Affrontare una carestia

La Genesi ci evidenzia due carestie particolarmente gravi che costringono le tribù ad emigrare, in due ondate successive, nel vicino Egitto.

Al centro di entrambe le narrazioni troviamo la figura di Giuseppe, un ebreo promosso funzionario al servizio del re e che si occupa della distribuzione delle risorse nella nazione.

La prima carestia viene risolta attraverso un particolare tipo di accumulazione, che ci dimostra che la concentrazione delle ricchezze non ha risvolti necessariamente negativi, sempre che il suo utilizzo sia pensato dai governanti a favore della comunità:

In capo a due anni, ecco che Faraone ebbe un sogno; e dal fiume salivano sette vacche di bell'aspetto e grasse, che si misero a pascolare nella giuncaia.

Dopo di esse, ecco altre sette vacche salire dal Nilo, brutte e magre, e si fermarono accanto alle prime sulla riva del fiume.

E le vacche brutte e magre divorarono le sette belle e grasse. [ ... ] Allora Giuseppe disse a Faraone: [ ... ] Ecco, stanno per venire sette anni di grande abbondanza in tutto l'Egitto.

E dopo quelli verranno sette anni di carestia, e tutta l'abbondanza non sarà che un ricordo in Egitto, perché la fame consumerà il paese. ( Gen 41,1-31 )

Quali sarebbero potute essere le soluzioni da porre in atto di fronte ad una tale eventualità?

Ammesso che le previsioni del sogno fossero veritiere, Giuseppe avrebbe potuto consigliare al sovrano espedienti simili a quelli proposti dalle teste d'uovo delle moderne istituzioni:

  1. far lavorare il popolo a grande lena per costruire deviazioni artificiali ai corsi d'acqua al fine di creare nuove zone coltivabili
  2. obbligare il popolo, negli anni di carestia, a privarsi del poco a disposizione per far sopravvivere comunque la casta regnante, che avrebbe così continuato a governare assicurando la coesione sociale in vista di un futuro migliore
  3. ingaggiare guerre di conquista di altri territori fertili dove probabilmente la carestia avrebbe potuto non abbattersi
  4. chiedere ai sacerdoti di immolare sacrifici sempre più cruenti, anche umani, alle divinità per scongiurarle dall'affliggere il regno con tali carestie.

A parte l'ultimo consiglio, comunque verosimile per l'epoca, tutti gli altri sono di ordine economico, interessano cioè la ricchezza e il lavoro.

Sono campi in cui troppi, per fortuna non tutti, gli economisti giurano di essere i prescelti per dire l'ultima parola.

Ma Giuseppe non conosceva le curve di Simon Kuznets né le previsioni della Scuola di Chicago e si accontentò di esprimere un consiglio di ben altro tenore:

[ ... ] Si provveda dunque Faraone di un uomo accorto e saggio, e lo metta a capo dell'Egitto.

Procuri faraone di stabilire dei commissari su tutto il paese, per riscuotere il quinto del raccolto durante i sette anni d'abbondanza; si raduni tutto il raccolto dei prossimi sette anni fertili e si ammassi il grano sotto la mano di Faraone, per provvigione delle città, e lo conservino.

E questa provvista servirà di riserva per il paese nei sette anni di carestia, che verranno poi in Egitto; e così il paese non sarà decimato dalla fame. ( Gen 41,34 )

Faraone si comportò esattamente come disse Giuseppe.

Così, quando vennero gli anni di carestia, anche dai paesi vicini arrivò gente per comprare il grano e il pane che solo in Egitto si trovavano.

In questo modo Giuseppe aveva violato i principi della massima produttività e minima spesa proposti dalle nostre istituzioni, semplicemente utilizzando un'altra via, sempre presente come ci insegnano le filosofie antiche, meno scontata ma assolutamente efficace.

É la via che hanno abbandonato i governi attuali, che invece preferiscono usurpare il più possibile i risparmi dei cittadini per alimentare debiti pubblici incredibili, nascosti attraverso raggiri contabili di cui abbiamo già elencato alcuni esempi.

* * *

L'arrivo in Egitto si può leggere come l'ingresso di una piccola piramide in una grande dove sta aumentando la differenza tra i vari strati sociali per colpa della concentrazione della ricchezza.

La carestia, iniziata come preannunciato da Giuseppe, non finisce ma si acuisce sempre più.

Le misure messe in atto da questo governatore sconfessano la capacità che la sua accumulazione di risorse potesse far fronte per tanti anni a una calamità che non è certo per altro sia stata dovuta a cause naturali: il narratore in effetti non le cita ( come farà in altra sede quando parlerà di periodi senza pioggia, 1 Re 18 ) e non sarebbe spiegabile un periodo così lungo di ristrettezze per i raccolti.

Il narratore infatti non dice "la terra non dava i frutti necessari" bensì "non c'era più pane" cioè si riferisce già ad un prodotto dell'uomo.

Il narratore puntualizza anche come il popolo pian piano rinuncia a tutto pur di avere qualcosa di cui sopravvivere, in cambio solo della semente per i campi.

Il faraone, che possiamo supporre venga indicato come rappresentante della classe più ricca, entra in possesso delle ricchezze fino a che la gente è costretta a vendere la propria terra e addirittura si adatta alla schiavitù in cambio dell'esistenza.

Il re può quindi disporre di tutto l'Egitto e dei suoi abitanti: solo i beni dei sacerdoti vengono risparmiati in quanto il faraone stesso li manteneva, a conferma che la classe sacerdotale godeva di privilegi legati ai servizi che rendeva al re nella gestione del suo predominio.

La gente allora venne ammassata nelle città e per vivere gli venne data della semente, così che molti da pastori divennero agricoltori sedentari, più legati ai centri urbani dell'epoca e meno nomadi.

Il faraone era detentore della semente e della terra, mezzi di sostentamento di un intero popolo; un po' come succede ai nostri tempi: poche grosse imprese che detengono i brevetti dei frutti della terra, le risorse dell'acqua, le vie di comunicazione e via discorrendo.

Giuseppe non affrontò quindi la carestia in maniera soddisfacente, bensì agevolò la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi a scapito della popolazione.

I risultati di questo aumento della sperequazione non possono essere stati che un ribollire degli strati sociali teso a migliorare la propria situazione all'interno di una piramide sociale che andava assottigliandosi sempre più verso il vertice.

Come ci insegna la teoria delle piramidi, di tutte le strade che questa società poteva percorrere per risolvere la propria instabilità interna, la via scelta fu quella di una guerra di conquista con scissione.

In questo senso può benissimo essere letta tutta la vicenda degli ebrei che se ne vanno dall'Egitto e che andremo a spiegare nel prossimo capitolo.

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