Convegno ecclesiale di Verona

Indice

Ambito 4: tradizione

Introduzione del prof. Costantino Esposito

17 ottobre 2006

1. Una premessa di metodo

Il tema della tradizione - almeno come tenterò di affrontarlo oggi, all'interno della prospettiva aperta da questo Convegno - può essere affrontato a partire da una domanda semplice ma essenziale: come può un uomo del nostro tempo, più di duemila anni dopo la venuta di Gesù Cristo nella carne, raggiungere una certezza ragionevole su questo avvenimento?

E com'è possibile verificare con ragioni adeguate il fatto che, attraverso la vita della Chiesa, questa presenza mi raggiunga lungo il corso del tempo, e riaccada ora, nel presente?

Si tratta - a me pare - di domande decisive, non solo per chi fosse consapevolmente impegnato nell'esperienza della Chiesa, ma per tutti coloro che fossero impegnati seriamente con il proprio problema umano.

In quegli interrogativi, infatti, trova espressione l'attesa più profonda del cuore dell'uomo: quella di incontrare qualcuno che possa corrispondere al desiderio di felicità che caratterizza in maniera insopprimibile la vita di ciascuno di noi.

A questa vita - con tutto il carico delle sue esigenze e dei suoi tentativi, dei suoi limiti e delle sue speranze - non può rispondere un discorso o una strategia, ma solo una vita.

Ma è appunto questa la grande difficoltà odierna: si fa molta fatica a comprender la tradizione come una vita; al massimo essa è un glorioso passato da conservare devotamente o archeologicamente, oppure - come nella maggioranza dei casi - qualcosa che si deve « aggiornare » o superare in virtù dell'idea di un continuo progresso in avanti con cui andrebbe sempre reinterpretato il « messaggio evangelico ».

Tale difficoltà di comprensione è stata certamente condizionata da quella prospettiva culturale dominante a partire dall'età moderna, secondo la quale la costruzione di un'umanità realizzata doveva passare dalla programmatica recisione del rapporto con il suo passato cristiano; ma al tempo stesso è risultata fortemente condizionata anche dalla tendenza opposta, quell'interpretazione razionalista della tradizione, secondo cui a quest'ultima va riconosciuto un ruolo essenziale nella costruzione della nostra civiltà occidentale e della nostra identità culturale, ma come se essa fosse una storia senza un soggetto presente, insomma come un cristianesimo senza Cristo.

In entrambi i casi, tuttavia, la difficoltà a comprendere i termini reali di questa tradizione nasconde a mio modo di vedere un problema - e insieme una sfida - che riguarda il nostro modo di intendere lo stesso metodo dell'esperienza cristiana.

Così anche lo scopo di questa mia introduzione non sarà tanto quello di ridefinire teoricamente quale sia il depositum fidei, ma di delineare alcune questioni che ciascuno di noi possa poi verificare nella propria esperienza umana e cristiana, alla luce della comune appartenenza ecclesiale.

2. Da una certezza la speranza

« Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo »: ma com'è possibile testimoniare realmente una speranza nella vita, se non perché ne stiamo già facendo esperienza ora?

È solo per un'esperienza presente, infatti, che può sorgere una certezza nel futuro.

E come sarà possibile raggiungere questa certezza se non per la scoperta vissuta - e solo per questo « saputa » - che vi è un significato positivo della realtà, più grande di me e che illumina la mia esistenza?

« Per sperare, bambina mia, bisogna essere felice, bisogna aver ottenuto, aver ricevuto una grande grazia », come ha scritto Charles Péguy ( in Il portico del mistero della seconda virtù ), e come ciascuno di noi può attestare per esperienza propria: è solo perché si è ricevuto qualcosa di grande e di bello che si può sperare in un futuro di realizzazione e di compimento di sé.

Di fronte a tale evidenza, però, il rischio che noi sempre corriamo è quello di darla per scontata, di considerarla come una premessa ovvia e definitivamente acquisita, per poi passare subito a chiederci cosa dobbiamo fare o quali conseguenze occorre tirare.

Con la latente illusione di poterci impadronire noi, e addirittura di poter riprodurre noi, con le nostre strategie e i nostri buoni progetti, la presenza irriducibile dell'essere e la novità sorprendente della salvezza.

Questo non significa affatto che il rapporto con la sorgente della realtà e della vita non abbia bisogno di noi, della nostra risposta libera e della nostra opera, ma che questa nostra responsabilità può fiorire in creatività e in operatività solo se continuiamo a scoprire e ad approfondire la coscienza di essere in rapporto con una presenza che non è accaduta solo duemila anni fa o anche solo un minuto fa, ma che sta accadendo ora.

Al di fuori di questo accadimento, è come se non « accadesse » veramente nessuna delle nostre opere.

Nell'esperienza cristiana si mostra così in tutta la sua pienezza la grande legge della dinamica umana, come noi possiamo verificare sia a livello conoscitivo che a livello morale e anche psicologico.

Il significato della realtà - del mondo e dell'io, in tutti i suoi rapporti - non è una dimostrazione filosofica ne una prescrizione etica, ma è un « fatto », « l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva » ( Benedetto XVI, Deus caritas est 1 ).

Tale avvenimento mi precede e mi raggiunge.

Esso è il contenuto sorprendente di ciò che chiamiamo la « tradizione ».

La tradizione dunque non riguarda semplicemente il nostro passato, ma costituisce una vera e propria dimensione del presente, dal cui riconoscimento o dalla cui trascuratezza dipende la coscienza che abbiamo di noi stessi e la capacità di rischiare la nostra libertà, il giudizio sulle cose e la capacità di costruire il futuro.

La tradizione è il nostro « dato » di partenza e consiste nel riconoscere noi stessi e la realtà intera come « dato », cioè fatta da Qualcuno per noi.

Per questo la tradizione è come da imparare sempre, perché non solo proviene dal passato - la vita non nasce con me, è più grande di me, mi precede - ma mi raggiunge ora, riaccade in qualche modo adesso, come un avvenimento che si prolunga.

Noi siamo una storia, siamo fatti di questo passato che continua - come una presenza e un contesto oggettivo - a orientarmi, a segnare la direzione da cui provengo e quella verso cui vado.

Ma io devo rendermene conto, riconoscerlo, e solo di qui può nascere la novità, il cambiamento.

È in fondo il grande paradosso della vita cristiana: nella dipendenza da chi mi ha fatto, anzi mi sta facendo ora, nasce la coscienza vera di me e fiorisce la mia libertà come risposta a …, come responsabilità di chi mi chiama all'essere.

È proprio un diverso senso dell'umano, ciò che costituisce la permanente novità del cristianesimo rispetto alla mentalità in cui tutti - e spesso anche noi, in questo figli del nostro tempo - siamo in qualche modo immersi.

Concepire se stessi come staccati da ciò che ci precede ( e cioè senza appartenere a niente di più grande di sé ), e vivere la propria libertà come un meccanismo reattivo che non dipenda da nient'altro se non dal proprio istinto, dal proprio gusto soggettivo e dalle proprie opinioni, significherebbe inaridire il proprio io in una pretesa autosufficienza: anche se ben sappiamo che così si finisce per essere del tutto dipendenti dalla mentalità dominante ( il potere culturale ) o dalle proprie astratte immagini mentali.

Come una volta ha scritto Sant'Ambrogio: « Guardate quanti padroni hanno quelli che non vogliono avere l'unico Signore! » ( Epistulae extra collectionem 14,96 ).

Non è difficile ritrovare nella più diffusa pratica culturale odierna ( letteratura, manuali scolastici, opinion leaders ) l'idea che un uomo realizzato sia un individuo solo come mentalità e come giudizio, come affezione e come libertà: un uomo staccato da un'appartenenza riconosciuta, e per il quale la tradizione rappresenterebbe un retaggio da cui liberarsi, come si farebbe con un macigno che impedisse la nostra libertà di movimento.

Verrebbe quasi da dirlo con le parole di uno spirito laico come Pier Paolo Pasolini, ben consapevole della tragica mutazione antropologica che la perdita di senso della tradizione aveva indotto nelle giovani generazioni degli anni '60, e che, pur essendo compiuta in nome di un'emancipazione rivoluzionaria, era in realtà pilotata da quella stessa cultura radical - borghese cui ci si voleva contrapporre.

Oh generazione sfortunata, / arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia / senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere / e che non si gode senza ansia e umiltà / e così capirai di aver servito il mondo / contro cui con zelo « portasti avanti la lotta»: / era esso che voleva gettar discredito sopra la storia - la sua; / era esso che voleva far piazza pulita del passato - il suo; / oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo! » ( da « La poesia della tradizione», in Trasumanar e organizzar).

In tal modo, però, anche la speranza del futuro si riduce o addirittura si inaridisce, poiché non parte più da quello che c'è ( dal « dato »di se stessi e del mondo), ma è tutta sbilanciata a immaginare o a progettare quello che ancora non c'è, quello che ancora non siamo.

Ma una speranza che non parta più da una presenza ricevuta e accolta, bensì da un'assenza che ci si sforza di colmare, non può che portare all'idea - oggi sempre più condivisa - che in fondo non vi sia nulla per cui valga veramente la pena vivere, nulla che possa superare la misura corta delle nostre immagini e dei nostri progetti ( il che, occorre ripeterlo, quasi sempre significa le immagini e i progetti che ci vengono indotti da altri ): è come se di fronte all'attesa e al desiderio più profondo del cuore dell'uomo - quello della verità e della felicità, della bellezza e della giustizia - non si presentasse credibilmente più nessuno che, con la sua vita stessa, testimoniasse che c'è, che esiste e ci raggiunge ciò che desideriamo, quello che nessuno di noi potrebbe costruirsi da sé, ma solo ricevere, cioè incontrare. Esiste, cioè, il significato infinito che si rende presente nella contingenza e nella quotidianità della vita.

Questa proclamata impossibilità di una risposta, che sia adeguata all'ampiezza delle nostre attese, è il segno tragico di quello che chiamiamo « nichilismo ».

Affermare che non vi è alcun ideale che renda la vita degna di essere vissuta ( e quando parlo di « ideale » non mi riferisco a un'idea astratta da realizzare nel futuro, bensì a un significato che sia presente già ora alla mia vita, che appartenga alla mia esistenza ) non vuoi dire che siano annullati valori e progetti; anzi, non vi è epoca come la nostra in cui più insistito è il richiamo a regole di comportamento socioculturali: ma è, appunto, un proclama spesso formale e nel migliore dei casi moralistico ( quello che una volta Gesù ha bollato come la logica dei farisei ), perché al fondo di esso è proprio la persona, è il singolo io a non avere alcuna consistenza e a essere destinato semplicemente a « finire ».

Si tratta come di un sentimento diffuso, secondo cui il destino di me e di te, in fondo in fondo, è consegnato al niente.

E allora per poter sperare bisogna costruirsi delle utopie o coltivare dei sogni: mete in qualche modo sempre irraggiungibili, che magari dentro di sé portano anche la nascosta nostalgia di qualcosa di buono e di giusto, ma la cui immagine è tutta costruita da noi e risiede solo nella nostra testa - con la conseguenza di condurre quasi sempre a esiti violenti ( come le vicende del secolo scorso e ancora in questi anni stanno a dimostrare tragicamente ).

Quella violenza che sempre segue alla pretesa di voler piegare il reale alle proprie immagini e ai propri schemi, per buoni e perfetti che essi possano essere.

Come una volta ha scritto Thomas S. Eliot, in una società nella quale la fede sia stata abbandonata o scetticamente snobbata, e la Chiesa sia stata emarginata o dimenticata come straniera, gli uomini « cercano sempre d'evadere dal buio esterno e interiore sognando sistemi talmente perfetti, che più nessuno avrebbe bisogno d'essere buono » ( dai Cori da « La Rocca » ).

Senza la coscienza di una storia che arriva fino a me, recidendo il nesso vitale con la tradizione, la speranza diviene sogno o utopia proprio perché nasce solo da una mancanza o da una pretesa.

Ma la speranza non è una cosa che nasca dal nulla: essa si alimenta di una storia reale di generazione e di rapporti - la famiglia, la scuola, la Chiesa - che è arrivata sino a noi, capillarmente, nei gesti essenziali del nostro popolo, dandoci la certezza del futuro in virtù di un significato che veniva dal passato, una « ipotesi di lavoro » offerta come spiegazione di tutta la realtà.

Senza questo noi non saremmo ciò che siamo; ma quello che siamo può vivere solo grazie all'incontro con qualcosa di presente.

E questo è un « dato » troppe volte dimenticato o reso del tutto scontato.

3. L'autorevolezza di una proposta

Neanche il nichilismo, tuttavia, può distruggere l'attesa di senso che abita il cuore dell'uomo.

Esso può seppellirla sotto molti strati di pregiudizio e di cinismo, può rendere assai difficile averne coscienza, ma non può distruggerla totalmente.

Per il fatto stesso che uno vive - pur dentro una condizione umana così ridotta e in un contesto così poco favorevole a riconoscere la verità dell'io - egli afferma una domanda irriducibile di significato e di pienezza.

Come sarà possibile che questa domanda torni alla luce?

Cosa potrà far sì che essa continui a far sentire la sua esigenza come il criterio stesso del vivere?

Come non accontentarsi dei sogni e delle immagini che di volta in volta ci vengono calate addosso?

Solo un'esperienza umana diversa, che si possa incontrare nel tessuto quotidiano dell'esistenza, nei luoghi, negli ambienti e nella condizione in cui gli uomini vivono, può far percepire di nuovo, nel deserto dell'insignificanza o nel formalismo dei rapporti, la possibilità di una speranza reale.

E difatti la tradizione non è mai una trasmissione di valori o di nozioni astratte, bensì una testimonianza, quasi per pressione osmotica da persona a persona, tra un uomo che stia già sperimentando la pertinenza alla vita di quell'ipotesi di senso e un altro uomo che lo segue.

E chi può aiutare a « crescere » ( augere ) in questa trasmissione è una reale auctoritas.

Il nesso della persona autorevole - dell'« autorità » - con colui al quale essa si propone è un rapporto educativo.

L'autorità del testimone non è dunque un fattore estrinseco rispetto a chi lo segue, ma costituisce il fattore che c'entra più intimamente con la mia stessa coscienza, in quanto è richiamo continuo all'io ( soprattutto alla personalità del giovane ), ad affrontare tutto alla luce di quel significato offerto.

Forse uno dei motivi e insieme uno dei segni più determinanti del fatto che la tradizione abbia progressivamente perso la sua evidenza e la sua funzionalità nella coscienza degli uomini del nostro tempo sta nella difficoltà a riconoscere il rapporto con l'autorità - cioè con chi mi testimonia un significato oggettivo e verificato di sé e della realtà - come decisivo per la mia stessa persona.

La cosa esistenzialmente più interessante è scoprire infatti che l'autorità è tale per il suo essere un testimone persuasivo; ma la sua testimonianza non è qualcosa che si esaurisce nella sua persona, bensì è qualcosa di oggettivo, un ideale che anche il testimone è chiamato a riconoscere come autorevole per sé.

Non è questa forse la dinamica di ogni rapporto umano?

Non sappiamo forse che si può essere « padri » di qualcuno solo se ci si riconosce a propria volta « figli » di qualcuno?

Da questo punto di vista, il ruolo della famiglia non solo segna il primo, decisivo avvio dell'avventura educativa, ma permane come paradigma ed esempio insostituibile del nesso inscindibile tra la generazione alla vita e la trasmissione della fede.

E questo peraltro è vero in tutti i rapporti più significativi tra gli uomini - anche al di là della generazione biologica - che abbiano coscienza del compito di cui tutti sono investiti, e cioè condividere con gli altri cui ci si trova messi insieme, una compagnia al destino.

La dinamica educativa, che parte come trasmissione da una generazione all'altra, si rivela così, a uno sguardo attento, come un bisogno strutturale della vita intera. Il compito dell'educazione è dunque una sfida e un impegno alla ragione e alla libertà non solo di chi viene educato, ma anche e in primo luogo di chi educa.

Nessuna analisi o tecnica « psicopedagogica » potrà mai sostituirsi a quest'affascinante avventura della conoscenza e dell'affezione: non si tratta infatti di trasmettere valori o modelli di comportamento, ma di comunicare se stessi, e più precisamente un modo diverso di giudicare la realtà e un nuovo modo di coinvolgersi con essa.

E importante riconoscere che la vera posta in gioco nel nostro rapporto con la tradizione, attraverso il rapporto con un testimone autorevole che ce la trasmette, è proprio un'educazione a giudicare tutto - giudizio è infatti il modo con
cui noi riconosciamo ciò che c'è affermandone il senso - e ad amare la realtà, con quell'affezione che, prima di essere un sentimento emotivo, è l'adesione al reale che mi interpella.

Anche questa passione educativa sembra essersi come affievolita o burocratizzata nella società contemporanea della « formazione » e dell'« informazione », e sembra tramontare quella responsabilità per cui gli adulti comunichino una ragione certa del vivere ai giovani, segno di una perdita diffusa di convinzione esistenziale.

Il segno più drammatico di tale difficoltà sta nella separazione sempre più netta tra la ragione e l'affettività: conoscere razionalmente il mondo si è ridotto a misurare tutto quello che c'è secondo i nostri schemi o meccanismi mentali ( questa sarebbe la presunta « oggettività » ), mentre la sfera affettiva è ridotta a un soggettivismo di tipo emotivistico, appunto senza « ragioni » oggettive.

Se noi gettiamo ancora uno sguardo alle vicende della cultura moderna e contemporanea, possiamo facilmente individuare, alla radice di questa duplice riduzione, il fatto che a un certo punto l'autorità della tradizione è stata dichiarata nemica della ragione.

La prima sarebbe come uno sguardo fisso al passato, la seconda sarebbe il motore progressivo del futuro.

E come si è visto in maniera eloquente nel progetto illuminista - un progetto che sta mostrando i suoi frutti anche nella nostra epoca detta postmoderna - il cristianesimo è stato sempre più fissato, direi quasi « bloccato », da un lato nella novità dei suoi primissimi inizi evangelici, dall'altro nella sua profezia spirituale ed escatologica: ma in tal modo lo si è di fatto sciolto dalla sua stessa storia, cioè dalla sua presenza vivente nel mondo.

Così l'autorevolezza della tradizione è stata riassorbita in un mero ideale di comportamento, e la testimonianza cristiana ridotta a un « dover essere » morale di cui Cristo sarebbe l'esempio supremo, ma che l'uomo stesso - reso infine adulto o maggiorenne rispetto alla fede - può benissimo, e anzi deve, realizzare con le sue sole forze.

Che cosa si può scoprire, invece, in un rapporto vissuto e vivente con la tradizione cristiana?

La razionalità dell'uomo viene esaltata nel suo uso quando riconosce un significato più grande delle proprie misure, vale a dire una ragione infinita presente nella realtà, che ci permette di aderire e di entrare sempre di più in un rapporto amoroso con essa.

È lo sguardo e l'affezione che Cristo ha portato nel mondo, quella verità dell'uomo - di ciascuna persona - che ha continuato nel corso dei secoli ad attirare gli uomini a sé.

Qui è il fascino della nostra traditio, una grande storia in cui la storia di ciascun uomo non risulta più insignificante o superflua rispetto al mondo intero, ma essenziale e insostituibile.

Questa è l'esperienza della santità cristiana: non una eccezionaiità quasi impossibile ed eroica, ma la dimensione e la statura dell'uomo vero, di una personalità realizzata perché in rapporto con il suo destino, Cristo.

4. Una verifica critica

Il rapporto con la tradizione è comunque solo l'inizio della scoperta della ragionevolezza della fede.

Non è sufficiente infatti trasmettere un'ipotesi di significato del reale, quale ci proviene dal passato ed è testimoniato da una presenza autorevole: bisogna che chi riceve o eredita la tradizione possa verificarla, mettendola alla prova nella sua capacità di corrispondere o meno alle esigenze della ragione e del cuore.

Questo è il metodo del « rendere ragione », a se stessi e al mondo intero, della propria fede.

Anzi, a fronte di coloro che ritengono superflua o inincidente la nostra fede per lo sviluppo della personalità umana e per l'affermazione sociale di un bene comune, scopriamo invece che proprio questa verifica della ragionevolezza dell'incontro con Cristo può contribuire in maniera sorprendente a ridare spazio e dignità alla ragione umana nella sua apertura infinita, oltre la « funesta mutilazione » cui essa è stata sottoposta ( cf. Benedetto XVI all'Assemblea Generale della CEI, 30.5.2005 ).

Questo paragone della tradizione con le esigenze presenti dell'io, infatti, è la radice di un atteggiamento realmente « critico » nei confronti del mondo e della vita.

Contrariamente a quanto per lo più si ritiene, la critica non è affatto sinonimo di dubbiosità scettica e spesso prevenuta, ma esame di ogni posizione e di ogni proposta al « vaglio » delle esigenze costitutive della propria ragione e della propria affettività - il krìnein greco, la cui declinazione più intensa ci è stata data dall'invito di San Paolo: « Vagliate ogni cosa e trattenete ciò che vale », o meglio « ciò che è bello » ( kalon, 1 Ts 5,21 ).

Appunto perché il significato della realtà non è un senso astratto da applicare alle cose, ma coincide con il rapporto tra l'attrattiva del reale e il mio io che si lascia toccare da questo fascino di ciò che c'è.

E così si illumina in maniera esistenzialmente verifIcata il valore di « verità » che sempre nella storia della Chiesa è stato legato alla tradizione e da quest'ultima veicolato.

Non si tratta infatti semplicemente di riaffermare che il depositum fidei resta vero lungo i secoli e custodisce questa verità sull'uomo e sul mondo attraversando tutte le tempeste della storia, ma anche e ancor di più che questa verità si manifesta - o meglio: chiede di manifestarsi - sempre di nuovo nel paragone realizzato tra la nostra ragione e la realtà.

E se aveva visto giusto Tommaso d'Aquino nel definire la verità « adeguazione tra la realtà e l'intelletto » ( De ventate I,1-2 ), è proprio questa « corrispondenza » il contenuto peculiare della tradizione.

Agli occhi di chi intende la ragione come misura della realtà questo potrebbe sembrare una posizione di passività ( perché, appunto, si parte da ciò che è dato, non da quello che riesco a fare o immaginare io ), ma a ben vedere è solo da questa accoglienza che può nascere tutta la mia attività.

« Siamo » noi stessi, perché siamo stati fatti: solo chi si impegna con una certezza ricevuta e verifIcata diviene abilitato ad affrontare tutto in maniera spassionata e libera, arrivando anche a ripensare o a contestare ciò che del passato non è più corrispondente alle proprie attese.

Come una volta ha scritto stupendamente Sant'Agostino: « È perché si desse un inizio che è stato creato l'uomo, prima del quale non c'è stato nessuno » ( De civitate Dei XII,20,4 ): ogni uomo è creato perché possa iniziare qualcosa; ma egli può iniziare qualcosa di nuovo proprio perché è in rapporto costitutivo con Chi lo fa.

È questa relazione oggettiva che giudica ogni pretesa di dissolvere relativisticamente il soggetto umano, la persona in carne e ossa, in un mero prodotto del meccanismo naturale e/o dell'interpretazione culturale.

È in virtù di questa posizione dell'intelligenza e del cuore che oggi - sfidando la tacita riduzione e a volte l'esplicita ostilità - possiamo comprendere di nuovo la nostra identità cristiana, come il dono di una storia e insieme la sfida di un compito.

Non la riaffermazione di un'ideologia, ma la gratitudine per un'appartenenza.

E se si sente affermare sempre più diffusamente che il prezzo del dialogo con chi proviene da una tradizione diversa dalla nostra sarebbe quello di elidere o censurare il nostro volto, è invece proprio andando al fondo della coscienza di sé che si può incontrare veramente l'altro.

Alla luce di una certezza verificata esistenzialmente si può valorizzare positivamente tutto e tutti, e dialogare con chi ha posizioni diverse, non più in modo ideologico o dialettico, ma a partire da quella comunanza originaria che ci fa condividere le esigenze, i bisogni e i desideri fondamentali del cuore.

Puntare a ciò che unisce rispetto a ciò che divide non vuol dire affatto ridurre il cristianesimo a un'indistinta e confusa religiosità o a un fideismo sentimentale per poterlo unificare con altre forme e tradizioni religiose; piuttosto, significa verificare tutto alla luce di quei criteri di ragionevolezza e di realismo che condividiamo con tutti gli uomini e che ciascuno può scoprire nella sua esperienza, a patto di liberarsi da quei pregiudizi e da quelle interpretazioni che non corrispondono alle esigenze della vita, e che spesso rischiano addirittura di negarle.

A volte si ha la chiara percezione che la vera difficoltà, la vera posta in gioco nel confronto spesso drammatico che si ha in una società multiculturale non sia tanto la disponibilità a comprendere chi non appartiene alla nostra comunità di cultura e di storia; o meglio: questo è importantissimo, ma può accadere effettivamente solo se riaccade la disponibilità ad accogliere nuovamente quello che ci ha reso - e soprattutto ci rende ora - quello che siamo.

Senza questo lavoro educativo che ci tocca tutti, il dialogo scade a mera tolleranza, e la tolleranza porta sempre in sé il germe della violenza, perché concede pure che l'altro sia, ma non porta mai a un amore vero al destino di ogni altro uomo.

Non un'indifferenza tollerante, ma un rispetto attivo verso l'altro - per il fatto stesso che c'è, e quindi per una ragione che si chiama carità, perché anche l'altro è in rapporto con Dio - permette di vivere la democrazia e il pluralismo.

Criticamente verificata, la tradizione diviene comunicazione dell'ideale cristiano, attraverso il fluire della vita e delle opere di chi la riconosce, come proposta per tutti.

Per questo si può accogliere e amare la propria tradizione solo se essa diviene impeto missionario, annuncio che vi è una risposta certa all'attesa che noi condividiamo con tutti gli altri fratelli uomini.

Si ha quasi pudore a parlare di questa proposta che siamo chiamati a fare al mondo intero, proprio perché è chiaro che essa non nasce da una nostra strategia ecclesiale o pastorale, ma ci sopravanza per grazia, ed è il frutto di una gratitudine che diviene abbraccio a tutto.

Per questo il pudore non solo non contrasta ma va insieme alla certezza.

Comunicare la fede al mondo è una delle più decisive possibilità per poterla verifIcare noi.

5. Prospettive: la tradizione alla prova

Si è già detto in precedenza che il nesso della tradizione cristiana con il presente della nostra umanità e della nostra fede non può essere correttamente inteso come l'« aggiornamento » o l'« ammodernamento » di qualcosa di passato, né questo passato può essere semplicemente filtrato nelle interpretazioni della cultura dominante.

La tradizione segna il campo di un rapporto vivente, per cui se essa non emerge e non incide nel presente non si tratta più, in senso specifico, di tradizione cristiana ma di una semplice storia delle idee, delle istituzioni e delle forme culturali.

Il cristiano sa per esperienza - perché è stato educato a questo nella vita della Chiesa - che la tradizione vive nella memoria e della memoria: non un semplice ricordo, ma il continuo rinnovarsi di quello che è già accaduto.

Paradigmatica a questo proposito è la scansione dell'anno liturgico e la stessa azione che riaccade in ogni celebrazione della liturgia, lì dove noi continuiamo ogni giorno a imparare cosa significhi compiere un gesto veramente umano: « gesto », infatti, è un'azione che porta in sé ( gerit ) il suo significato, cioè un pezzo di realtà legato esplicitamente con il tutto; un frammento fatto di condizioni materiali determinate, che diviene segno e ancor più luogo in cui abita e si manifesta il divino.

In questo la pedagogia della Chiesa si mostra realmente « magistrale », perché ci richiama ogni volta, anzi ci invita operativamente alla possibilità di vivere il particolare ( e la vita concreta è fatta sempre e solo di una serie di « particolari » ) non scisso dalla sua origine e dal suo scopo totale.

Ciò che costituisce l'obiettivo irrealizzato di tanti programmi di cambiamento antropologico e di tanti progetti di rivoluzione sociale - quello cioè di realizzare finalmente l'unità tra la vita e il suo senso, tra la realtà e il suo ideale, cioè tra due cose che sembrano destinate a restare sempre divise - nella memoria cristiana è invece sorprendentemente, sebbene solo inizialmente, già in atto.

C'è un punto preciso e visibile, nel mondo, in cui il desiderio di ogni uomo ha ricevuto, ma sarebbe meglio dire: sta ricevendo, continua a ricevere accoglienza e risposta; un punto in cui ad avere preminenza non sono le nostre analisi e i nostri sforzi in vista del ricongiungimento di ciò che sembrerebbe irrimediabilmente diviso o fratturato, ma una unità che riaccade ora e in quanto tale ci è donata.

E quando parliamo di unità abbiamo presente - in senso analogico - l'unità cattolica della Chiesa ( attorno alla successione apostolica, nerbo teologico primario della traditio ecclesiae ), ma anche l'unità di coscienza del cristiano, che riporta tutto a un unico principio esplicativo e affettivo della realtà, cioè la compagnia di Cristo a ogni uomo; e così parliamo dell'unità tra la persona singola e la comunità, e dell'unità come tensione di abbraccio ecumenico della comunità cristiana con il mondo intero.

In altri termini: è nell'unità tra la realtà e il suo Signore che diviene possibile l'unità della vita intera, e la compagnia della comunità cristiana ne diviene il segno e l'ambito più evidente.

Questo non significa assolutamente ignorare e tanto meno censurare la frattura tra la fede e la vita che oggi attraversa drammaticamente tutti gli ambiti e i livelli dell'esperienza umana, da quello culturale e sociale a quello antropologico e morale, da quello tecnico - scientifico a quello giuridico e politico.

E se è vero che Dio non può salvarci senza di noi; se è vero che la sua grazia è sempre in qualche modo sospesa alla libertà di chi l'accoglie e la segue, bisogna riconoscere però che oggi questa libertà sembra aver perso le sue ragioni.

E senza queste ragioni, senza una certezza ( come sa ogni genitore nel rapporto con i figli ) la libertà non si muove, non rischia: quando tutto finisce per risolversi in opinione o in sensazione ( feeling ) non vale più la pena muoversi.

Nel colloquio avuto qualche tempo fa con una mia studentessa riguardo a tale questione, dopo aver discusso a lungo e in maniera incalzante su come gioca la nostra libertà nell'affronto della vita, lei mi ha detto di colpo, quasi a voler censurare il suo problema umano: « Ma io, di questa libertà che mi trovo addosso, cosa me ne faccio? A che mi serve? Forse è soltanto un peso fastidioso, un impiccio … ».

La battuta, per paradossale che possa apparire, coglie in realtà molto bene la questione: senza una proposta, senza un'ipotesi certa e ragionevole, la libertà resta bloccata - apparendo, appunto, inutile.

Ma al tempo stesso, solo attraverso la mia libertà, il mio rischio nel reale, quella certezza potrà essere confermata: io non sarei quel che sono né potrei agire senza la tradizione; ma la tradizione ha bisogno di me per continuare a essere tale, anzi, per esserlo in forme sempre nuove.

Di fronte alla ferita dell'umanità contemporanea, divisa in se stessa perché divisa da Dio, sta dunque la grandezza della tradizione vivente della Chiesa.

E tuttavia dobbiamo sinceramente riconoscere che i due piani, molte volte anche nella diffusa mentalità dei fedeli, corrono come due rette parallele che non potranno incontrarsi mai, se non in un futuro escatologico che non ci riguarda direttamente.

Che cosa manca? La frattura della coscienza moderna è semplicemente irrisolvibile?

Ma allora la vita della Chiesa sarà un esercizio inutile.

Oppure questa vita è davvero l'inizio, l'anticipo della salvezza ( la caparra dello spirito ), e io attendo di vederla ora, in azione, dentro la ferita e lo smarrimento dell'uomo contemporaneo.

Che cosa ci ha reso sempre più difficile vedere all'opera il nesso tra la mia umanità presente e la presenza di Cristo?

Perché riduciamo così facilmente la vita della Chiesa a un « dover essere » fatto di regole morali, di impegni pastorali, di coerenza civile?

Regole, impegni e coerenza sono essenziali - beninteso -, ma se esprimono qualcosa di nuovo che sta accadendo ora, non un programma di cambiamento per il futuro.

Sono segnali di quella inarrestabile tensione di moralità che nasce dall'appartenenza a ciò che si ama, non le condizioni di quell'amore.

E dunque, se abbiamo incontrato la salvezza, se questa storia che è nata duemila anni fa ha raggiunto anche noi, i moderni, che cosa ci manca ancora?

A me sembra di poter dire che il punto di debolezza sta proprio nel fatto che questo incontro - pur affermato, ribadito, proclamato - non detta più il metodo della vita cristiana.

Non mi riferisco a una metodologia applicativa, ma a quella « via », a quella « strada » al destino, cioè al compimento di sé, che Cristo ha indicato, o meglio ha identificato con la sua stessa persona e con la sua permanenza nel tempo, vale a dire con la Chiesa.

Questo non è solo un problema della vita cristiana, ma anche della più attenta e cosciente condizione umana.

Lo ha espresso in un modo sublime e acutissimo Franz Kafka: « Anch'io, come chiunque altro, ho in me, fin dalla nascita, un centro di gravita, che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare.

Ce l'ho ancora questo centro di gravita, ma, in un certo qual modo, non c'è più il corpo relativo ».

Qual è questo centro di gravita?

Esso è il nostro stesso cuore, quell'attesa di pienezza e di felicità che ci fa uomini; ma è come se esso - pur insopprimibile e incancellabile - fosse inoperoso, non fosse più funzionale alla vita concreta di carne e sangue, come un motore che girasse a vuoto senza muovere l'io.

Senza una proposta ideale, senza la testimonianza di una risposta presente, la domanda ultima, l'esigenza costitutiva dell'uomo in qualche modo si atrofizza.

C'è, ma è come un peso, un fardello: esattamente come diceva quella mia alunna della sua libertà.

Ma è lo stesso Kafka a illuminare ulteriormente il dramma dell'uomo contemporaneo, delineando in queste poche parole il punto in questione: « C'è una meta, ma non c'è una via » ( da Il silenzio delle sirene ).

Ognuno attende una salvezza, magari ne ha anche il sentore, ma non conosce la strada per giungervi.

Ora, questo dramma appartiene ogni giorno anche a noi.

Anche noi che abbiamo conosciuto la « via » della salvezza siamo sempre chiamati al compito di percorrerla - seguendo il metodo che essa continua a proporci: vivere tutte le nostre attese, le nostre esigenze, le nostre domande per scoprire che solo Cristo può rispondervi.

E verificarlo non come un discorso a cui ispirarsi o un programma da realizzare sulla vita o accanto alla vita, ma dentro l'impatto con la realtà di ogni giorno: il lavoro e la famiglia, la politica e il tempo libero, l'economia e la scienza.

E questa la testimonianza incessante che ci proviene dalla nostra tradizione - basta leggere la Divina commedia o guardare le cattedrali delle nostre città, considerare come sono nati gli ospedali o le casse di mutuo soccorso, un certo gusto per la bellezza artistica e la passione per il progresso della conoscenza, un'attenzione amorosa alla realtà intera, dovuta al riconoscimento potente che la realtà è abitata da un significato presente, per cui vale la pena esserci, lavorare, offrire la propria vita.

Per questo la tradizione cristiana attende di essere messa sempre di nuovo alla prova, di essere verificata - il che non vuoi dire affatto « ripetuta », ma vissuta, e quindi, come accade in ogni rapporto integralmente umano, anche modificata nelle sue forme, corretta in alcune direzioni, arricchita di sempre possibili novità.

Mi permetto in conclusione di individuare alcuni punti cruciali che a me sembrano imporsi oggi come decisivi in questo lavoro di verifica cui ogni cristiano e tutte le nostre comunità sono chiamati, in questo seguendo con intelligenza e passione il richiamo e la testimonianza degli ultimi due Pontefici, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, a verifìcare la ragionevolezza della nostra fede.

È proprio la fede, infatti, il dono più prezioso portateci dalla tradizione, grazie alla quale la mia adesione alla salvezza, il mio atto di assenso personale trova appoggio e orizzonte universale nella lunga sequela dei credenti in Cristo ( quella che la liturgia ci fa pregare come la « comunione dei santi » ).

Certo, io non posso credere solo perché qualcun altro o anche miliardi di altri uomini hanno creduto prima di me, giacché nessuno può sostituirsi al mio « sì »; ma questo mio atto non deriva dal nulla, né si pone come un gesto solitario o individualistico, bensì fiorisce da una storia ed è facilitato da una compagnia educativa in cui rinasce o può rinascere per ognuno di noi la familiarità con Cristo.

a) La catechesi

Il primo punto essenziale in ordine al nostro problema è proprio il lavoro quotidiano di ripresa delle ragioni della fede che è rappresentato dalla catechesi: quale che sia l'ambito o la condizione o l'età di coloro che vi partecipano, è un'educazione a cui nessuno può sottrarsi, ma forse è più giusto dire a cui nessuno rinuncerebbe volentieri, come non si rinuncerebbe a seguire ciò che fa vivere.

E più in particolare, a me sembra che a livello di metodo la catechesi debba sempre nuovamente aiutare a un giudizio sulla realtà ( ciò che accade nella vita personale, nella società, nella Chiesa e nel mondo intero ), da non identificare però con una mera analisi della situazione, ma con una disponibilità della ragione e del cuore ad accogliere la sfida degli avvenimenti alla luce della grande ipotesi di lavoro che è certezza della presenza reale di Cristo, nella storia di coloro che lo seguono.

La catechesi, d'altronde, va intesa come una vera e propria scuola dell'umano e della comunità, proprio perché non riguarda delle linee teoriche che poi si debbano applicare, né può ricalcare il modello peraltro già in crisi della « formazione» di operatori, di ruoli e di settori: essa stessa chiede di essere vissuta come l'incontro profondamente personale con un avvenimento che continua, e diventa tanto più significativa quanto più fa scoprire la Chiesa come « una compagnia di amici davvero affidabile, vicina in tutti i momenti e le circostanze della vita [ … ] che non ci abbandonerà mai nemmeno nella morte, perché porta in sé la promessa dell'eternità » ( Benedetto XVI, Discorso al Convegno della diocesi di Roma sull'educazione dei giovani alla fede, 5.6.2006).

Al lavoro della catechesi appartiene anche un'educazione a riconoscere questa presenza attraverso tutti i segni: le forme espressive dell'arte, della musica, della scienza, della letteratura, della creazione di forme nuove di civiltà, della stessa creatività sociale e politica, della testimonianza della carità, in tutto valorizzando l'attesa ultima del cuore dell'uomo, il suo bisogno più radicale di senso e di felicità, e insieme la risposta - incomparabilmente più soddisfacente rispetto a ogni altra - che Cristo costituisce per l'umano.

b) Scuola e università

Un secondo punto in cui la tradizione chiede di essere messa sempre nuovamente alla prova è quello della scuola e dell'università, lì dove cioè si lega, o si dovrebbe legare, una responsabilità educativa nei confronti dei giovani con il senso della storia e con il progredire delle conoscenze.

Molte cose si potrebbero dire sulla tendenziale perdita del significato della tradizione avvenuta in questi luoghi: una perdita rimpiazzata magari dal gusto meramente erudito o con il gioco salottiero del ritorno a epoche distanti da noi, entrambi diretti dagli intellettuali alla moda, ma assai distanti dall'essenziale coscienza di appartenenza a una storia, a una cultura e a un popolo in cui assume consistenza piena la fisionomia di ciascuno.

Anzi, ciò che il più delle volte viene teorizzato è proprio un approccio alla tradizione - e in special modo alla tradizione cristiana - che prescinda da qualsiasi appartenenza vissuta.

Ma la sfida che nella scuola e soprattutto nell'università si fa sempre più chiara non è solo o tanto la riproposizione dei grandi valori e delle imponenti creazioni della storia e della civiltà cristiana, quanto la possibilità di salvaguardare e mantenere l'ampiezza della stessa ragione umana, troppo spesso esaurita in un meccanismo di misurazione, e privata di quella possibilità di conoscenza dell'essere - del vero, del buono e del bello - che viene invece relegata nell'ambito dei gusti o dei sentimenti soggettivi.

Questa apertura al « tutto »
pur attraverso le singole e diverse specializzazioni - come ha di recente ricordato Benedetto XVI nell'ormai celebre discorso tenuto a Regensburg lo scorso 12 settembre -, questa « comune responsabilità per il retto uso della ragione » è il motivo per cui sono nate le università, e mi sembra che essa costituisca anche l'unica prospettiva per cui possa davvero rinascere una passione educativa nel loro ambito.

In questo quadro, contrariamente a quello che si afferma ( non di rado attraverso la negazione di dati storici ), il compito che l'educa zione cristiana si è sin dall'inizio assunta - a prescindere da quanto di volta in volta nei singoli contesti e nelle singole epoche gli sia stata fedele -, ma che oggi sembra straordinariamente rilevante, è quello di salvaguardare il posto assolutamente centrale del logos, del significato ultimo per cui sono state fatte tutte le cose, impedendo, in questa vera e propria « lotta per la ragione », che il mondo e finanche il mio stesso io vengano ritenuti irrazionali e ultimamente inutili, destinati cioè solo al nulla.

In questa prospettiva, come diceva sempre il Papa a Regensburg, « l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni
delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quelle della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza ».

Se poi pensiamo - alla luce di questa tensione educativa alla razionalità - alla grande responsabilità della scuola cattolica in Italia, emerge credo ancora più nettamente l'utilità che essa riveste, e potrebbe sempre più rivestire, per tutto il tessuto umano, culturale e sociale del nostro paese, nella misura in cui ( anche qui in netta anti - tesi alle preoccupazioni circa un presunto indottrinamento confessionale ) essa offra una possibilità paradigmatica per comprendere che l'educazione alla vera criticità, così essenziale nello sviluppo della personalità dei giovani, non solo non esclude un'esperienza di appartenenza alla nostra tradizione, ma addirittura la richiede.

Solo verificando un'ipotesi positiva di spiegazione della realtà, e cioè solo scoprendo se e come essa risponda più di altre ipotesi alle attese strutturali della ragione e del cuore - e in questo caso la proposta della scuola svilupperebbe e incrementerebbe quella della famiglia -, si diviene veramente capaci di discernere tutto e trattenere ciò che vale.

c) La comunicazione e i suoi mezzi

È per questo che ci interessano tutte le possibilità della comunicazione umana, tutte le modalità e i linguaggi dei mass media, tutte le forme, fino alle più avanzate e « immateriali » dell'espressività e della connessione tra le persone e i popoli.

E questo non solo perché siamo nella società della comunicazione pervasiva, ma perché il comunicarsi alla mia umanità e all'umanità di coloro che mi circondano è il metodo che il Logos ha scelto per abitare in mezzo a noi.

Naturalmente ogni forma massmediale, ogni linguaggio reale o virtuale, ogni canale di informazione e di formazione dev'essere percorso per continuare a rendere presente ciò che attraverso i canali della comunicazione ha raggiunto anche noi.

A me sembra tuttavia che la « comunicazione » o meglio le « comunicazioni sociali » assumano un ruolo davvero cruciale nella missione della Chiesa, se e nella misura in cui divenga sempre più chiaro chi è il « soggetto », e insieme il grande « oggetto», ella comunicazione.

Me lo ha fatto ricordare una frase del grande teologo francese Henri De Lubac: « Come presentare il cristianesimo?

Come adattarlo a quelli che sono da evangelizzare? »

Preoccupazione legittima e necessaria.

Ma se si fa strada troppo velocemente, se prende troppo presto il sopravvento nell'apostolo sulla preoccupazione per la propria formazione personale e la propria evangelizzazione, può nascondere molto orgoglio ingenuo, persino se la seconda di queste domande cede il posto a questa, più ortodossa: « Come adattarmi? ».

La domanda essenziale deve essere sempre: Cos'è il cristianesimo?

Che cosa ne ho compreso? Come esprimerlo a me stesso? Come aprirgli tutte le regioni del mio spirito? ecc.

E a simili questioni non si è mai finito di rispondere.

Il cristianesimo non è un oggetto che noi teniamo in mano: è un mistero di fronte al quale noi siamo sempre ignoranti e profani ( da Paradossi e nuovi paradossi ).

Naturalmente la preoccupazione di raggiungere gli altri non va assolutamente intesa come alternativa alla preoccupazione di scoprire per sé la grandezza del cristianesimo: separare le due cose significherebbe snaturare lo stesso concetto di missione ecclesiale, in cui il protagonista è sempre la persona ( la persona di Cristo attraverso la persona di ciascuno di noi ) che vive la sua esperienza nella comunità cristiana, avendo come orizzonte suo proprio niente di meno che il mondo intero.

Avvertire la tradizione come un'eredità - come un figlio riconosce una paternità carnale nella propria vita: questa è la dimensione esistenzialmente più affascinante e l'incidenza più efficace di questa lunga, grande storia sul nostro presente.

Non aver paura di riconoscerlo, sfidando i dogmi e le mode della cultura dominante, comporta in fondo un gesto di libertà.

Ed è proprio vero che solo la verità può rendere liberi - liberi dalla paura di appartenere, liberi di seguire quello che corrisponde di più alla vita, liberi di riconoscere un significato presente per cui vale la pena vivere.

Per questo la tradizione ci interessa, perché ci interessa ciò che può corrispondere all'ampiezza del nostro desiderio e alla nostra attesa di vita, ciò che può strapparci continuamente al nichilismo.

Meno di questo non varrebbe la pena.

Come una volta ha scritto G.K. Chesterton: « L'ortodossia non è soltanto ( come molti ritengono ) la sola, sicura salvaguardia della moralità e dell'ordine, ma anche la sola logica salvaguardia della libertà, del rinnovamento e del progresso » ( da Ortodossia ).

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