Esdra

Fonti:

istruzioni ufficiali date a Esdra ( Esd 7,12-26 ).

L'opera di Neemia era consistita, a parte i provvedimenti riguardanti il culto appena menzionati, nella riorganizzazione politica di Gerusalemme e di Giuda.

Il compito di dare una solida disciplina cultuale alla comunità toccò invece a Esdra.

Non è più possibile stabilire con certezza quale rapporto cronologico abbia legato Esdra e Neemia, poiché le antiche fonti non ci forniscono in proposito nessuna informazione diretta.

La disposizione del materiale tradizionale nella sequenza Esdra-Neemia risale al Cronista, redattore di un'opera storica della fine del IV secolo circa che comprende, oltre i libri di Esdra e di Neemia, i due libre delle Cronache.

Il fatto che Neemia abbia dovuto prendere provvedimenti anche in campo cultuale ha fatto supporre che la sua missione sia avvenuta anteriormente a quella di Esdra.

Questa argomentazione non è tuttavia del tutto convincente: si può pensare, infatti, che anche dopo la riorganizzazione del culto da parte di Esdra non tutti gli inconvenienti in questo campo fossero stati eliminati.

In favore della successione tramandata dal Cronista si è fatto valere il motivo che « non è pensabile che il redattore abbia confuso completamente gli avvenimenti », e che l'invio di Esdra non presuppone che la Giudea costituisse già una provincia a sé, retta da un proprio governatore.

Che la comunità religiosa dell'epoca successiva all'esilio mancasse di una stabile disciplina, e che vi fossero numerosi inconvenienti nell'ambito del culto, risulta soprattutto dal libro di Malachia.

Nella forma di un dialogo serrato, il profeta rimprovera la comunità religiosa per la sua scarsa devozione, per la qualità scadente delle vittime offerte in sacrificio, per la trascuratezza nel servizio divino da parte del personale addetto al culto, per la leggerezza con cui si ricorre al divorzio e per la negligenza nel pagamento delle decime.

Circa l'attività di Esdra siamo informati dall'editto reale di Artaserse ( probabilmente Artaserse I ), riportato nell'originale aramaico in Esd 7,12-26, e contenente le istruzioni date a Esdra.

Esdra, uno dei sacerdoti deportati, fu inviato in Giuda in qualità di « scriba della Legge del Dio del cielo ».

Il titolo di « scriba » è, nel linguaggio burocratico persiano, il titolo che compete a un funzionario o ad un commissario di stato; « Dio del cielo » è, sempre in persiano, la denominazione ufficiale di Yahweh, il Dio d'Israele.

A Esdra venne affidato, da parte persiana, l'incarico di proclamare a Gerusalemme e in Giuda la « Legge del Dio del cielo », e gli furono conferiti tutti i poteri necessari per renderla esecutiva.

I membri della comunità religiosa venivano a godere così della protezione di questa legge riconosciuta dallo Stato, ma erano altresì tenuti a osservarne le prescrizioni.

In tal modo la comunità religiosa di Gerusalemme divenne una comunità particolare legittimata dallo Stato, che regolava i propri affari in base a una propria legge riconosciuta dall'autorità statale.

I Persiani ritenevano evidentemente che tale provvedimento costituisse la migliore garanzia perché la situazione nella provincia di Giuda fosse ordinata e stabile.

In occasione della festa delle capanne Esdra diede lettura della legge e impegnò la comunità ad osservarne le prescrizioni.

Di quale legge si trattasse non siamo più in grado di dire con certezza: si è pensato alla « legge di santità » ( Lv 17-26 ), a prescrizioni rituali come quelle contenute in Lv 1-7 e Lv 11-15, al codice sacerdotale o addirittura all'intero Pentateuco.

A favore di quest'ultima supposizione potrebbe deporre il fatto che la comunità successiva all'esilio aveva ricevuto dal codice sacerdotale una profonda impronta, ma che anche il Deuteronomio aveva esercitato su di essa una grande influenza, come possiamo rilevare dall'opera storica delle Cronache.

All'invio di Esdra erano legati alcuni ulteriori privilegi: il permesso ufficiale da parte del re, per ogni deportato, di far ritorno in Giuda, un dono straordinario dello stesso re per il tempio di Gerusalemme, il permesso per Esdra di raccogliere fra i deportati offerte volontarie, in denaro o in natura, per le necessità del tempio, il rinnovo dell'ordine, dato in passato da Dario, per cui parte delle spese per i sacrifici doveva essere sostenuta dalle finanze dello Stato e, infine, l'esenzione fiscale per tutto il personale addetto al culto.

L'avvio dato alla costruzione del tempio sotto Sesbassar, il costituirsi di Giuda in provincia sotto Neemia e, infine, la riorganizzazione del culto sotto Esdra, ci fanno capire quanto fosse vivo l'interesse dei deportati per la madrepatria, e come soprattutto dai deportati, o meglio dai reduci, venissero gli impulsi alla ricostruzione e alla riforma cultuale.

Con la riforma di Esdra la comunità religiosa di Gerusalemme acquistò quell'impronta che doveva poi conservare, nell'essenziale, per secoli.

Il culto era modellato sul programma del codice sacerdotale: al vertice della comunità stava il sommo sacerdote; l'intero servizio sacrificale era interdetto ai laici e affidato a sacerdoti zadociti.

I leviti costituivano una sorta di « clerus minor »: dovevano preparare i sacrifici e fungevano da cantori e da custodi alle porte.

La musica era affidata agli schiavi del tempio ( « nethìnìm » ).

Il rito sacrificale avveniva principalmente nella forma di un rito d'espiazione.

Tra le feste svolgeva un ruolo particolare soprattutto il grande giorno della riconciliazione, nel quale i peccati della comunità venivano trasferiti ritualmente sul « capro espiatorio », ed erano in tal modo cancellati ( Lv 16 ).

Da Esdra in poi, la Legge divenne un elemento essenziale, che regolava tutta quanta la vita.

Essa era sentita non come un peso, ma come il più alto dono di Dio: la gioia della Legge pervade interamente alcuni salmi ( Sal 1; Sal 18; Sal 118 ).

Per poter regolare, in base ad essa, ogni settore della vita, era però necessario conoscerla, interpretarla e insegnarla; si formò così la nuova classe degli scribi, il cui compito era di interpretare e di applicare la Legge.

Accanto al rito sacrificale, legato al tempio di Gerusalemme, si vene formando, nel corso della dominazione persiana, un servizio divino che, essendo celebrato nella scuola e nella sinagoga, non era legato al luogo di culto, e consisteva nella lettura della Legge, nella sua interpretazione e nella preghiera.

Per questi motivi le Sacre Scritture acquistarono un'importanza sempre maggiore.

Nel IV secolo al più tardi, ma probabilmente già qualche tempo prima, si ebbe la redazione finale del Pentateuco, il V libro di Mosé.

Il redattore finale pose alla base della propria opera il codice sacerdotale con la sua impalcatura cronologica, e vi inserì il jahvista e l'elohista, che già nell'epoca precedente l'esilio erano intrecciati l'uno con l'altro.

Il Pentateuco acquistò, d'ora in avanti, l'autorità di un testo canonico, e fu d'allora innanzi considerato, nella sua totalità, come la « Legge », la « Torah ».

Al III secolo risale invece l'inserimento nel canone dei profeti e, infine, dei rimanenti scritti dell'Antico Testamento.

Poiché l'appartenenza alla comunità religiosa posteriore all'esilio non dipendeva da fattori etnici, ma dalla posizione nei confronti della « Torah », anche per gli stranieri che si fossero sottomessi alla Legge e si fossero sottoposti alla circoncisione, esisteva ora la possibilità di diventare membri proseliti della comunità di Gerusalemme.

Dopo la morte del governatore Bagoa, successore di Neemia, i Persiani affidarono l'amministrazione di Giuda ad un consiglio di anziani, composto da sacerdoti e da laici, che più tardi verrà chiamato sinedrio: al suo vertice sedeva il sommo sacerdote, al quale toccarono, così, anche funzioni politiche.

Egli divenne inoltre il rappresentante politico della comunità religiosa di Gerusalemme.

Come mostrano rinvenimenti di monete con la scritta « jhd » ( Giuda ), nel IV secolo la comunità di Gerusalemme ottenne addirittura il diritto di battere moneta.