16 Luglio 1975

Noi vorremmo che ciascuno di voi, Pellegrini dell'Anno Santo, sentisse nascere nel proprio spirito questa domanda semplicissima: … e dopo che sarà?

Osserviamo innanzi tutto che questo sguardo sul prossimo futuro è oggi di tutti, non solo nostro.

È nello spirito del nostro tempo auspicare sempre un avvenire nuovo e migliore.

Ogni giorno si annunciano programmi, che si presentano come un cambiamento, un rinnovamento.

Non siamo mai soddisfatti di ciò che siamo, e di ciò che abbiamo.

Si direbbe che questa tensione verso una novità, un'evoluzione, una trasformazione verso un'espressione diversa e migliore della vita, è spesso proporzionale, ancor più che ai bisogni e ai disagi in cui la nostra vita stessa si trova, all'abbondanza di beni di cui essa gode; invece di saziarci i beni, che la civiltà ci procura, essi ci dànno nuova fame e nuovo impulso per la loro crescita, o per il loro cambiamento.

Il ritmo, tanto veloce e divoratore, del tempo che passa, è entrato nello spirito moderno e vi fa legge: o per accusare l'insoddisfazione dei beni raggiunti ( è oggi la noia, la sazietà, la nausea della gioventù più favorita, che preferisce ripudiare le forme e gli agi del benessere raggiunto, e retrocedere in espressioni di costume primitivo e incolto ), ovvero per suscitare ansie e aspirazioni di più dispendiose e raffinate maniere di godere il tempo e la vita.

Non siamo più amanti della tranquillità, non accettiamo più il mondo quale lo abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti; siamo tutti dinamici, progressisti, novatori.

Questa tendenza pratica, cioè applicata all'azione, non è soltanto profana e comune, in genere, ad ogni condizione della vita moderna.

È anche religiosa, e propriamente cristiana.

Quelli che giudicano la vita cristiana come statica, immobile, conservatrice, vedono soltanto un aspetto di essa, quello che si riferisce a valori perenni e irrinunciabili del cristianesimo, come la fede, la grazia, la comunione ecclesiale, la legge di Dio, la coerenza storica e civile con la tradizione, eccetera; ma tale giudizio, applicato alla vita morale, al dovere nascente dalla vocazione cristiana, non è esatto; è contrario anzi alla legge di vita, propria del Vangelo, che ci spinge a guardare avanti ( Cfr. Fil 3,13 ), che ci obbliga al fare, all'agire, al progredire sulle vie non solo spirituali, ma anche pratiche del bene, con esigenza che tende al vertice della perfezione e della carità.

Nemmeno l'espressione religiosa, puramente verbale, può essere programma soddisfacente per un vero seguace di Cristo: « Non chiunque, ci ammonisce Cristo, mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi farà ( ripetiamo: chi farà ) la volontà del Padre mio ch'è nei cieli » ( Mt 7,21 ).

Il Vangelo, cioè la nostra religione, è, nel campo morale, nel campo dell'azione, volontarista.

La nostra salvezza, per quanto da noi dipende, non è assicurata dal nostro « essere » ( che costituisce piuttosto una responsabilità, un talento da trafficare, come c'insegna la famosa parabola di S. Matteo - Mt 25,15ss ), ma dal nostro « fare », dal bene voluto e compiuto, dal servizio reso al prossimo bisognoso ( Cfr. Mt 25; Lc 10,30-37 ).

La visione programmatica circa la doverosa efficienza del cristiano nel rapporto con il suo prossimo ci apre davanti tanti sentieri, che sollecitano i nostri passi a farsi rapidi e arditi; ma prima di fissarvi il nostro sguardo, ci fermiamo un istante a considerare un aspetto complementare, ma non meno essenziale del dinamismo operativo; ed è il disegno globale, sociale, ecclesiale, che Cristo intende promuovere, possiamo pur dire realizzare, mediante la nostra operosità benefica.

Egli vuole « costruire la sua Chiesa », cioé la famiglia umana compaginata sull'unità da Lui messa a fondamento di questo misterioso, immenso, stupendo edificio ( Cfr. Ef 5,24-27 ), che è la sua Chiesa ( Mt 16,18 ).

« Gesù Cristo ci ama singolarmente, ma non separatamente.

Egli ci ama nella sua Chiesa » ( De Lubac, Méd. sur l'Egl., 32 ).

La nostra prima carità dev'essere quella che Cristo ebbe per la Chiesa medesima, dando per lei la sua vita ( Gal 2,20; Ef 5,25 ).

Dobbiamo, in ossequio ad un primo dovere cristiano, ricomporre, ravvivare l'amore interno nella Chiesa di Dio.

Abbiate, Fratelli e Figli carissimi, abbiate la bontà di leggere, rileggere anche, la nostra esortazione apostolica Paterna cum benevolentia, dell'otto dicembre dello scorso anno ( 1974 ), sulla riconciliazione all'interno della Chiesa: dobbiamo essere una cosa sola, dobbiamo camminare insieme.

Basta con il dissenso interiore alla Chiesa;

basta con una disgregatrice interpretazione del pluralismo;

basta con l'autolesione dei cattolici alla loro indispensabile coesione;

basta con la disubbidienza qualificata come libertà!

Bisogna, oggi più che mai, costruire, non demolire la Chiesa, una e cattolica.

L'amore risorto e rinvigorito nella santa Chiesa di Dio questo dev'essere il nostro primo post-Giubileo.

Con la nostra Benedizione Apostolica.