croce, che deve guidare a salvezza il nostro cammino pellegrinante su questa terra.
Questa visione comporta molte conseguenze, tra le quali una adesso noi noteremo; quella di riconoscere,
primo, una relativa, ma effettiva, autonomia al mondo profano, cioè a quello dove la religione, o meglio la Chiesa, non esercita alcuna diretta potestà;
secondo, di riconoscere altresì i « valori » di questo medesimo mondo profano, i pregi, le virtù, le opere, le istituzioni, di cui esso è ricco ed a cui, al nostro tempo, con gli studi scientifici e con le organizzazioni politico-sociali, esso ha dato prodigioso sviluppo;
e terzo, noi non avremo difficoltà a riconoscere che dalla coltura moderna possono derivare cospicui vantaggi alla migliore adesione e alla più efficace professione della nostra fede.
Nessuno ci creda perciò avversari di principio al progresso profano e civile del mondo;
nessuno ci accusi di « integrismo » religioso, nel senso di voler sottomesso direttamente alla sfera religiosa nella dottrina e nella pratica il mondo naturale;
nessuno ci giudichi come estranei alla vita vissuta, come superati rispetto alla evoluzione della storia, come cultori anacronistici del passato, ciechi ed ostili alla civiltà dell'avvenire.
Benediciamo il Signore, che, fin dalla prima pagina della Bibbia, ci ha insegnato, con la compiacenza che il Creatore manifestò per l'opera sua giudicandola « cosa buona » ( Cfr. Gen 1,21.25 ), l'ammirazione per il cosmo, per tutto ciò che è, e che riflette nella sua esistenza e nella sua composizione essenziale la potenza, la sapienza di Dio ideatore, creatore, sostenitore d'ogni cosa.
E benediciamo il Signore per la successiva rivelazione di bontà, di presenza, di amore, che Egli si degnò di offrire all'umanità con il piano misterioso di salvezza e con l'intervento del Verbo stesso di Dio nella storia tragica e gloriosa dell'uomo, e poi con un'animazione soprannaturale dello Spirito, mediante la quale una « nuova creatura » deve sortire dal piano della redenzione ( Cfr. Rm 8,21; 2 Cor 5,17 ).
Ma facciamo attenzione, fratelli e figli carissimi!
Questo ottimismo non ci tradisca!
Una volta di più: la visione d'una verità non ci faccia dimenticare la visione integrale della verità.
A che cosa noi ora alludiamo?
Alludiamo alla tentazione più grave del nostro tempo, quella cioè di arrestare la nostra compiacenza alla sfera « orizzontale », come ora si dice, per trascurare, per dimenticare, e finalmente per negare la sfera « verticale »; cioè per fissare il nostro interesse al campo visibile, sperimentale, temporale, umano, abdicando alla nostra vocazione verso il regno di Dio, invisibile, ineffabile, eterno e sovrumano.
L'ateismo moderno ha in questa scelta, esclusivamente positiva per le cose di questo mondo, e radicalmente negativa per le cose religiose e specificamente cristiane, la sua origine più seducente e più pericolosa.
Voi certamente conoscete le espressioni, fieramente concrete e disgraziatamente totalitarie, a cui questa aberrazione del pensiero moderno è arrivata, quando ha affermato con aggressiva virulenza che « l'uomo è per l'uomo l'essere supremo » ( Marx ), che l'antropologia deve sostituire la teologia ( Feuerbach ), che al posto dell'Essere supremo si deve collocare l'umanità ( Comte ), che « Dio è morto » per l'uomo moderno ( W. Hamilton. etc. ).
La religione non ha più ragione di essere, per questi profeti del materialismo, del positivismo, del fenomenismo sociale.
Si chiama secolarizzazione oggi quella tendenza del pensiero che rivendica ai valori puramente terrestri ed umani la loro realtà e la loro legittima e doverosa coltura.
E sta bene.
Ma ripetiamo: facciamo attenzione.
Se questa tendenza si isola e si svincola dalle basi filosofiche e religiose, che sono indispensabili nella costruzione della verità totale, della Realtà reale, essa progredisce camminando sopra una linea di insostenibile equilibrio; subito essa cede ad una gravitazione negativa; essa tende a farsi da secolarizzazione secolarismo, da distinzione di particolari valori positivi in negazione d'ogni altro valore filosofico e religioso;
e così essa è inghiottita nel suo fatale slittamento dall'agnosticismo,
dal laicismo, dall'ateismo, dove il pensiero manca di principii assoluti e trascendenti,
e deve o rinunciare ad un sistema logico e obiettivo di verità,
o sostituirlo con alienanti surrogati di inferme filosofie o di formidabili volontarismi rivoluzionari: stat pro ratione voluntas.
Non vi dispiaccia se noi ripetiamo: facciamo attenzione.
Il pericolo d'essere noi stessi, già elevati al livello della sapienza cristiana e alla fermezza della fede, trascinati verso questo orizzontalismo, vittime della fascinatrice debolezza del secolarismo, derivato da un'incauta e transigente secolarizzazione, esiste ed incalza su persone e su movimenti, che vorrebbero promuovere la giustizia nel mondo e la liberazione dell'uomo da tante sue sofferenze.
Il pericolo di ritenere valida la formula che intendesse limitare l'adesione a Cristo al fatto d'essere Egli « per gli altri » ( Cfr. Bonhoeffer ), quasi che ciò bastasse per riconoscere in Lui il maestro e il salvatore, senza proclamarne il mistero della divinità.
Il pericolo di attribuire diritti assoluti ed esclusivi a valori parziali.
Il pericolo di accogliere formule sociali, che, ad esempio erigendo a sistema la lotta di classe, la convertono inevitabilmente in odio di classe, e l'odio di classe in un possibile esercizio disumano del potere di classe ( Cfr. « Arcipelago Gulag ». ), con l'incapacità finale, per un seguace di Cristo, di assegnare all'amore di Dio il primo posto nella dinamica morale, e di stabilire su questo amore un inesauribile e incalzante amore per il prossimo, per l'uomo bisognoso di elevazione e di eguaglianza.
E così via.
Il discorso sarebbe ancora lungo; ma per ora ci basti il ricordo d'una sentenza del grande pedagogo della nostra civiltà, che fu S. Benedetto ( la cui festa abbiamo celebrata in questi giorni ): Nihil amori Christi praeponere, nulla anteporre all'amore di Cristo ( Cfr. G. De Rosa, Sulla secolarizzazione, il secolarismo, e la fede, in La Civiltà Cattolica 1970, voll. I e II ).