Sermoni sul Cantico dei Cantici

Indice

Sermone XVI

I. La similitudine di chi guarda dall’alto o del cacciatore che insegue un’altra fiera

1. Che cosa significa questo numero sette?

Non so, infatti, se tra noi ci sia qualcuno così semplice da pensare che non abbia una ragione questo ripetersi ( degli sbadigli ), e che quel numero sia stato messo a caso.

Io penso che non sia privo di fondamento neppure il fatto che il Profeta, stendendosi sopra il morto, si contrasse alla misura del corpicciolo del fanciullo, in modo da far combaciare la bocca con la bocca, gli occhi con gli occhi, e le mani con le mani.

Lo Spirito Santo dispose che tutte queste cose venissero fatte e scritte, certamente, per l’erudizione di quegli spiriti che sono stati ingannati dalla compagnia di un corpo corrotto, e che la stolta sapienza del mondo ha reso insipienti: perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima, e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri ( Sap 9,15 ).

Perciò nessuno si meravigli o se l’abbia a male se io sono curioso nell’investigare queste cose, quasi tirandole fuori dalla dispensa dello Spirito Santo, sapendo che così si vive, e in tali cose c’è la vita del mio spirito.

Dico tuttavia a coloro che precorrono con l’acutezza del loro ingegno, e in ogni sermone non hanno ancora inteso il principio che già aspettano la fine, che io sono debitore anche, e massimamente, ai più tardi; né mi preoccupo tanto di esporre delle parole, quanto di imbeverne i cuori.

E devo attingere e poi mescere, e questo non si può fare scorrendo velocemente, ma trattando con diligenza ed esortando frequentemente.

Tuttavia la discussione sui sensi reconditi ( della Scrittura ) ci ha occupati a lungo, e più che non pensassi.

Credevo che per il presente argomento fosse sufficiente un solo sermone e che avremmo potuto presto attraversare questa selva ombrosa e intricata delle allegorie, e pervenire presto, quasi con il cammino di un giorno, alla pianura dei sensi morali; ma è andata diversamente.

Abbiamo già speso due giorni, e c’è ancora da camminare.

Dall’alto, con un colpo d’occhio, si abbracciava la sommità degli alberi e le cime dei monti, ma la vastità delle valli sottostanti e la densità della vegetazione ingannava la vista.

Potevo, per esempio, prevedere il miracolo di Eliseo, che capitò lì improvviso, mentre parlavamo della vocazione dei Gentili e del rigetto dei Giudei?

E ora, dato che vi siamo capitati, non ci rincresca trattenervici un poco, e poi faremo ritorno all’argomento che abbiamo lasciato; del resto, anche questo è cibo delle anime.

Capita spesso anche ai cani e ai cacciatori di cessare d’inseguire una selvaggina e mettersi a inseguirne un’altra che, per caso, senza che se l’aspettassero, si è trovata sulla loro strada.

II. Significato del miracolo di Eliseo: a che scopo pose la bocca, gli occhi, le mani sul morto

2. È per me motivo di grande fiducia il fatto che quel grande Profeta, potente in opere e in parole, discendendo dall’alto monte del cielo, si sia degnato di venire a visitare me, che sono polvere e cenere, abbia avuto pietà di me morto, si sia inchinato sopra di me che giacevo ( privo di vita ), si sia contratto e adattato a me piccolo, abbia fatto parte a me, cieco, della luce dei suoi occhi, e abbia sciolto la mia bocca muta con il bacio della sua bocca, e abbia rinvigorito le mie deboli mani con il contatto delle sue mani.

Rumino dolcemente queste cose: e le mie viscere si riempiono, e il mio cuore si gonfia, e la lode scaturisce da tutte le mie ossa.

Questo è accaduto una volta per tutti; oggi ognuno di noi lo sente verificarsi in sé, e cioè, noi sentiamo che viene dato al nostro cuore il lume dell’intelligenza, alla bocca la parola di edificazione, e alle mani le opere di giustizia.

Dà di sentire fedelmente, di proferire utilmente, di adempiere efficacemente.

Ed è una cordicella a tre capi, che difficilmente si rompe, e serve a estrarre le anime dalla prigione del demonio, e a innalzarle dietro di lui ai regni celesti, se senti rettamente, se degnamente parli, se rendi conforme anche la tua vita a questi sentimenti e a queste parole.

Con i suoi occhi toccò i miei, ornando la fronte dell’uomo interiore con due occhi luminosi, la fede e l’intelligenza.

Unì la sua alla mia bocca, e su questa bocca morta impresse il seguo della pace, perché, quando eravamo peccatori, riconciliò noi a Dio, noi morti alla giustizia.

Applicò la bocca alla bocca, inspirando di nuovo nella mia faccia lo spirito di vita, ma di una vita più santa della prima; poiché, con il primo soffio mi creò uomo vivente, con il secondo mi riformò nello spirito vivificante.

Ha messo le sue mani sopra le mie, dandomi l’esempio delle buone opere, facendosi modello di obbedienza.

O certamente egli applicò le mani a cose forti per educare le mie alla battaglia e le mie dita alla guerra.

III. Il significato dei sette baci

3. E sbadigliò, dice, il fanciullo sette volte ( 2 Re 4,35 ).

Bastava alla manifestazione del glorioso miracolo che sbadigliasse una volta; ma la molteplicità e il numero misterioso contengono un ammonimento.

Se pensi a quell’immenso corpo esanime di tutto il genere umano, vedi che dappertutto la Chiesa, da quando ricevette la vita perché il Profeta si chinò su di lei, sbadigliò, in certo qual modo, sette volte, ed è solita sette volte al giorno innalzare le lodi a Dio.

Se guardi a te stesso, riconoscerai che vivi della vita spirituale e realizzi questo mistico numero tanto quanto sottometti i tuoi cinque sensi ai due precetti della carità, e, secondo il precetto dell’Apostolo, offri le tue membra a servizio della giustizia per la santificazione, quelle membra che prima avevi fatto servire al peccato per l’iniquità; ovvero, in quanto, impiegando i tuoi cinque sensi per la salute del prossimo, vi aggiungerai, per arrivare al numero sette, queste due cose, cantare cioè a Dio, lodandolo per la sua misericordia e la sua giustizia.

4. Ho un’altra interpretazione di questi sette sbadigli, che significherebbero sette prove, con cui si dimostra la vera e certa salute dello spirito redivivo: quattro appartengono al senso di compunzione, tre all’espressione della confessione.

Se vivi, se senti, se parli, anche tu riconosci queste cose in te.

Pertanto saprai di aver ricuperato per intero il senso, se sentirai la tua coscienza morderti per una quadruplice compunzione, un doppio pudore, e una doppia paura: e la presenza della vita è attestata, e così si riottiene il numero sette, da una triplice specie di confessione, di cui si vedrà in seguito.

Anche Geremia, nelle sue lamentazioni, osserva questo numero.

IV. Il duplice pudore

Anche tu, dunque, nella lamentazione che fai per te, seguendo la forma del profeta, pensa a Dio tuo creatore, pensalo come benefattore, pensalo padre, pensalo signore.

Tutte queste considerazioni ti fanno vedere colpevole.

Piangi per ognuna di queste colpe.

Al pensiero di Dio creatore e di Dio signore, si ecciti il timore, la considerazione di Dio Padre e benefattore susciti in te la vergogna.

In verità il padre non si teme, perché è padre, ed è proprio del padre avere sempre pietà e perdonare.

E se percuote, lo fa con la verga, non con il bastone, e percuotendo, sana.

Ecco, la voce paterna: percuoterò, e io risanerò ( Dt 32,39 ).

Non c’è dunque ragione di temere dal padre, il quale, anche quando ferisce, lo fa per emendare, non per vendicare.

Perciò, quando penso che ho offeso il padre, ho motivo di vergogna, più che di terrore.

Egli mi ha volontariamente generato con la parola di verità, non per stimolo di concupiscenza carnale, come succede con i nostri genitori carnali.

Poi, non ha risparmiato neppure il suo Unigenito per uno generato così.

Egli pertanto si è dimostrato Padre per me, mentre io, a mia volta, non mi sono dimostrato suo figlio.

Con quale faccia oso ora alzare gli occhi al volto di un padre così buono, io che sono un figlio così cattivo?

Mi vergogno di aver fatto cose indegne della mia condizione, mi vergogno di aver vissuto come figlio degenere di tanto padre.

Scioglietevi in lacrime, occhi miei: la mia faccia si copra di vergogna, il mio volto si oscuri, pieno di confusione.

Venga meno per il dolore la mia vita, i miei anni passino nel gemito. Oh, vergogna!

Quale frutto ho raccolto da quelle cose per le quali ora arrossisco?

Se ho seminato nella carne, dalla carne non mieterò se non corruzione; se nel mondo, anch’esso passa con la sua concupiscenza.

Guarda! Infelice e stolto, non mi sono vergognato di proferire cose caduche, vane, quasi nulle, la cui fine è la morte, all’amore e all’onore dell’eterno Padre …

Mi confondo, mi confondo nell’udire: Se io sono Padre, dov’è il mio onore? ( Mal 1,6 ).

5. Ma anche se non fosse padre, sta il fatto che mi ha ricolmato di benefici.

Me lo dimostrano, oltre altre innumerevoli cose, il nutrimento di questo corpo, e l’uso di questo tempo, e soprattutto il sangue del suo diletto Figlio che grida dalla terra.

Mi vergogno di essere ingrato.

Per di più, ad accrescere la mia confusione, sento anche il rimprovero di aver reso male per bene, e odio in cambio di amore.

È vero che non ho nulla da temere da parte del mio benefattore, come neanche dal Padre.

È infatti un vero benefattore, che dà in abbondanza, e non lo rinfaccia.

Non rinfaccia i doni; e i suoi benefici me li ha dati, non venduti.

In una parola, i suoi doni sono senza pentimento.

Ma quanto più sono costretto a pensarlo benigno, tanto maggiormente mi sento indegno.

Arrossisci e rammaricati tuttavia, o anima mia, perché, anche se a lui non conviene ritoglierti o rinfacciarti i suoi doni, per noi tuttavia è sommamente disdicevole l’essere ingrati e immemori.

Ahimè! Che cosa, almeno adesso, gli renderò per tutto quello che mi ha elargito?

6. Che se, per caso, il pudore compie troppo debolmente la sua parte, gli si faccia venire in aiuto il timore.

Si ecciti il timore, affinché, a sua volta, stimoli.

V. Il duplice timore

Metti da parte per un poco i nomi di benefattore e di padre, e poni mente a vocaboli più austeri.

Colui infatti che la Scrittura chiama Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, chiama pure Dio Signore delle vendette, Dio giusto giudice e forte, lo chiama terribile nel suo agire sugli uomini, lo chiama Dio geloso ( 2 Cor 1,3; Sal 7,12; Sal 66,5; Es 20,5 ).

Che sia Padre, che sia benefico, è per te; che sia Signore e Creatore, è per sé: infatti, Egli ha fatto tutte le cose per se stesso ( Pr 16,4 ), come dice la Scrittura.

Ora dunque, colui che ti mantiene e conserva quello che è tuo, pensi che presto o tardi non prenderà cura dei suoi interessi?

Pensi che non richiederà l’onore dovuto al suo principato?

Per questo l’empio ha irritato Iddio, perché ha detto in cuor suo: non chiederà conto ( Sal 10,13 ).

E che è dire nel proprio cuore: non chiederà conto, se non che si teme che lo chieda?

Ma lo richiederà fino all’ultimo spicciolo, lo richiederà, e castigherà duramente coloro che agiscono con superbia.

Richiederà al redento il servizio, l’onore e la gloria a colui che egli ha creato.

7. Il Padre può anche dissimulare, il benefattore perdonare, ma non il Signore e il Creatore; chi perdona al figlio, non perdona alla creta, non perdona il servo malvagio.

Rifletti quale motivo di paura e di terrore sia l’aver disprezzato colui che ha creato te e tutte le cose, l’aver offeso il Signore della maestà.

Appartiene alla Maestà l’essere temuta, al Signore l’essere temuto, e massimamente a una tale maestà, a un tale Signore.

Poiché, se è sancito dalle leggi umane che il reo di lesa regia maestà, anche se umana, venga punito di morte, quale sarà la sorte riservata a coloro che disprezzano la divina onnipotenza?

Tocca i monti, e fumano: e vile pulviscolo che un lieve soffio disperde e non si può più raccogliere ardisce irritare una così tremenda maestà?

Quegli è da temere, quegli che, dopo aver ucciso il corpo, ha il potere di mandare nella geenna.

Ho paura della geenna, ho paura del volto irritato del giudice, tremendo alle stesse potestà angeliche.

Tremo per l’ira del potente, per il furore del suo sguardo, per il fragore del mondo che si dissolve, per la conflagrazione degli elementi, per la sciagura immane, per la voce dell’arcangelo e per la dura sentenza.

Tremo per i denti della bestia infernale, per il baratro dell’inferno, per il ruggito dei demoni pronti a divorare.

Inorridisco al pensiero del verme che rode, del fuoco che brucia, del vapore di zolfo, del vento di bufera, ho orrore delle tenebre esteriori.

Chi darà: acqua al mio capo, e ai miei occhi una fonte di lacrime, onde prevenire con i pianti il pianto, e lo stridore di denti, e le dure catene alle mani e ai piedi, peso di catene che premono, stringono, bruciano e non consumano?

Ahimè! Madre mia! Perché mi hai generato, figlio di dolore, figlio di amarezza e di indignazione, e di eterno pianto?

Perché sono stato ricevuto sulle ginocchia, allattato al seno, io, nato per bruciare e alimentare il fuoco?

8. Chi ha tali sentimenti, certamente si è ripreso e in questo duplice timore, e nella parimenti duplice vergogna di cui sopra ha quattro sbadigli.

VI. La triplice confessione. La prima, l’umile

Aggiungerà i tre rimanenti con la voce della confessione e ormai non si potrà più dire di lui che non parla e non sente: a condizione che quella confessione proceda da un cuore umile, semplice e fiducioso.

Confessa dunque umilmente, puramente e fedelmente tutto ciò che rimorde la tua coscienza e così hai realizzato questo numero simbolico.

Vi sono di quelli che si gloriano del male fatto, e godono di cose pessime; di essi dice il Profeta: ostentano il peccato come Sodoma ( Is 3,9 ).

Ma io, in questo discorso, escludo quei tali: che cosa importano a noi quelli che sono fuori?

9. Tuttavia, anche riguardo a coloro che vestono da religiosi ed hanno professato la religione, sentiamo che taluni ricordano e si vantano con estrema impudenza delle loro passate malefatte che hanno compiuto, per esempio, dimostrandosi forti in conflitti armati, ovvero arguti in gare letterarie, o altre cose, stimabili secondo la vanità del mondo, ma nocive rispetto alla salute dell’anima, perniciose, dannose; questo è indizio di animo ancora mondano, e l’umile abito che questi tali portano, non è merito di santa novità, ma copertura della primitiva vetustà.

Taluni quasi dolenti e pentiti ricordano simili cose, ma con l’intento di ricercarne gloria, e così non cancellano le colpe commesse, ma illudono se stessi: Dio, infatti, non si canzona.

Non hanno deposto l’uomo vecchio, ma fanno mostra di essere vestiti di quello nuovo.

Con quella specie di confessione non si depone o si butta via il vecchio fermento, ma si stabilisce, secondo quel detto: si logoravano le mie ossa, mentre gemevo tutto il giorno ( Sal 32,3 ).

Fa vergogna ricordare come certuni siano così sfacciati da vantarsi di cose per le quali dovrebbero piangere, come di aver, anche dopo rivestito il santo abito, soppiantato con astuzia qualcuno, di aver imbrogliato un fratello in un affare, o di aver applicato la legge del taglione, rendendo audacemente male per male e maledizione per maledizione.

10. Ma vi è una confessione tanto più pericolosa e dannosa quanto più sottilmente vana, quando cioè non temiamo di manifestare le nostre cose, anche disoneste e turpi, non perché siamo umili, ma affinché siamo stimati tali.

Ora, bramare la lode che proviene dall’umiltà, non è la virtù dell’umiltà, ma il rovescio.

Il vero umile vuol essere reputato vile, non stimato umile.

Gode del disprezzo di sé, veramente superbo solo in questo, che disprezza le lodi.

Che c’è di più perverso, di più indegno, che la confessione, custode dell’umiltà, serva alla superbia e tu voglia apparire migliore là dove ti mostri peggiore?

Strana specie di millanteria, che tu non possa apparire santo, se non ti mostri scellerato.

Ma tale specie di confessione che ha l’apparenza dell’umiltà, ma non la virtù, non solo non merita il perdono, ma provoca l’ira.

Giovò forse a Saul quando, al rimprovero di Samuele, confessò di aver peccato?

Fu certamente colpevole quella confessione, che non cancellò la colpa.

Quando infatti avrebbe disprezzato l’umile confessione il maestro d’umiltà, e al quale è certamente innato di dare la grazia agli umili?

Non poteva assolutamente non venire placato, se quella umiltà che fu espressa dalle labbra fosse rifulsa anche nel cuore.

Ecco perché ho detto che la confessione deve essere umile.

VII. La semplice confessione

11. Dev’essere anche semplice.

Non voler scusare l’intenzione, se è cattiva, per il fatto che forse gli altri non la conoscono, né diminuire la colpa che è grave, né far intendere di essere stati spinti da altri, poiché nessuno può costringere chi non vuole.

La prima cosa non è una confessione, ma una difesa; né placa, ma provoca.

La seguente è segno di ingratitudine e più si attenua la colpa, più si sminuisce la gloria di Dio che perdona.

E si concede meno volentieri un beneficio, quando viene ricevuto con minor gratitudine, o che si reputa meno necessario.

Rinuncia dunque al perdono chi attenua il beneficio del donatore, ed è ciò che fa chiunque si sforza con le parole di addurre attenuanti al suo reato.

Per evitare questo siamo ammoniti dall’esempio del primo uomo, il quale non negò la sua colpa, e tuttavia non conseguì il perdono, certamente perché volle addurre anche la colpa della donna.

Strano modo di scusarsi, quando tu sei rimproverato, l’accusare un altro.

Ora, chiedi al santo Davide come sia, non solo poco fruttuoso, ma pericoloso volerti scusare quando vieni sgridato.

Egli chiama infatti parole di malizia le scuse nel peccato, pregando e supplicando perché il suo cuore non si lasci andare a esse.

E giustamente. Quale infatti maggior malizia che armare la propria ( malizia ) contro la propria salvezza, e uccidere te stesso con la spada della tua lingua?

E infine, chi è cattivo con sé, per chi sarà buono?

VIII. La confessione fedele e i sette vasetti che portò il Signore Gesù, cinque pieni di olio, due di vino

12. Sia però anche fiduciosa la confessione, di modo che tu confessi nella speranza, non diffidando affatto del perdono, perché tu non abbia a condannarti con la tua bocca, anziché giustificarti.

Giuda, certamente, traditore del Signore, e Caino, fratricida, hanno confessato e hanno diffidato.

Uno: Ho peccato, disse, tradendo il sangue giusto ( Mt 27,4 ); l’altro: La mia iniquità è troppo grande, perché io meriti perdono ( Gen 4,13 ); e la loro confessione, anche se verace, ma senza fiducia, non giovò loro nulla.

Queste tre condizioni, dunque, della confessione, unite alle quattro della compunzione, di cui abbiamo detto sopra, formano il simbolico settenario.

13. Ormai, così compunto e confessato, e pertanto certo della propria vita, sei anche certo, credo, che colui che in te ha saputo ed ha voluto operare tali cose, non porta invano il nome di Gesù, né invano è venuto dopo il bastone che aveva mandato innanzi.

Non è venuto invano, perché non è venuto vuoto.

Poiché come poteva essere vuoto lui, nel quale abitò la pienezza?

Infatti, a lui lo Spirito non è stato dato con misura.

Infine, è venuto nella pienezza dei tempi, indicando con ciò che veniva pieno.

Veramente pieno, lui che il Padre unse con l’olio della letizia a preferenza dei suoi eguali, lo unse, e lo mandò pieno di grazia e di verità.

Unse perché ungesse. Tutti sono stati unti da lui, coloro che meritarono di ricevere dalla sua pienezza.

Perciò dice: Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai mansueti, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a promulgare l’anno di misericordia del Signore ( Is 61,1-2 ).

Veniva, come senti, a ungere le nostre piaghe e a lenire i nostri dolori; perciò venne unto, venne mansueto, mite e ricco di misericordia per tutti quelli che lo invocano.

Sapeva che scendeva a uomini infermi e si mostrò quale richiedeva la necessità.

E poiché molte erano le infermità, da provvido medico ebbe cura di portare anche molte medicine.

Portò lo spirito di sapienza e di intelligenza, lo spirito di consiglio e di fortezza, lo spirito di scienza e di pietà e lo spirito del timore del Signore.

14. Vedi quante fiale piene di profumi ha preparato il medico celeste per sanare le ferite di quel poveraccio che incappò nei ladroni.

Sono in numero di sette, sette forse per eccitare i sette sbadigli di cui abbiamo parlato.

Nelle fiale, infatti, c’era lo Spirito di vita.

Da queste infuse l’olio sulle mie piaghe, perché la misericordia sovrabbondasse sulla giustizia, come l’olio in un vaso galleggia sopra il vino.

Portò quindi cinque misure di olio, due sole di vino.

Il vino esprime infatti solo il timore e la fortezza.

Gli altri cinque designano, per la loro soavità, l’olio.

Infine, nello spirito di fortezza, come un forte ebbro di vino, discese agli inferi, spezzò le porte di bronzo e ruppe i paletti di ferro, legò il forte e gli strappò i prigionieri.

Discese tuttavia nello spirito di timore, non come timido, ma come uno che incute timore.

15. O Sapienza! Con quanta arte medica tu mi ridai la salute dell’anima con il vino e l’olio, fortemente soave e soavemente forte!

Forte per me e soave a me.

Tu, insomma, arrivi da un capo all’altro con fortezza e tutto disponi con soavità, scacciando il nemico e curando l’infermo.

Risanami, o Signore, e sarò sanato, canterò e loderò il tuo nome e dirò: Olio sparso è il tuo Nome ( Ct 1,2 ).

Non vino effuso – perché non voglio che tu entri in giudizio con il tuo servo – ma olio, perché mi coroni di grazia e di misericordia.

Olio cioè che, mentre galleggia sopra tutti i liquidi con i quali viene mescolato, designa chiaramente il nome che è sopra ogni altro nome.

O nome soavissimo e dolcissimo!

O nome splendido, nobilissimo, altissimo e sopraesaltato nei secoli!

O vero olio che fa brillare la faccia dell’uomo, che profuma il capo di colui che digiuna, perché non spanda l’odore dell’olio del peccatore.

Questo nome nuovo, che la bocca del Signore ha nominato, che è stato chiamato dall’angelo prima che venisse concepito nell’utero.

Non solo il Giudeo, ma sarà salvo chiunque avrà invocato questo nome, perché è stato sparso dappertutto.

Questo nome l’ha dato il Padre al figlio, sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto nei secoli.

Amen.

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