Justin Nicoara e la Chiesa di Romania

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È incancellabile nella nostra memoria l'immagine dell'ing. Justin Nicoara, che dalla Romania venne a Torino a compiere i suoi studi di ingegneria, negli anni antecedenti la prima guerra mondiale e che con vari altri universitari forestieri, ora sparsi per l'Italia, ma sempre spiritualmente uniti all'Unione, si appoggiavano all'Unione stessa e ne frequentavano le adunarne per difendere la loro vita spirituale.

Jusfin Nicoara era piissimo e di carattere forte, ma pativa tentazioni contro la fede e amava discutere di argomenti religiosi, ripetendo sovente: « ma io voio credere », frase che quel monello di Cesone ripeteva ridendo di gusto.

Dell'ing. Nicoara ha parlato abbondantemente il nostro Bollettino all'epoca della sua morte, e cioè nel secondo semestre 1926 collocandolo nella rubrica « I nostri modelli nell'amore a Gesù Crocifisso ».

Qui ricordiamo solo la sua fine eroica.

Egli perse la vita poco dopo il suo ritorno in patria.

Nel tentativo di salvare un operaio in pericolo rimase schiacciato fra due vagoni ferroviari.

« Se guarisco mi faccio prete, se no sarò l'amico degli uomini in cielo » furono le sue ultime parole, indicatrici del fervore religioso che lo animava.

Tutte queste cose ci venivano alla mente leggendo la relazione del viaggio in Romania del p. Van Straaten, che descrive quel paese in modo assai diverso dagli altri paesi d'oltre cortina e tale da essere di esempio anche a tutti i paesi liberi.

Non abbiamo saputo resistere alla tentazione di inserire quella relazione nel nostro Bollettino, sicuri che interesserà tutti i nostri lettori, e la dedichiamo alla memoria del nostro Nicoara.

« Avendovi descritte tante volte le amare sofferenze dei nostri fratelli, voglio, in queste pagine, rendervi partecipi della gioia che mi colma fin dal mio viaggio in Romania.

Per due settimane ho percorso questo paese in auto.

Ho incontrato uomini coraggiosi che come pastori d'anime sono sopravvissuti ai duri anni della prigionia e che ora governano nuovamente la Chiesa.

Benché pedinato giorno e notte dalla polizia segreta, ho potuto parlare liberamente con decine di sacerdoti e con tutte le autorità ecclesiastiche di rito latino.

Ho constatato che negli ultimi tempi la loro sorte è notevolmente migliorata.

Questa Chiesa non è dilaniata e minata - come negli altri paesi comunisti - dall'infido movimento dei preti della pace, qui inesistente.

L'unità fra gerarchia, sacerdoti e popolo è intatta.

Rispetto e amore per il Papa sono sottintesi per ogni cattolico.

Non esiste crisi dell'autorità.

La discussione sul celibato è sconosciuta.

I seminaristi sono pii e vengono disciplinatamente formati.

I sacerdoti pregano molto e vivono da poveri.

Fra essi esiste la comunione dei beni.

Per mezzo di una cassa centrale il superfluo dei più abbienti viene ceduto a coloro ai quali manca il necessario.

Fra i fedeli vige una vita religiosa profonda.

La confessione non è caduta in disuso.

La riforma liturgica viene messa in pratica con prudenza e non comporta la soppressione di tradizionali espressioni della sana pietà popolare.

Le chiese sono gremite tanto durante le messe domenicali quanto durante le funzioni serali di ottobre con la recita della corona e adorazione del Santissimo, alle quali assistono numerosi anche giovani e uomini.

Con gioia qui ho trovato una Chiesa fiorente, non infettata dal bacillo che nel mondo libero ha intaccato la cristianità in maniera mortalmente pericolosa.

Siamo dunque pronti, anche in futuro ad aiutare questa Chiesa romena generosamente nel bisogno che le insegna a pregare, nella sofferenza che la purifica e nell'oppressione che la rende libera per il Signore ».1

Non sembra di essere tornati al periodo aureo del tempi apostolici?

Quanto è vero che « nella croce è la salute e la vita, la difesa dai nemici, la robustezza della mente! ».

Ma a patto che la croce venga generosamente accettata.

È questo l'esempio che ci viene dalla Romania, che nel nome stesso reca un'affermazione di fedeltà e che a questo nome vuoi tare onore.


1 ( Dal periodico « L'Eco dell'Amore » n. 7 dicembre 1970 ).