La prima insurrezione giudaica

Il regno di Agrippa I rappresentò semplicemente un breve intermezzo di tre anni.

Alla sua morte l'intera Palestina venne incorporata nella provincia di Siria e fu sottoposta al governo di un procuratore.

La Giudea e la Samaria erano già state rette da un procuratore nel periodo che va dalla destituzione di Archelao ( 9 d.C. ) al regno di Agrippa ( 41 d.C. ).

Il procuratore era a capo delle truppe d'occupazione; aveva il compito di provvedere alla pace e all'ordine e di vigilare sulla riscossione delle imposte; gli competeva inoltre l'amministrazione della giustizia in ultima istanza.

Per il resto il governo era affidato agli Ebrei: le imposte erano riscosse da esattori ebrei ( « pubblicani » ), e da questi inoltrate ai Romani; il sinedrio esercitava poi la sua propria giurisdizione; le sentenze capitali, tuttavia, erano riservate al procuratore.

I Romani si sforzarono di avere riguardo per le particolarità della comunità ebraica, e ne rispettarono le tradizioni religiose.

Gli Ebrei erano i soli ad essere esentati dal culto imperiale.

Per tenere tale culto lontano dal centro religioso della comunità ebraica, il governatore risiedeva non a Gerusalemme, ma a Cesarea.

Le truppe romane avevano l'ordine di non portare nessuna insegna imperiale a Gerusalemme, e di non mettere piede nel tempio.

Ciononostante, già nel periodo compreso fra il 9 e il 41 d.C., si ebbero in Giudea gravi tensioni e contrasti tra le forze d'occupazione e i membri della comunità di Gerusalemme.

Quale potenza straniera, Roma fu fin dal principio osteggiata dagli Ebrei.

I procuratori lasciarono che spesso si mancasse al necessario rispetto; talvolta si resero colpevoli di arbitri, e cercarono di ricavare il maggior profitto possibile dalla riscossione delle imposte.

Il censimento effettuato dal primo governatore Quirinio per il rilevamento delle imposte provocò una forte animosità nei confronti dei Romani.

Pilato ( 26-36 d.C. ) fu aspramente osteggiato allorché decise di esporre a Gerusalemme degli scudi dorati recanti un'iscrizione sacra dedicata all'imperatore.

Per costruire un acquedotto che doveva rifornire Gerusalemme, fece ricorso al tesoro del tempio.

A motivo di soprusi commessi contro i Samaritani, egli venne poi richiamato a Roma a rendere conto del proprio operato.

Quando l'imperatore Caligala, spacciandosi per un dio, pretese che in tutto l'impero si venerasse la sua figura, gli Ebrei, che ovviamente si rifiutarono di obbedire a un tale ordine, vennero a trovarsi in una situazione quanto mai difficile.

Ad Alessandria, nel 38 d.C., si tentò di costringerli a prendere parte al culto dell'imperatore, la cui statua fu esposta forzosamente nella sinagoga.

Altre sinagoghe furono incendiate e iniziò, nei confronti degli Ebrei, una sanguinosa persecuzione.

Al suo passaggio in Alessandria Agrippa II fu apertamente dileggiato.

Nel 39 d.C. alcuni Ebrei fedeli alla Legge abbatterono un altare consacrato all'imperatore eretto dalla popolazione di Iamnia.

Caligola ordinò allora di esporre la statua dell'imperatore nel tempio di Gerusalemme.

A Sidone e a Tiberiade gli Ebrei, profondamente offesi, tempestarono di suppliche il governatore Petronio.

Questi capì che un'introduzione forzata del culto imperiale avrebbe avuto conseguenze incalcolabili.

Insieme ad Agrippa, pregò l'imperatore di revocare l'ordine dato, ma invano; Petronio osò allora trasgredire l'ordine ricevuto.

L'assassinio di Caligola ( 41 d.C. ) consentì alla comunità religiosa di Gerusalemme di evitare la sciagura incombente, e a Petronio di sfuggire all'esecuzione della sentenza di morte già pronunciata.

L'imperatore Claudio fu abbastanza ragionevole da esentare i membri della comunità religiosa ebraica dalla partecipazione al culto imperiale.

In tal modo poté anche aver fine la penosa situazione in cui si trovavano gli Ebrei di Alessandria.

La loro posizione di privilegio in materia religiosa attirò tuttavia sugli Ebrei l'odio di tutto l'impero.

L'ostilità verso Roma trovò in quel periodo la sua espressione estrema nel partito degli Zeloti ( « fanatici » ), che si formò nell'epoca successiva al censimento di Quirinio.

Gli Zeloti provenivano dai circoli dei Farisei, cui li accomunava l'osservanza rigorosa della Legge e l'attesa del tempo finale.

Entrambi i gruppi erano convinti che il regno messianico e la liberazione dalla dominazione straniera fossero collegati inscindibilmente.

I Farisei sopportavano pazientemente la dominazione romana come un flagello divino che solo la preghiera poteva allontanare: attendendo l'avvento del tempo messianico e la liberazione dai Romani unicamente da un intervento di Dio, essi respingevano conseguentemente qualsiasi ricorso alla violenza.

Gli Zeloti cercavano invece di provocare con la propria azione l'avvento del tempo messianico, e di scuotersi di dosso il giogo romano con la forza delle armi.

Riconoscere la sovranità di un imperatore pagano avrebbe significato per essi trasgredire il comandamento dell'adorazione esclusiva dell'unico Dio: per questo motivo gli Zeloti rifiutavano di pagare le imposte ai Romani.

Da principio, naturalmente, essi poterono sopravvivere soltanto come « movimento clandestino ».

Entrarono in scena, inizialmente, con semplici azioni di disturbo, riuscendo però a creare disordine in tutto il paese.

Sotto il governo dei procuratori, dopo la morte di Erode Agrippa, la tensione fra Romani ed Ebrei si aggravò sempre più.

Leggerezze, provvedimenti troppo severi, soprusi da parte dei governatori ebbero come conseguenza che i sostenitori degli Zeloti crebbero di numero.

Vendette, eccessi e violenze da parte degli Zeloti provocarono di contro rappresaglie da parte dei Romani.

Sotto il procuratore Ventidio Cumano ( 48-52 d.C. ), durante le festività di Pasqua, un soldato romano, con la sua condotta vergognosa, provocò gli Ebrei ad una rivolta che Cumano fu costretto a reprimere con la forza.

Nelle vicinanze di Bet-Oron uno schiavo imperiale fu aggredito e derubato.

Nelle azioni di rappresaglia che ne seguirono contro i villaggi circostanti, uno dei soldati romani impiegati nell'azione distrusse un rotolo della Legge.

Il governatore poté riportare la calma fra gli Ebrei oltremodo indignati solo con l'esecuzione capitale del soldato.

In Samaria dei pellegrini galilei vennero assassinati dai Samaritani.

Non avendo il governatore chiesto ragione del fatto ai colpevoli, gli Zeloti passarono all'azione compiendo scorrerie in Samaria, uccidendo e incendiando.

Quando Cumano prese dei provvedimenti, ne nacquero pericolosi disordini, che si placarono soltanto allorché l'imperatore Claudio, su consiglio di Agrippa II, fece giustiziare i capi dei Samaritani e un ufficiale romano, e destituì Cumano dalla sua carica.

Sotto il procuratore Antonio felice ( 52-60 d.C. ) si formò il movimento clandestino dei Sicari, così detti per il corto pugnale ricurvo ( « sica » ) che portavano sempre nascosto sotto la veste.

Essi usavano l'assassinio a tradimento quale mezzo per eliminare gli avversari politici, e non indietreggiarono di fronte all'assassinio del sommo sacerdote Gionata.

La situazione, già tesa, venne ulteriormente aggravata dall'entrata in scena di persone esaltate che, spacciandosi per profeti, risvegliavano speranze messianiche.

I movimenti di fanatici che le suscitavano furono soffocati nel sangue dai Romani.

Corruzione, cattiva amministrazione e spietato sfruttamento del paese toccarono il culmine sotto i procuratori Albino ( 62-64 ) e Gessio Floro ( 64-66 ).

A questo punto, non occorreva che una scintilla perché l'indignazione generale si trasformasse in aperta rivolta.

A Cesarea ci fu una contesa fra Ebrei e Siriani circa il diritto di cittadinanza.

Floro, che pure si era lasciato corrompere dal denaro degli Ebrei, rinviò le parti ad un tribunale imperiale a Roma.

Allorché gli Ebrei, che avevano perso la causa, furono costretti ad abbandonare la città per sottrarsi alle molestie dei Siriani, l'indignazione giunse all'estremo.

L'impulso all'aperta rivolta venne dalla pretesa di Floro di prelevare 17 talenti dal tesoro del tempio.

All'aperto scherno di cui fu fatto oggetto da parte degli Ebrei a Gerusalemme, Floro rispose ordinando di saccheggiare una parte della città e facendo crocifiggere alcuni fra i cittadini più in vista.

Tutti i tentativi fatti dal sommo sacerdote, dai Farisei e dai Sadducei per impedire che scoppiasse una rivolta fallirono.

I rivoltosi occuparono, sotto la guida di Eleazaro, figlio del sommo sacerdote, il settore del tempio, e abbatterono le sale di collegamento fra questo e la fortezza Antonia.

Agrippa II si affrettò a Gerusalemme, e vanamente esortò alla moderazione.

Quando gli insorti ebbero ottenuto con la forza la sospensione dell'offerta quotidiana all'imperatore, la rottura con Roma fu definitiva.

Il sommo sacerdote e prudenti circoli di Farisei e di Sadducei tentarono invano di reprimere la rivolta.

Essendogli richiesti degli aiuti a tale scopo, Agrippa inviò loro 3000 cavalieri, che tuttavia non riuscirono a concludere alcunché contro gli insorti, e dovettero rifugiarsi nella fortezza di Erode, da dove fu concesso loro di ritirarsi incolumi.

Il sommo sacerdote venne assassinato; i rivoltosi diedero alle fiamme il suo palazzo e quello di Agrippa, nonché la roccaforte Antonia.

I superstiti del presidio romano, che si erano rifugiati nelle torri fortificate del castello di Erode, vennero massacrati dopo che ebbero deposto le armi, nonostante fosse stata promessa loro l'incolumità in caso di resa.

Frattanto gli insorti erano riusciti ad impadronirsi della fortezza di Masada e dell'Herodium, che erano presidiati da una guarnigione poco numerosa.

La rivolta divampava ormai in tutto il paese.

A Cesarea, Ascalon, Scitopoli, Damasco e Alessandria si ebbero, di conseguenza, sanguinose persecuzioni nei confronti degli Ebrei.

Poiché il procuratore Floro non era più in grado di soffocare l'insurrezione, nell'autunno del 66 d.C. giunse in Giudea, alla testa di una legione, il governatore della Siria C. Cestio Gallo.

Questi penetrò nel sobborgo settentrionale di Gerusalemme, ma non riuscì ad espugnare il settore del tempio.

Costretto a ritirarsi, fu colto di sorpresa da un attacco degli insorti presso Bet-Oron e subì gravi perdite.

Buona parte delle armi e dell'equipaggiamento cadde in mano ai rivoltosi, che la sconfitta dei Romani accese ancor più nella loro sete di libertà.

Naturalmente la guerra vera e propria doveva ancora venire.

In un vero e proprio conflitto gli insorti erano svantaggiati in partenza: erano infatti male armati, scarsamente equipaggiati e, soprattutto, mancavano di coesione.

In Galilea il capo degli insorti era Giuseppe, figlio di Mattia, che in seguito divenne noto come storiografo col nome di Giuseppe Flavio.

Suo antagonista era Giovanni di Giscala, capo degli Zeloti.

Giuseppe preparò la guerra con cura: fra le altre cose, fece fortificare in tutta fretta una serie di città, e divise la regione in varie circoscrizioni difensive.

Nell'inverno del 66-67, l'imperatore Nerone affidò l'incarico di reprimere la rivolta all'esperto generale T. Flavio Vespasiano.

Questi aveva a sua disposizione tre legioni ben equipaggiate e un forte contingente di truppe ausiliarie.

Nella primavera del 67 la popolazione, in prevalenza pagana, dell'importantissimo caposaldo di Sefforis, nella Galilea meridionale, chiese l'invio di una guarnigione romana.

All'avvicinarsi di questa gli insorti si ritirarono prontamente nelle città fortificate, così che il paese, rimasto indifeso, cadde in mano ai Romani senza che questi dovessero combattere.

Dopo un assedio durato 47 giorni, Vespasiano riuscì ad espugnare la fortezza di Iotapata, in cui si era rifugiato Giuseppe con gran parte dei rivoltosi.

Giuseppe passò ai Romani e fu trattato con mitezza.

Dopo la presa di Tiberiade, Tarichea, Gamala, Giscala e del Tabor, nell'autunno del 67 Vespasiano aveva esteso il suo potere all'intera Galilea, e poteva quindi alloggiare le proprie truppe nei quartieri invernali.

Giovanni di Giscala era riuscito all'ultimo momento a fuggire dalla sua città natale assediata e a rifugiarsi a Gerusalemme, dove, con l'aiuto degli Idumei, prese in mano il governo della città instaurandovi un regime terroristico.

Nella primavera del 68 d.C. Vespasiano occupò, l'una dopo l'altra, la Perea, la pianura costiera, la zona collinosa della Giudea, l'Idumea e la Samaria, e per finire espugnò Gerico.

Differì l'assedio a Gerusalemme quando gli giunse la notizia della morte di Nerone ( 9 giugno del 68 ).

A Gerusalemme, frattanto, gli insorti si contendevano il potere sostenendo lotte sanguinose: lottavano per il predominio Simone bar Giara, capo di un partito, e Giovanni di Giscala, capo degli Zeloti.

Alla fine Giovanni occupava al settore del tempio, mentre Simone era padrone del resto della città.

Nel corso del 69 d.C. sul trono dei Cesari si susseguirono gli imperatori Galba, Ottone e Vitellio; alla fine, il 1° luglio dello stesso anno, le truppe impegnate in Oriente proclamarono imperatore Vespasiano, che poté assumere il potere a Roma solo nell'estate del 70.

In seguito a tali vicende si era avuta un'interruzione nella guerra giudaica, della cui prosecuzione Vespasiano incaricò il figlio Tifo.

Nella primavera del 70 d.C., nell'immediata vigilia della Pasqua, mentre la città traboccava di pellegrini, Tito strinse d'assedio Gerusalemme con cinque legioni e si acquartierò sul colle Scopus, a nord della città.

Con coraggiose sortite, gli assediati misero a dura prova i Romani.

L'assalto, essendo Gerusalemme circondata da valli su tre lati, poteva aver successo solo da nord: su questo lato, tuttavia, la città era fortificata molto efficacemente da un triplice muro.

Data la gravita della situazione, i partiti avversi si unirono per la difesa comune.

Servendosi di macchine ossidionali, Tito riuscì, con relativa rapidità, ad aprirsi un passaggio nei due tratti di mura del lato nord, e ad occupare così il settore settentrionale della città.

Ma la parte più difficile del suo compito doveva ancora venire.

Allo scopo di tagliare ogni via di comunicazione coi dintorni, Tito fece costruire un terrapieno.

Nella città infuriavano la fame e le epidemie: ciononostante non si pensò ancora alla resa, poiché si continuava a sperare in un miracoloso intervento divino.

Con torri e arieti Tito prese d'assalto la roccaforte Antonia, che cadde dopo un'aspra lotta nel mese di luglio.

L'offerta quotidiana dovette essere ripristinata.

Poiché le mura del tempio resistevano alle macchine ossidionali, Tito si vide costretto ad appiccare il fuoco alle porte della città; ma il fuoco raggiunse anche l'edificio del tempio, che andò in fiamme.

I Romani sacrificarono sulla piazza antistante il tempio, davanti alle insegne militari.

Un parte dei rivoltosi poté rifugiarsi nel castello di Erode, che venne preso d'assalto dai Romani ed espugnato nel settembre del 70 d.C.

I vincitori saccheggiarono e distrussero la città; ci fu uno spaventoso bagno di sangue; le fortificazioni furono abbattute ad eccezione delle tre torri del castello erodiano, dove si acquartierarono le truppe d'occupazione.

Giovanni di Giscala e Simone bar Giora caddero vivi in mano ai Romani.

A Roma, l'anno successivo, Tito celebrò la vittoria con un corteo trionfale in cui sfilarono anche i capi dell'insurrezione e in cui, come risulta dai bassorilievi scolpiti sull'arco di trionfo, furono esibiti come bottino di guerra i costosi arredi del tempio di Gerusalemme.

Ai vincitori resistevano ormai tre sole fortezze: l'Herodium, Macheronte e Masada.

L'Herodium fu espugnato quasi senza combattere; la fortezza di Macheronte cadde dopo un breve assedio.

Al contrario, l'assedio a Masada, posta su un'altura rocciosa e scoscesa, durò quasi un anno ( dall'estate del 72 alla primavera del 73 d.C ).

Gli assediati erano un gruppo di Zeloti capeggiati da Eleazaro, che respinsero ogni invito alla resa e si difesero fino all'ultimo col coraggio della disperazione.

Per espugnare la roccaforte i Romani dovettero far ricorso a tutta la loro consumata abilità nella tecnica ossidionale.

Fu costruito un terrapieno per impedire eventuali sortite e fu eretto un robusto argine per avvicinare le macchine da assedio alle mura della fortezza.

Resti della circumvallatio e del campo romano, nonché del terrapieno, sono visibili ancora oggi.

Quando i Romani ebbero aperto una breccia nelle mura e la capitolazione sembrava ormai inevitabile, gli assediati appiccarono il fuoco agli edifici e si diedero la morte.

Cadeva così l'ultimo baluardo degli insorti: la rivolta giudaica era definitivamente schiacciata.

Dopo la vittoria, Vespasiano fece coniare monete raffiguranti un soldato romano vittorioso, una palma, simbolo d'Israele, e una donna in lutto, recanti l'iscrizione « Judaea capta ».

Separò inoltre la Giudea dalla provincia di Siria e ne fece una provincia imperiale, retta da un governatore che aveva la sua residenza a Cesarea.

Con la distruzione del tempio, alla comunità religiosa di Gerusalemme veniva a mancare il legittimo luogo di culto: non era più possibile, ora, celebrare il culto sacrificale.

Anche i sacerdoti, conseguentemente, persero tutta la loro importanza.

Si dovette tuttavia continuare a versare il tributo al tempio, questa volta come offerta a Giove Capitolino.

Tutto ciò rappresentò una svolta profonda nella vita religiosa della comunità di Gerusalemme, ma niente affatto la sua fine.

Da questo momento in avanti essa fu, in quanto « religio licita », sotto l'egida dello Stato.

Per la sopravvivenza del giudaismo fu di capitale importanza il fatto che, già prima della distruzione del tempio, nel santuario centrale si celebrasse, accanto al servizio sacrificale, una forma di servizio divino che poteva essere praticata anche indipendentemente dal luogo di culto, vale a dire il servizio divino nelle sinagoghe.

Esso fu, da allora in avanti, l'unica forma di culto possibile.

Al tempio si sostituì la sinagoga, al sacrificio la lettura e l'interpretazione delle Scritture, la preghiera e una carità operosa.

Gli scribi, che erano stati sinora figure di secondo piano rispetto ai sacerdoti, ne presero il posto e divennero le sole autorità religiose.

I Sadducei, che discendevano dall'antica casta sacerdotale, persero ogni importanza.

Gli scribi farisei furono gli unici a sopravvivere come gruppo anche dopo la catastrofe: essi divennero ora la guida del giudaismo.

Lo scriba Johanan ben Sakkai, scolaro di Hillel, era riuscito, durante l'assedio di Gerusalemme, a sfuggire ai Romani.

Questi gli permisero, quando ancora era in corso la guerra, di fondare una scuola a Iabne ( Iamnia ), a sud di Giaffa.

Qui il Romani avevano già trasferito alcune personalità di rilievo del giudaismo che avevano preso le distanze dagli insorti.

Iamnia divenne così il nuovo centro spirituale del giudaismo.

Johanan diventò il caposcuola dei rabbini.

A Iamnia si ricostituì il sinedrio, che da allora in poi fu composto esclusivamente da scribi farisei e non ebbe più funzioni politiche di alcun tipo.

Gli spettava bensì ancora la giurisdizione degli affari interni alla comunità religiosa ebraica: il suo compito principale consisteva tuttavia nell'interpretazione normativa della Legge.

Il sinedrio stabiliva le regole per la retta interpretazione della Legge, e le norme per una vita ad essa rigorosamente fedele.

Poiché le Sacre Scritture furono d'ora in avanti l'unico fondamento della vita religiosa, fu necessario fissare un canone rigoroso e un testo normativo: l'uno e l'altro furono stabiliti intorno al 90 d.C. nel sinodo di Iamnia.

La distruzione del tempio comportò, anche per gli Ebrei della diaspora, l'obbligo di versare il tributo non più al santuario di Gerusalemme bensì a Giove Capitolino.

Si allentò in tal modo il legame con la madrepatria.

Ora, del resto, era venuta a cadere la differenza fra questa e la diaspora: anche per gli Ebrei della madrepatria, infatti, il servizio divino celebrato nella sinagoga era diventato l'unica forma di culto possibile, com'era stato, finora, per gli Ebrei della diaspora.

Gli Ebrei della madrepatria e della diaspora vivevano ormai allo stesso modo.

Sugli avvenimenti dei decenni successivi possediamo soltanto informazioni sporadiche poiché l'esposizione di Giuseppe s'interrompe all'anno 73 d.C.

Nonostante la sconfitta subita nella prima rivolta ebraica, non si era certo abbandonata la speranza che la situazione potesse mutare.

Questo fatto è testimoniato principalmente negli scritti apocalittici che sorsero in seno al giudaismo dopo questo periodo, come il libro di Baruc, il IV libro di Esdra e il IV libro degli Oracoli sibillini.

Si attendeva la fine di Roma e la venuta del Messia.

Gli imperatori Flavii Tiberio e Domiziano provvidero con azione energica alla pace e all'ordine.

Nerva ( 96-98 ) dispensò gli Ebrei dall'obbligo di pagare il tributo a Giove Capitolino.

Quando, sotto l'imperatore Troiano ( 98-117 ), ci fu in Oriente una sollevazione dei Parti, si ebbero, a Cirene, ad Alessandria, a Cipro e in Mesopotamia, delle rivolte nelle quali gli Ebrei, soprattutto a Cirene e a Cipro, commisero atti di sangue e crudeltà nei confronti della popolazione pagana.

Traiano soffocò la rivolta, e nominò governatore della Giudea al suo generale Lusio Quieto, che già aveva portato a termine questo incarico in Mesopotamia.

Questo fatto ci consente forse di desumere che anche là si erano avute delle insurrezioni, sebbene al riguardo non sappiamo nulla di preciso.