Convegno ecclesiale di Verona

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Intervento conclusivo del Prof. Andrea Riccardi

18 ottobre 2006

Vorrei dire anch'io qualcosa sul cristianesimo italiano, le sue debolezze, le sue fragilità e i suoi segni di speranza.

Questo nostro convegno si è aperto il 16 ottobre, anniversario dell'elezione di Giovanni Paolo II.

Molti relatori hanno parlato del cattolicesimo italiano come cristianesimo di popolo: proprio a questo Papa dobbiamo l'intuizione, la dimensione e la comprensione del cristianesimo italiano come cristianesimo di popolo.

È un'illusione consolatoria di fronte alla secolarizzazione e alle crisi attraversate in questi decenni?

Ricordo bene il convegno « Evangelizzazione e promozione umana » del '76, in cui Paolo VI parlava del cristianesimo italiano come di una tradizione ottima ma un po' stanca.

Quel convegno si poneva il problema di come superare la crisi che da dieci anni sembrava attanagliare la Chiesa, polarizzarla e ridurla ai margini.

C'era un diffuso pessimismo, ma emergeva anche l'idea che bisognasse superare quella crisi per arrivare a una condizione stabile.

La crisi veniva da prima del Concilio: lo storico lo sa, e alcuni uomini e donne spirituali lo hanno intuito e hanno avuto l'audacia di iniziare a costruire nuovi percorsi di vita.

Miguel de Unamuno parla di una condizione agonica che non è una condizione di morte, ma di lotta paziente.

Chiunque ha una responsabilità ecclesiale sa come questa sia una condizione da vivere e chi vive il mistero e la realtà della Chiesa percepisce che con tale realtà di crisi bisogna fare i conti.

È pessimismo questo? No, perché credo che la lezione che ci viene dall'ultimo quarto di secolo è che il terreno della crisi è quello su cui germina la speranza.

La storia della Chiesa nei secoli non è stata mai il raggiungimento della condizione paradisiaca o perfetta: non c'è stata un'epoca migliore delle altre per essere cristiani.

Giovanni Paolo II ci ha insegnato che la speranza non viene da geometrie di Chiesa, dai nostri piani o da messianismi che si autopropongono come soluzioni.

Il messaggio in due convegni nazionali è stato chiaro: Giovanni Paolo II, proprio cominciando dalla crisi degli anni '70, si è sintonizzato con questo cristianesimo italiano che è complesso, è stato uomo della pietà di popolo, amico degli intellettuali, convinto del rilievo sociale del cristianesimo, amico delle parrocchie, dei movimenti, scrutatore di una vita di santità, Papa dell'identità radicata ma anche uomo del dialogo, e tanto altro.

Per non parlare del diverso vissuto regionale: chiunque sa la differenza tra il cattolicesimo piemontese e quello siciliano, su cui amava indagare e ha scritto belle cose il nostro amico Cataldo Naro.

Giovanni Paolo II ha colto in profondità questo cristianesimo di popolo come cristianesimo della complessità, un cristianesimo fatto di tanti segmenti di vissuto cristiano, non uguali, non divaricati e da non lasciar divaricare.

Mi sembra importante connettere l'idea di cristianesimo di popolo, che non nega la realtà delle difficoltà e della crisi, all'intuizione di Giovanni Paolo II che ha sconvolto geometrie e messianismi, le tentazioni ricorrenti di chi non ha la pazienza della speranza.

Questa connessione ha anche aiutato a pensarsi nella complessità del vissuto come Chiesa al servizio del Vangelo, come Chiesa sull'orizzonte italiano e per l'Italia.

Era anche convinto, e lo diceva, che il cristianesimo italiano fosse una risorsa per il Paese, quando, ad esempio, si pose il problema della sua unità; una risorsa nonostante la crisi e nella crisi.

Quando si parla di condizione di crisi, non si vuole soffocare la speranza, ma situarla.

Parlare di cristianesimo di popolo vuol dire sapere però che non è una rendita eterna ma una responsabilità; una via che richiede oggi una « fondazione » profonda della fede, una vita aperta alla Parola di Dio, vissuta nella liturgia che libera dalla dittatura del pessimismo o dall'ottimismo di maniera.

In quindici anni gli scenari sono cambiati.

Tutti, in maniera esistenziale, avvertono nel loro modo di pensare il futuro che gli scenari sono cambiati e sono cambiate le prospettive umane del singolo.

A Palermo - molti lo ricorderanno - avemmo la percezione di questo cambiamento, forse più per quello che riguardava l'Italia o l'Europa che il mondo intero.

In quindici anni, mondi, religioni, paesi hanno riscoperto la loro identità e l'hanno proiettata magari in maniera antagonistica contro e verso gli altri.

Tante identità sono state rifondate, in modo antagonistico, almeno per ripararsi in un mondo divenuto più conflittuale.

Soprattutto oggi per tutti noi è meno facile capire dove si sta.

Questo ha accresciuto un senso di inquietudine, che nasce anche dalla mole di informazioni con cui ci si confronta: sappiamo molto e facciamo fatica a capire. In questo senso di inquietudine, in questa fatica a capire sta la radice della prudenza dello spendersi dell'uomo e della donna italiani e anche dei più giovani.

Per noi italiani, ma anche per tutti gli europei, non è stato facile ridefinirsi sugli orizzonti globalizzati degli ultimi quindici anni.

È prevalso quell'uomo spaesato di cui parla lo scrittore Tzvetan Todorov.

In questo spaesamento ci sono tutti gli aspetti che sono stati evocati: la questione dell'uomo e della donna italiani, la difficoltà a pensarsi su fedeltà lunghe e su visioni, la difficoltà a essere famiglia, la crisi del maschio - di cui ha scritto Frank Furedi -, soprattutto la poca voglia di futuro e via dicendo.

E poi tanti mondi sono caduti in questi quindici anni - si pensi a quello comunista con la fine della guerra fredda - ma è finito anche un modo di concepire la politica e di essere militanti.

In questo quadro, appena accennato, il vivere cristiano, realtà del nostro Paese, è una risorsa per la casa comune.

Lo diciamo consapevoli delle sue debolezze, non per vanagloria.

Per questo anche sul cristianesimo del nostro Paese si concentrano le attenzioni o le ostilità, perché è una realtà.

Ma è anche una responsabilità, verso il futuro, verso i tanti disperati che si affollano in una società senza pietà, dove le tradizionali reti di protezione cedono il passo.

Li riconosciamo tutti questi disperati, perché quel disperato potrei essere io, se la mia vita avesse avuto un altro corso: tanta disperazione in giro può essere all'origine di conflitti.

Il vissuto cristiano è oggi una grande risorsa umana di speranza nel tessuto del Paese, ma è una responsabilità che spinge a una scelta decisiva per la nostra fede, quella che chiede l'Apostolo Pietro nella Prima lettera: adornare quell'uomo nascosto in fondo al cuore di ciascuno con un'anima incorruttibile piena di mitezza e di pace.

Credo che occorra sempre più uscire da un gergo « ecclesialese » perché la nostra gente vuole parlare di Dio ma anche di vita, di accadimenti, di gioie e di dolori.

Occorrerebbe allora pensare alla qualità delle nostre celebrazioni liturgiche, nella prospettiva del sinodo del 2008 sulla Parola di Dio.

Abbiamo parlato di un cristianesimo di popolo; la sua storia è storia di semplici e di colti ed è stata tradizionalmente, da secoli, quella di una pietà che ha conservato e comunicato il mistero dell'Eucaristia, a cui ci ha richiamato anche l'ultimo sinodo, ed è una ricchezza da non perdere.

Un cristianesimo di popolo è quello in cui non si separa una conoscenza intellettuale da una affettiva e popolare.

Qui mi sembra stia l'appuntamento con la pagina della Bibbia, come sfida ad andare in profondità, come scaturigine di un linguaggio che parli di Dio e della vita: la Bibbia, grammatica della lingua e della preghiera dei cristiani.

Il vero problema è far crescere il linguaggio con cui si prega, con cui si parla agli altri di Dio, con cui si parla di cose concrete.

Il linguaggio fa la comunione, cresce amando la Bibbia ed è un problema di fede e di speranza.

Questo rende la Chiesa comunicativa ed è quel sogno, quel progetto che Paolo VI delineava non solo per la Chiesa italiana ma per la Chiesa universale, quando diceva, nell'ecclesiam suam: « La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa colloquio» ( n. 67 ).

Vorrei ora riprendere alcuni punti degli interventi che mi hanno preceduto.

Sono molto d'accordo con ciò che ha detto il commissario Figel'.

Noi possiamo non sentirci europei e sentire distanti le istituzioni di Bruxelles o di Strasburgo, ma siamo europei e siamo visti come europei.

Penso che la dimensione europea abbia una sua forza: confrontandoci con il mondo magari rischiarne di sentirei irrilevanti, ma se si vuole esistere nel confronto con un mondo globalizzato non ci si può presentare da soli.

Oggi siamo preoccupati del confronto con l'isiam.

Sono convinto però che se questo confronto ci farà soffrire, non ci metterà in crisi.

L'appuntamento più squilibrato e preoccupante per noi europei - un appuntamento di fronte a cui siamo fragili e lo avvertiamo appena - è quello con la Cina e con l'India.

Lo vediamo già con gli immigrati di questi mondi; lo vediamo nel confronto con un mondo religioso dove non c'è monoteismo, o con un altro mondo religioso, quello indiano, inclusivo, che si ristruttura nel confronto con l'occidente.

Lo vediamo nel confronto con il capitalismo cinese, che mette insieme un capitalismo senza rete e l'assenza di senso della libertà, tipica della tradizione cinese e del sistema marxista.

All'appuntamento con questi mondi come è possibile andare come singoli paesi?

Ci troviamo poi di fronte a un altro fenomeno, di cui parlava anche il commissario Figel'.

Assistiamo allo spegnersi di alcuni paesi europei.

Ci sono paesi europei che hanno delle crisi di introversione.

Pensiamo al Belgio, così diverso rispetto a ciò che rappresentava nel mondo mezzo secolo fa, o all'Olanda: paesi che sembrano avere esaurito il loro ciclo storico.

Credo che la dimensione europea, come diceva Camdessus, sia più profonda e più necessaria di quanto crediamo e già la viviamo.

L'ultima questione: cosa dice un cristianesimo come quello italiano?

Dice, io credo, il segreto antico del Vangelo agli uomini europei: che non si può vivere per se stessi ma bisogna vivere per Lui che è morto e risorto, vivere per gli altri.

Ed è un segreto evangelico che deve inquietare l'Europa, che ha misure strette.

Questo segreto evangelico non può non essere che la radice di un umanesimo europeo che esprima la nostra visione del mondo, della vita, dell'uomo, nel rapporto con gli altri. In questo senso, l'Europa non può vivere senza una sua missione nel mondo e questa missione non può essere solo quella di difendersi.

L'Europa si presenta quindi al confronto con alcuni mondi, con gli Stati Uniti, con l'oriente europeo, con la Russia.

E poi il confronto con l'Africa.

Sono contento di quello che ha detto Camdessus, perché l'emigrazione dall'Africa pone un problema che non è solo quello degli immigrati che vengono da noi ma è quello di un continente che crolla.

Non è un'emigrazione, è un'invasione, nel senso di gente che abbandona mondi e vede nell'Europa la terra della speranza.

In questo senso l'Africa rappresenta un appuntamento per l'Europa.

Un'Africa che è cambiata, che è più disperata, che è diventata in buona parte sotto controllo asiatico.

Di fronte a quest'Africa si pone il problema della missione dell'Europa.

Quando nel 2005 è stato eletto il cardinale Joseph Ratzinger non si è parlato di un Papa straniero rispetto ai papi italiani.

Quando fu eletto Karol Woityla si disse che era un Papa polacco.

Non credo oggi si possa dire che Benedetto XVI sia un Papa tedesco: è un Papa europeo, e si vede nel suo parlare che è un Papa europeo.

Credo che questo sia un anello importante attraverso cui riflettere sul cristianesimo italiano in Europa.

Quando il grande spagnolo e letterato Ortega y Gasset se ne tornò dall'America in Europa e in Spagna, gli chiesero perché era tornato; disse che l'Europa era un continente unico: « Europa es unico continente qui tiene un contenido », giocando sul termine continente che vuoi dire contenitore e continente.

«Tiene un contenido universal »: questa credo sia una grande lezione.

In questo senso penso che i quattro interventi, in prospettive tanto diverse, hanno però tutti insistito sul fatto che questa Europa ha un contenuto universale, e che il cristianesimo e il cristianesimo italiano in questo continente hanno un ruolo da giocare.

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