L'editto di Ciro e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme (538-515 a.C.)

Fonti:

editto di Giro ( Esd 6,3-5 );

scambio epistolare fra il satrapo Tattenai e Darlo I ( Esd 6,6-12 );

scambio epistolare tra i funzionari della Samaria e Artaserse I ( Esd 4,7-22 );

Aggeo; Iscrizione di Ciro ( su cilindro di terracotta ) sulla conquista di Babilonia

La decadenza dell'impero babilonese, che ebbe inizio alla morte di Nabucodonosor ( 562 ), e il sorgere della potenza persiana sotto l'achemenide Ciro rappresentano il contesto storico del messaggio del Deuteroisaia.

Intorno alla metà del VI secolo i Persiani erano soggetti al predominio dei Medi.

Il principe persiano Ciro rovesciò il re medo Astiage e si fece proclamare re dei Medi e dei Persiani.

Egli divenne in tal modo signore dell'impero medo, che comprendeva tutto l'Iran, una parte della Mesopotamia settentrionale, l'Armenia e l'Asia minore sino al fiume Halys.

Dopo la vittoria su Creso, re di Lidia ( 546 ), anche l'Asia minore occidentale fu assoggettata al potere di Ciro.

Nel 539 questi attaccò il regno babilonese e sconfisse Nabonide, l'ultimo re di Babilonia: in tal modo, Ciro prese possesso dell'impero neobabilonese, di cui facevano parte anche la Palestina e la Siria.

Cambise, suo figlio e successore, riuscì, nel 525, a sottomettere al proprio dominio anche l'Egitto: tutta l'Asia anteriore ( l'Iran, l'intera Mesopotamia, l'Asia minore, la Palestina, la Siria e l'Egitto ) veniva così a trovarsi soggetta, per la prima volta nella storia, al potere di un unico sovrano.

All'impero persiano doveva essere destinata un'esistenza di quasi due secoli.

Motivo non ultimo della stabilità di un tale impero fu il fatto che i Persiani trattarono i popoli sottoposti al loro dominio con maggiore tolleranza di quanto in precedenza non avessero fatto Assiri e Babilonesi.

I Persiani, senza dubbio nel proprio interesse, permettevano che i popoli loro sottomessi conservassero i modi di vita tradizionali, in particolare i culti ereditati dai padri, e addirittura li favorivano.

In alcuni casi essi ripristinarono i culti locali che i Babilonesi avevano messo al bando.

Tale politica religiosa dei Persiani ebbe importanti conseguenze anche per il culto che si celebrava nel tempio di Gerusalemme, per la colonia ebraica d'Egitto e per i Giudei deportati a Babilonia.

Nel 538, probabilmente su richiesta di questi ultimi, Ciro emanò un editto in cui si ordinava la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e la restituzione degli arredi incamerati un tempo da Nabucodonosor; le spese per la ricostruzione sarebbero state sostenute dalle finanze pubbliche dello stato persiano.

Il testo originale di questo decreto è contenuto in Esd 6,3-5.

Della solenne restituzione degli arredi del tempio venne incaricato un certo Sesbassar, probabilmente un ebreo dal nome babilonese.

L'opera di ricostruzione del tempio non fu però avviata: le misere condizioni in cui ancora versavano Gerusalemme e il paese, una sopravvenuta siccità e il cattivo raccolto che ne seguì raffreddarono l'interesse per la ricostruzione del tempio.

Ciascuno era troppo occupato coi suoi propri problemi, tanto che l'opinione comune suonava: « Non è ancora venuto il tempo di ricostruire la casa di Yahweh » ( Ag 1 ).

L'impulso alla ripresa dei lavori di costruzione interrotti venne, 18 anni dopo l'editto di Ciro, dai profeti Aggeo e Zaccaria.

Il loro annuncio avveniva sullo sfondo delle lotte per la successione che ebbero inizio dopo la morte di Cambise ( 522 ).

Darlo I, che discendeva da un ramo laterale degli Achemenidi, era riuscito a imporsi, dopo un anno di lotte cruente, sul suo rivale Gaumata.

Di fronte al disordine dei tempi Aggeo e Zaccaria proclamarono che l'inizio del regno di Dio era imminente; che il presupposto per la sua venuta era però la ricostruzione del tempio, e che le presenti difficoltà non costituivano un ostacolo, quanto piuttosto un castigo divino per lo stato di abbandono in cui esso era lasciato.

Aggeo rivolse il suo messaggio direttamente al sommo sacerdote Giosué e a Zorobabele, governatore di Gerusalemme e nipote di Ioiachin: a questo discendente della dinastia di Davide Aggeo e Zaccaria legavano le loro speranze messianiche.

Aggeo lo indicò come il « sigillo di Yahweh » ( Ag 2,23 ), cioè come l'eletto per mezzo del quale Yahweh porta a compimento i suoi piani.

Non sappiamo quale accoglienza questo annuncio abbia avuto fra il popolo, che cosa Zorobabele stesso ne pensasse e come reagissero i Persiani.

In tutti i casi, nel 520 Zorobabele aveva messo mano alla ricostruzione del tempio ( Ag 1,12; Esd 5,1s ).

I lavori di costruzione non passarono inosservati da parte persiana.

In Esd 5,6-6,12 ci è conservato in aramaico, la lingua ufficiale in Palestina-Siria e in Egitto, uno scambio epistolare fra Tattenai, satrapo dell'« Oltrefiume », e Dario I.

Tattenai, nel suo rapporto, mette al corrente l'imperatore dei lavori di costruzione in corso, lo informa del fatto che gli anziani di Gerusalemme si richiamano a un editto di Ciro e gli chiede direttive in merito.

Nella sua risposta, Dario cita e conferma espressamente l'editto di Ciro; ordina poi energicamente da parte sua di favorire i lavori di costruzione, aggiungendo che le spese per le quotidiane offerte sacrificali devono essere sostenute dalle finanze statali.

Il tempio di Gerusalemme, come già era accaduto nell'epoca precedente l'esilio, veniva a svolgere in tal modo le funzioni di santuario di stato.

Suprema autorità religiosa era così il grande re persiano, come lo erano stati un tempo i discendenti di Davide, o i re di Assur all'epoca della dominazione assira.

Mentre però questi ultimi avevano preteso che al culto di stato assiro fosse riservato l'altare principale, Dario non avanzò pretese del genere: al contrario, in accordo con la politica religiosa dei re persiani, egli diede esplicite direttive in base a cui il tempio di Gerusalemme doveva essere riservato, in conformità alla tradizione, al culto di Yahwe, col solo onere della preghiera quotidiana per il grande re.

In seguito, i lavori di ricostruzione procedettero senza intoppi.

Il risorto santuario di Gerusalemme venne inaugurato nella primavera del 515.

« Israele »: tale nome non poteva ormai più indicare l'unione delle dodici tribù, che aveva addirittura cessato di esistere nella sua forma originaria, ne poteva più designare un organismo statale com'era avvenuto, all'incirca al tempo di Saul, per lo stato unitario o, nel periodo successivo alla separazione, per il regno del nord.

Il nome « Israele » venne usato da allora in poi per indicare la comunità cultuale che si riuniva intorno al tempio di Gerusalemme e che era tenuta insieme dalla partecipazione a tale culto.

A questa comunità religiosa sentivano di appartenere anche coloro che erano stati deportati a Babilonia.

Gli Ebrei deportati in terra straniera si mantennero anzi più fedeli alle antiche tradizioni di quanto non facessero, in generale, quelli rimasti in patria.

Fu proprio dai deportati che vennero, in seguito, i maggiori impulsi alla riforma della comunità religiosa di Gerusalemme.

Nella politica di tolleranza nei confronti dei popoli sottomessi, caratteristica dei Persiani, rientra anche l'iniziativa, da essi presa, di revocare i severi provvedimenti dei Babilonesi.

Nel corso di questa riparazione i Persiani concessero agli Ebrei deportati a Babilonia il ritorno in patria.

Non possediamo nessuna notizia autentica sull'anno in cui Venne dato il permesso ufficiale di rimpatrio o sul re che lo accordò, ne sull'anno in cui i primi rimpatri ebbero luogo: il testo originale dell'editto di Ciro ( Esd 6,3-5 ) non contiene nessuna informazione al riguardo.

È tuttavia senz'altro possibile che i primi rimpatri siano avvenuti contemporaneamente alla restituzione, effettuata da Sesbassar, degli arredi del tempio, come viene presupposto nel testo dell'editto di Ciro conservateci, nella sua forma ampliata, dal Cronista ( Esd 1,2-4 ).

In ogni caso i rimpatri dovettero aver luogo nella prima metà del V secolo al più tardi: è quanto emerge dal carteggio tra i funzionari che governavano la Samaria e il re Artaserse I ( 465-424 ), riportato, nell'originale aramaico, in Esd 4,7-22.

I funzionari che governavano la Samaria, membri, certamente, della classe dominante straniera insediata nella regione dagli Assiri, inviarono una lettera al re per richiamare la sua attenzione sul fatto che i Giudei si accingevano, per iniziativa di coloro che erano rimpatriati, a ricostruire la cinta muraria di Gerusalemme: che l'opera di fortificazione della città, tuttavia, nascondeva il rischio di gravi disordini e di insubordinazioni.

In seguito a questo intervento Artaserse ordinò di sospendere la ricostruzione delle mura.

L'episodio è un esempio di quale forza d'iniziativa emanasse dai reduci, e di quale influenza essi fossero in grado di esercitare su quanti erano rimasti in patria.

Esso mostra, inoltre, quanto coloro che governavano la Samaria temessero la concorrenza da Gerusalemme, ora che questa si andava nuovamente rafforzando.