Il primo centenario del Fr Teodoreto

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Il 9 febbraio 1971 il Fr. Teodoreto compirà 100 anni, e li compirà in Paradiso, perché da ben 17 anni è già tornato alla casa del Padre.

Ma l'avvenimento è sentito da noi come se egli non fosse mai partito, tanto è ancor viva qui la sua presenza spirituale; e non solo tra i suoi confratelli ed i suoi catechisti per i quali egli è un continuo incitamento a progredire nello sforzo della santificazione personale, ma anche tra tutti coloro, e sono molti, che l'hanno conosciuto od ai quali è giunta la sua fama.

Infatti sono molti quelli che ricorrono alla sua intercessione e segnalano grazie ricevute.

La sua causa di beatificazione procede senza intoppi, per la semplicità luminosa della sua figura.

Le opere da lui fondate o promosse si consolidano e si sviluppano.

Ma è specialmente il suo spirito che continua ad affermarsi, contrastando a tanti disorientamenti e richiamando gli sbandati sulla retta via, che non è quella della natura sbrigliata, ma quella della grazia e della rinuncia evangelica.

Per questo non possiamo trascurare la ricorrenza del suo centenario e non richiamare alla memoria i suoi insegnamenti: è un'opportunità e un dovere allo stesso tempo.

Dagli esempi della sua vita irradia una luce vivissima, che non è solo un messaggio personale, impressionante, ma un forte richiamo di cui abbiamo bisogno ed un invito benigno, che tanto ci incoraggia.

È notevole il fatto che l'austerità e la benignità, così caratteristiche in lui, erano talmente congiunte da non potersi evocare la sua figura senza richiamarle entrambe.

Tuttavia ciò che colpisce in primo luogo al suo ricordo è la saggezza che lo guidò in tutta la vita.

I veri saggi sono i santi, perché essi soli hanno dimostrato di conoscere e di apprezzare i veri valori e di farne oggetto di assidua ricerca in tutta la vita.

« I popoli celebrino la sapienza dei santi » dice la S. Scrittura ( Sir 39,10 ) e ripete la Liturgia, perché veramente è in primo luogo la sapienza, che bisogna ammirare nei santi, i quali hanno saputo eleggere Dio e le cose divine, riconoscendo la vanità di tutto ciò che passa e disprezzando le false lusinghe del mondo.

Alessandro Manzoni, tessendo le lodi del card. Federigo Borromeo, parte proprio da queste considerazioni che, mutatis mutandis, possono pienamente applicarsi al Fr. Teodoreto.

« La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume …

Egli badò fin dalla puerizia a quelle parole d'abnegazione e d'umiltà, a quelle massime intorno alla vanità dei piaceri, all'ingiustizia dell'orgoglio, alla vera dignità e ai veri beni, che, sentite o non sentite nei cuori, vengono trasmesse da una generazione all'altra, nel più elementare insegnamento della religione.

Badò, dico, a quelle parole a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; e vide che non potean dunque esser vere altre parole e altre massime opposte che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell'azioni e dei pensieri quelle che erano il vero.

Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa ».

Il Fr. Teodoreto, così lontano dalla retorica, mi perdonerà questa lunga citazione, che però non è affatto retorica, ma esprime, nella condizione sociale tanto diversa, di Federigo Borromeo e di Giovanni Garberoglio, i medesimi problemi e i medesimi atteggiamenti con cui questi furono affrontati, giacché identica è sempre la santità nella sua sostanza, pur nelle più svariate forme della sua attuazione.

La ricerca di ideali, che sempre si agita nell'anima dell'adolescente gli fece scorgere subito nella religione il massimo ideale.

Egli era assiduo alla chiesa del suo paese, non poteva tollerare il male attorno a sé, ed era richiesto di consigli fin da quella età.

Nulla si faceva in casa senza sentire il parere di Giovannino, che pure era il più giovane dei figli.

Quando poi la vita religiosa gli si presentò come una generosa milizia, non ebbe esitazioni a lasciar tutto, nonostante le tenaci resistenze dei parenti, e non scelse una via che avrebbe potuto conferirgli dignità e splendore, se pur non anche agiatezze, come quella del secerdozio, ma una vita di pura dedizione alla causa più nobile che possa proporsi un uomo, qual è quella dell'educatore, ma oscura e piena di rinunce.

E così da coltivatore di vigneti diventò coltivatore di pianticelle umane.

La passione per la scuola, intesa nel senso più ampio di formazione di tutto l'uomo, non lo abbandonò più, anzi continuò a crescere.

Egli non era mai pago dei risultati ottenuti, temeva quelli apparenti e mirava a guidare le anime « a condurre in mezzo al mondo una intensa vita spirituale » secondo il proposito da lui preso nel Belgio durante il suo secondo noviziato, che costituì la base delle sue opere di perseveranza.

Non ho timore di affermare che Fr. Teodoreto pagò cara la sua vocazione, anche se egli mi confidò un giorno che mai nella vita aveva avuto la minima esitazione su di essa, ma ne era stato sempre più contento.

E questo è prova di un altro lato fondamentale del suo temperamento: la generosità nella dedizione, l'energia e la costanza nel volere.

Già la Regola dei Fratelli, ai suoi tempi almeno, era una delle più dure, ma poi egli appartenne quasi tutta la vita alla comunità più povera del Distretto, dove le rinunce e le asprezze erano il clima normale.

Ecco alcuni particolari che egli mi confidava un giorno sorridendo: dormitorio sotto i tetti, con la brina sulle coperte nei mattini dell'inverno, e intollerabile calura nell'estate; sveglia alle 4,30 senza eccezioni; una brocca ed un catino in cui nella stagione fredda bisognava rompere il ghiaccio formatesi nella notte; una cucina nello scantinato, dove facevano colazione anche i catechisti durante i ritiri, e che non contribuiva per nulla ad aguzzare l'appetito.

D'estate nessuna casa per le vacanze, finché non intervenne la provvidenza con il dono della villa di Pessinetto.

Oltre la scuola diurna il Fr. Teodoreto aveva la direzione della scuola serale, che durava dalle ore 20,30 alle 22,30 cosicché non poteva mai essere a letto prima delle 23.

Talvolta egli ed il Fr. Isidoro prima di salire in dormitorio passavano in cucina, tutti intirizziti, a prepararsi un vino brulé per potersi scaldare durante la notte.

Ricordo che la sala di studio ( tutto era in comune: dormitorio, refettorio, studio ) era illuminata ogni sera fino a tarda ora e molti Fratelli erano curvi sui libri e quaderni al lavoro, non solo perché il giorno dopo c'erano molte ore di lezione da fare e compiti da correggere, ma perché molti giovani Fratelli avevano da preparare i loro esami universitari per conseguire titoli di studio.

E io che al mattino facevo degli sforzi erculei per arrivare alla messa delle 7, mi domandavo spesso sgomento come facevano quei religiosi a sostenere un simile orario.

Quello di S. Pelagia era evidentemente un clima eroico, benché nessuno dei Fratelli mostrasse di farne caso, anzi ci fosse in tutti una semplicità e una serenità sorridente.

I catechisti capivano tutto benissimo, e tra di loro e i Fratelli della Comunità si era stabilita un'amicizia così cordiale che io non ho mai più constatato altrove.

Quante figure vengono alla mente, evocando quei tempi, che ci riempiono l'animo di commozione, come il ricordo dei nostri parenti defunti.

Eppure anche in quell'ambiente così evangelico c'erano delle notevoli differenze di tono e di slancio tra i membri che lo componevano, segno che anche lì la natura faceva sentire i suoi diritti.

E quando specialmente la comunità si disciolse e transmigrò in gran parte altrove si fece ancor più viva nel Fr. Teodoreto la necessità di non lasciarsi rimorchiare dalla mediocrità, ma di camminare deciso per i sentieri delle vette.

Parve rinascere allora l'antica lotta tra il mondo e lo spirito, ma in una forma più sottile ed insidiosa: non più l'aperto contrasto tra il bene e il male, ma, tra il bene e il meglio, tra il buono e l'eroico, tra il passo tranquillo di una vita consacrata a Dio nell'apostolato e l'ardore travolgente di un'anima in fiamme, che non trova mai nulla sufficiente per Dio, che sente sempre più abissale il proprio nulla davanti a Lui e che tuttavia vorrebbe estendere il suo regno in tutto il mondo.

Data la sua età avanzata e la sua precaria salute, e in considerazione della sua attività di fondatore dell'Unione Catechisti del SS. Crocifisso e di Maria Immacolata, era stato esonerato dall'insegnamento e passava delle lunghe ore in chiesa a pregare e ad assistere i ragazzi.

Aveva fondato uno dei primi cinque Istituti Secolari approvati dalla Chiesa, anzi era stato un antesignano giacché il suo Istituto ( l'Unione Catechisti ) aveva preceduto assai i documenti pontifici « Provida Mater » e « Primo Feliciter » risalendo al 1913.

Quest'opera gli aveva dato molto da fare, da soffrire e da pregare per le immancabili difficoltà e le inevitabili incomprensioni incontrate nel suo sviluppo; eppure gli pareva di non aver fatto niente e di menare una vita religiosa sbiadita.

Al suo direttore spirituale manifestava la sua preoccupazione e angustia e gli domandava: per essere un buon religioso basta una vita così?

Tra le ultime letture da lui fatte ci furono le opere di S. Giovanni della Croce.

Il distacco assoluto da ogni cosa che non sia Dio, che pretende il S. Dottore, quel suo perentorio « nada » così ripetuto, l'aveva impressionato e cercava di attuarlo anche nelle cose minime.

Ma l'aveva anche impressionato l'atto di offerta di se stessa quale vittima all'amore misericordioso compiuto da S. Teresa di Lisieux.

Volle conoscerlo a fondo e si recò più volte al Carmelo del S. Cuore in Val S. Martino per avere tutte le indicazioni necessarie e poi lo ripeté con quella rigorosa totalitarietà che era nel suo carattere.

Ormai viveva in terra, si può dire, solo col corpo, per offrire a Dio continue offerte di sacrificio: il peso degli anni, le frequenti e dolorose malattie, le aridità e desolazioni interiori persistenti.

Infine l'ultima malattia che gli tolse la parola e lo buttò stravolto ed ansante su di un letto per cinque giorni.

Erano le ultime ore del suo calvario.

Quando emise l'ultimo respiro ( era la notte del 13 maggio 1954 ) tutta Torino si commosse, e anche da più lontano accorsero gli ammiratori ai suoi funerali, che furono un trionfo.

Era incominciata l'alba della gloria!

C. T.