Sermoni sul Cantico dei Cantici

Indice

Sermone XXXVII

I. La conoscenza di noi stessi e di Dio deve avere la preferenza sulla scienza di questo mondo; qual è il seme della giustizia

1. Penso che non ci sia ora bisogno di esortare a star svegli, perché certamente è ancora vivo in voi essendo recente, il discorso con cui abbiamo chiuso il sermone precedente, e che proferito da noi in spirito di carità, è servito a svegliare alcuni.

Dunque vi ricordate che io ho notato il vostro assenso quando dicevo che nessuno si può salvare senza la conoscenza di se stesso, dalla quale nasce l’umiltà, madre della salvezza, e il timore di Dio che come è l’inizio della sapienza lo è anche della salvezza.

Nessuno, dico, si salva senza quella conoscenza, a condizione che abbia l’età e la facoltà di conoscere.

Lo dico per i bambini e quelli che non hanno l’uso della ragione, per i quali valgono altre considerazioni.

E che cosa dire se uno non conosce Dio?

Vi potrà essere speranza di salvezza con l’ignoranza di Dio? Neppure.

Non è infatti possibile né amare quello che si ignora, né possedere colui che non si ama.

Conosci dunque te stesso per temere Dio; conosci lui per amarlo.

Nei primo vieni iniziato alla sapienza, nel secondo ne hai la perfezione, perché inizio della sapienza è il timore del Signore, e la pienezza della legge sta nella carità ( Sal 111,10; Rm 13,10 ).

Bisogna guardarsi dall’una e dall’altra ignoranza, in quanto senza timore e amore non vi può essere salvezza.

Tutte le altre cose sono indifferenti, né assicurano la salvezza se si conoscono, né sono causa di dannazione se si ignorano.

2. Non dico tuttavia che si debba disprezzare la scienza delle lettere, che serve a erudire e ornare l’anima, e la mette in grado di poter insegnare anche ad altri.

Ma occorre che precedano sempre quelle altre due conoscenze, nelle quali come abbiamo detto è compendiata tutta la salvezza.

E vedi se non intuiva e non insegnava quest’ordine colui che diceva: Seminate per voi secondo giustizia, e mieterete secondo bontà, e solamente dopo: Illuminatevi con il lume della scienza ( Os 10,12 ).

Ha messo per ultimo la scienza, come una pittura che non si può reggere se non ha sotto qualche cosa che la sostenga ed ha premesso le altre due cose da mettervi sotto, come un solido sostegno sul quale distendere la pittura.

Mi applicherò sicuro alla scienza, se avrò la sicurezza della speranza mediante la bontà della vita.

Tu dunque hai seminato per te secondo giustizia, se dalla vera conoscenza di te hai imparato a temere Dio, ti sei umiliato, hai sparso lacrime, hai dato in elemosina i tuoi beni e ti sei applicato alle altre opere di pietà, se hai castigato il corpo con digiuni e veglie, ti sei battuto il petto e hai stancato il cielo con le tue insistenti preghiere.

Questo vuol dire seminare secondo giustizia.

I semi sono le buone opere, i buoni sentimenti, sono semi le lacrime.

Nell’andare, dice il salmo, se ne va e piange, portando la semente da gettare.

Ma che? Piangerà sempre? Oh, no!

Ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni ( Sal 126,6 ).

Davvero con giubilo, poiché riporta i covoni della gloria.

« Ma questo, dici, avverrà nella resurrezione dell’ultimo giorno, ed è troppo lungo aspettare fino ad allora ».

II. Il gaudio della speranza e donde esso si generi nell’animo

Non perderti d’animo, non venir meno preso dallo scoraggiamento; nel frattempo hai da mietere nell’esultanza, anche fin da ora, dalle primizie dello Spirito.

Seminate, dice, secondo giustizia, e mieterete la speranza della vita ( Os 10,12 ).

Non ti rimanda all’ultimo giorno quando la ricompensa sarà nella realtà e non solo nella speranza, ma parla del presente.

Certamente sarà una grande gioia, e un’esultanza immensa quando verrà la vita.

3. Ma sarà forse senza gioia la speranza di una così grande letizia?

Lieti nella speranza ( Rm 12,12 ) dice l’Apostolo.

E Davide dice che non si rallegrerà, ma che si è rallegrato perché sperava di andare nella casa del Signore.

Non possedeva ancora la vita, ma aveva già mietuto la speranza della vita, e sperimentava in se stesso la verità della Scrittura, che afferma non solo nella ricompensa, ma anche nell’attesa dei giusti esservi letizia ( Pr 10,18 ).

Questa viene generata nell’animo di colui che ha seminato per sé secondo giustizia, dalla fiducia nel perdono dei peccati, perdono però che deve avere una conferma dalla efficacia della grazia, per vivere poi più santamente.

Chiunque di voi sente in sé operarsi queste cose, sa che cosa dica lo Spirito, la cui voce e la cui operazione non sono mai discordanti tra di loro.

Perciò dunque comprende le cose che sente al di fuori, perché le sente al di dentro.

Poiché l’unico e medesimo Spirito che parla in noi, opera in voi, dando ai singoli di parlare, agli altri di operare quello che è buono.

4. Pertanto chiunque di noi dopo i primi tempi passati nel chiostro in amarezza e lacrime, prova la gioia di respirare nella speranza della consolazione, e di volare, sollevato sulle ali della grazia, costui veramente già miete, ricevendo il frutto temporaneo delle sue lacrime; ed egli ha veduto Dio e ha udito la voce di lui che diceva: Dategli del frutto delle sue mani ( Pr 31,31 ).

Infatti come non ha visto Dio colui che ha gustato e visto quanto è soave il Signore?

Quanto dolce e soave ti sente, o Signore Gesù, colui al quale, non solo sono stati da te perdonati i peccati, ma al quale hai fatto dono della santità; e non questo soltanto, ma al cumulo di beni gli è stata anche aggiunta la promessa della vita eterna.

Felice chi ha già mietuto tanto, ed ha fin d’ora il suo frutto nella santificazione, e come fine lo attende la vita eterna.

A ragione chi, avendo trovato se stesso, ha pianto, si è riempito di gaudio alla vista del Signore, e grazie alla sua misericordia ha già raccolto tanti covoni, il perdono, la santificazione, la speranza della vita.

O come è vera la parola che si legge nel Profeta: Coloro che seminano nelle lacrime, mieteranno con gaudio ( Sal 126,5 ).

Ivi è in breve compresa l’una e l’altra conoscenza: quella di noi stessi che semina nelle lacrime, e quella di Dio, che miete nel gaudio.

III. Dopo la conoscenza di Dio e di noi stessi la scienza che si aggiunge non ci gonfia, e come l’ignoranza di noi genera la superbia

5. Se in noi precede questa doppia conoscenza, la scienza che in caso venga ad aggiungersi non gonfia affatto, in quanto non è in grado di procurare che comodità e onori terreni, veramente inferiori alla speranza concepita e alla letizia che viene da questa speranza, già profondamente radicata nell’animo.

La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo, dello Spirito Santo che ci è stato dato ( Rm 5,5 ).

Quella, la speranza, non delude, perché questa, la carità, infonde la certezza.

Per questa infatti lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio.

Che cosa pertanto può provenire a noi dalla nostra scienza, quale che possa essere, che non sia inferiore alla gloria di essere annoverati tra i figli di Dio?

Ho detto poco: anche se ognuno di noi potesse possedere tutta la terra e quanto essa contiene, tutto questo non meriterebbe uno sguardo in paragone di essa.

Del resto, se in noi c’è l’ignoranza di Dio, come possiamo sperare in lui che ignoriamo?

Se poi ci manca la conoscenza di noi stessi, come potremo essere umili, credendo di essere qualche cosa, mentre non siamo nulla?

Ora, sappiamo che né per i superbi, né per i disperati vi può esser parte nella comunità dei Santi.

6. Vedete dunque ora con me con quanta cura e quanta sollecitudine dobbiamo eliminare da noi queste due ignoranze, delle quali una genera l’inizio di ogni peccato, e l’altra ne porta la consumazione; come, all’opposto, delle due conoscenze, una genera l’inizio della sapienza, e dall’altra deriva la perfezione: la prima produce il timore del Signore, la seconda la carità.

Ma questo che riguarda la conoscenza è stato già dimostrato sopra.

Ora vediamo dell’ignoranza.

Come pertanto il timore del Signore è l’inizio della sapienza ( Sal 111,10; Qo 1,16 ), così principio di ogni peccato è la superbia ( Qo 10,15 ); e come l’amor di Dio si attribuisce la perfezione della sapienza, così la disperazione è considerata come il colmo della malizia.

E come dalla conoscenza di te ti viene il timore di Dio, e dalla conoscenza di Dio l’amore di lui così al contrario, dall’ignoranza di te viene la superbia, e dall’ignoranza di Dio la disperazione.

Così poi l’ignoranza di te stesso genera in te la superbia, in quanto il tuo pensiero, ingannato e ingannatore, ti persuade falsamente di essere migliore di quello che in realtà sei.

E questa è la superbia, questo l’inizio di ogni peccato, quando tu sei più grande ai tuoi occhi di quello che sei davanti a Dio, di quello che sei in verità.

E per questo di colui che per primo ha commesso questo grande peccato, parlo del diavolo, è stato detto che non ha perseverato nella verità, ma è bugiardo dall’inizio ( Gv 8,44 ), perché non era in verità quello che nella sua mente pensava di essere.

Che cosa sarebbe successo se egli si fosse scostato dalla verità, reputandosi minore o inferiore alla verità?

La sua ignoranza l’avrebbe certamente scusato, e non sarebbe stato considerato superbo, né si sarebbe trovata in lui l’iniquità che lo rende odioso, quanto piuttosto l’umiltà che gli avrebbe forse attirato la grazia.

Se infatti noi conoscessimo chiaramente in quale stato Dio vede ognuno di noi, non dovremmo passare né sopra né sotto, accomodandoci in tutto alla verità.

Ma ora, poiché questo pensiero di Dio ci è nascosto, e come avvolto nelle tenebre, di modo che nessuno sa se sia degno di amore o di odio, è più giusto e certamente più sicuro, seconda il consiglio della stessa Verità, che scegliamo per noi l’ultimo posto, dal quale siamo poi invitati a salire più in su, piuttosto che metterci in alto, e dovere in seguito cedere il posto con vergogna.

IV. Quale pericolo sia sollevarsi anche modicamente dalla similitudine della bocca e come l’uomo non debba paragonarsi ad alcuno

7. Per quanto dunque tu ti umili, per quanto ti reputi meno di quello che sei, vale a dire di quanto ti valuti la Verità, non corri rischio.

È invece un grande male, e un tremendo pericolo se tu ti elevi, anche di poco, al di sopra del vero, se, per esempio, nel tuo pensiero ti preferisci anche a uno solo, che forse la Verità giudica uguale o superiore a te.

Per portare un esempio, a quel modo che dovendo passare per una porta il cui stipite è troppo basso, non ti nuoce se ti inchini più del necessario, ma ti nuoce se ti alzi anche solo un dito più di quanto comporti la misura della porta, perché allora vieni a urtare contro lo stipite e resti con la testa rotta, così nell’anima non è affatto da temere una umiliazione anche grande, ma è da temere assai come cosa orrenda la presunzione di elevarsi, anche minimamente.

Perciò, o uomo, non paragonarti ai più grandi di te, agli inferiori, ad alcuni, o anche a uno solo.

Chi sa infatti, o uomo, se quell’uno che tu consideri come il più vile, il più misero di tutti, del quale hai singolarmente in orrore la vita scellerata e turpe, e perciò lo consideri degno di disprezzo, non solo rispetto a te che forse pensi di vivere con sobrietà agli altri scellerati tutti come il peggiore di tutti, chissà, dico, che non sia per diventare, per un cambiamento operato dalla destra dell’Altissimo, è migliore di te e degli altri, e davanti a Dio già non lo sia?

E perciò il Signore ha voluto che scegliessimo non un posto mediocre, neanche il penultimo o uno tra gli ultimi, ma disse siediti all’ultimo posto ( Lc 14,10 ), in modo da sedere solo ultimo di tutti, senza che, non dico ti preferisca, ma neanche ti paragoni ad alcuno.

Ecco quanto male ci viene dall’ignorare noi stessi, la superbia, cioè peccato del diavolo e radice di ogni peccato.

Che cosa poi produca l’ignoranza di Dio lo vedremo un’altra volta; adesso infatti il tempo non lo permette, poiché siamo venuti tardi in capitolo.

Per ora basti che ognuno sia ammonito a non ignorare se stesso, e non solo dalle parole nostre, ma anche da quelle che si è degnato lasciarci lo Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli.

Amen.

Indice