Sermoni sul Cantico dei Cantici |
1. È stato chiesto quale affinità ci sia tra l’anima e il Verbo.
Era una domanda necessaria.
Quale relazione c’è, infatti, tra una così grande maestà e una povertà così estrema, così che vengono presentate vicendevolmente avvinte a guisa e con amore di sposi quella sublimità e questa umiltà quasi si trattasse di eguali?
Se, infatti, è vero quello che diciamo c’è in questo motivo di molta letizia e fiducia: se non fosse vero la nostra sarebbe un’audacia degna di grande punizione.
Perciò c’era bisogno di investigare su questa affinità: già se n’è detto molto, ma non tutto.
Chi vi è mai che sia così sciocco da non vedere come stiano vicine l’immagine e ciò che è secondo l’immagine?
Il discorso di ieri, se ricordate, ha assegnato una cosa a una di esse, e l’altra all’altra, cioè il Verbo essere l’immagine e l’anima essere fatta a immagine di Dio.
Ma non solo si è dimostrata la vicinanza quanto all’immagine, ma anche quanto alla somiglianza, sennonché non è ancora stato detto chiaramente in che cosa o in quali cose consista la stessa somiglianza.
Dunque, cerchiamo di dare questa spiegazione affinché quanto più pienamente l’anima conoscerà la sua origine, tanto più si vergogni di condurre una vita degenere, anzi si sforzi di riformare con la sua industria quello che scorgerà viziato dal peccato nella natura, perché comportandosi come conviene alla sua parentela, con la grazia di Dio si accosti con fiducia agli amplessi con il Verbo.
2. Rifletta, pertanto, che dalla sua somiglianza con la semplicissima natura divina deriva in essa quella naturale semplicità della sua sostanza per cui per lei essere equivale a vivere, anche se non equivale a vivere bene o beatamente, perché rimanga somiglianza, non uguaglianza.
È un gradino vicino, ma un gradino.
Non c’è, infatti, pari eccellenza o pari grandezza nel fatto che per l’anima essere corrisponde a vivere, mentre per Dio essere è uguale a essere beato.
Quest’ultima cosa compete al Verbo per la sua sublimità, l’altra all’anima per la somiglianza.
Salva dunque l’eminenza del Verbo risulta chiaramente l’affinità delle nature e la prerogativa dell’anima.
E perché questo sia più chiaro: solo per Dio essere equivale a essere beato: e questo è il primo e purissimo semplice.
Il secondo è simile a questo, cioè avere l’essere equivale a vivere: e questo è dell’anima.
Da questo, anche se di grado inferiore, si può salire non solo al vivere bene, ma anche beatamente: non che allora essere sia uguale a essere beato, per colui che sia pervenuto a quel punto da potersi gloriare per la somiglianza, in modo tale però che tutte le sue ossa sempre debbano dire, a causa della disparità: Signore, chi è simile a te? ( Sal 35,10 ).
Un buon gradino per l’anima, tuttavia, per il quale e solo per il quale si sale alla vita beata.
3. Vi sono degli esseri viventi di due generi: quelli che sentono e quelli che non sentono.
Quelli che sentono sono un poco più in su di quelli insensibili e agli uni e agli altri si antepone la vita per cui si vive e si sente.
Non staranno parimenti sullo stesso gradino la vita e il vivente, e molto meno la vita e le cose che sono senza vita.
Vita è l’anima vivente ma non da altrove che da se stessa; e per questo non tanto vivente quanto vita, per parlare propriamente di essa.
Di qui è che infusa nel corpo lo vivifica perché sia corpo dalla presenza della vita, non vita ma vivente.
Onde è chiaro che neanche per il corpo vivo vivere equivale ad essere potendo essere e non vivere affatto.
Molto meno le cose prive di vita possono assurgere a questo grado.
Ma neppure tutto quello che si dice o è vita potrà arrivare a questo punto.
Vivono gli animali e vivono gli alberi, gli uni con i sensi, gli altri senza.
Né agli uni né agli altri l’essere è lo stesso che vivere perché, come è opinione di molti, essi sono esistiti nei loro elementi prima che nelle loro membra o nei loro rami.
Secondo questo quando cessano di vivificare cessano di vivere, ma non di essere.
Si sciolgono e si dissolvono come un insieme di sostanze non soltanto legate, ma collegate.
Ognuno di esse ( animali o piante ), infatti, non è un’unica cosa semplice, ma il risultato di più e perciò non viene ridotto al nulla, ma si scioglie in parti, di modo che ognuno torna al suo principio, per esempio l’aria nell’aria, il fuoco al fuoco, e così le altre cose.
A una tale vita dunque non è la stessa cosa vivere ed essere, poiché continua ad essere quando più non vive.
4. Pertanto, nessuna di queste cose per le quali l’essere non equivalga al vivere potrà progredire e giungere un giorno alla vita buona e beata, non essendo arrivata neppure a quel primo grado.
Solo l’anima dell’uomo che sta in esso è stata creata in tanta dignità, vita dalla vita, semplice dal semplice, immortale dall’immortale, da non essere lontana dal più alto gradino, che cioè essere equivale ad essere beato, nel quale sta il solo beato e il solo potente Re dei Re, e Signore dei dominatori.
Ha ricevuto, pertanto, l’anima nella sua condizione, anche se non l’essere beata, il poter esserlo tuttavia; al sommo scalino si avvicina, perciò, quanto è lecito, senza però raggiungerlo.
Poiché, neanche per essa l’essere equivarrà un giorno all’essere beata, anche quando sarà beata.
Confessiamo che è simile, ma neghiamo l’uguaglianza.
Per esempio, vita è Dio, vita è anche l’anima: simile sì, ma dispari.
Simile in quanto vita, in quanto essa stessa vivente, in quanto non solo vivente, ma vivificante, come egli è tutte queste cose; dissimile, invece, in quanto creata dal creatore, dissimile perché come non sarebbe se non creata da lui, così non vivrebbe se non fosse da lui vivificata.
Non vivrebbe dico, ma della vita spirituale, non naturale.
Poiché della vita naturale necessariamente vive immortale anche quell’anima che spiritualmente non vive.
Ma quale vita è mai quella nella quale sarebbe meglio non nascere che non da essa morire?
È piuttosto una morte, e tanto più grave perché del peccato, non della natura.
La morte dei peccatori è pessima ( Sal 34,22 ).
Così, dunque, l’anima che vive secondo la carne è morta, pur essendo viva, come quella a cui sarebbe stato bene non vivere piuttosto che vivere così.
E da questa per così dire morte vitale non risorgerà mai, se non per il Verbo della vita, anzi per il Verbo-vita vivente e vivificante.
5. Peraltro l’anima è immortale e in questo simile al Verbo, ma non uguale.
L’immortalità di Dio, infatti, è talmente superiore che l’Apostolo dice di Dio: che solo ha l’immortalità ( 1 Tm 6,16 ).
E questo io penso che sia detto perché è solo per natura incommutabile Dio colui che dice: Io sono il Signore, non cambio ( Mal 3,6 ).
Infatti, la vera e piena immortalità né subisce mutazione né ha fine perché ogni mutazione è una certa imitazione della morte.
Ogni cosa, infatti, che cambia, mentre passa da uno a un altro essere, è in qualche modo necessario che muoia ciò che è, per cominciare ad essere ciò che non è.
E se vi sono tante morti quante mutazioni, dov’è l’immortalità?
E a questa caducità la stessa creatura è stata sottomessa non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa nella speranza ( Rm 8,20 ).
Tuttavia l’anima è immortale perché essendo essa vita a se stessa, come non può cessare di essere così non può cessare di vivere.
Tuttavia, essendo provato che essa muta nei suoi affetti, riconosce che essa è simile a Dio nell’immortalità, ma che le manca una non piccola parte di questa immortalità, lasciando l’assoluta e perfetta immortalità a Dio solo, presso il quale non vi è alcuna mutazione né ombra di cambiamento.
Tuttavia, da questa discussione è emersa la grande dignità dell’anima, che vediamo avvicinarsi per una certa doppia affinità di natura alla natura del Verbo, cioè per la semplicità dell’essenza e la perpetuità della vita.
6. Ma mi viene in mente una cosa che non voglio tralasciare: una cosa che non nobilita di meno l’anima e la rende non meno simile al Verbo, e forse anche di più.
Questa è il libero arbitrio che è qualche cosa di divino che rifulge nell’anima, come una gemma nell’oro.
Da questo deriva all’anima la conoscenza del giudizio, e la facoltà di scegliere tra il bene e il male, tra la vita e la morte e altre simili cose che similmente riguardo all’atteggiamento dell’animo sembrano opporsi tra loro.
Tuttavia, in mezzo a loro quale arbitro censore questo occhio dell’anima giudica e discerne, libero nella scelta come libero nel discernere.
Perciò è chiamato anche libero arbitrio perché si occupa di queste cose secondo l’arbitrio della volontà.
Di qui l’uomo diventa capace di meritare: tutto ciò, infatti, che avrai fatto di bene o di male che sei stato libero di non fare ti viene giustamente ascritto a merito.
E come giustamente viene lodato non soltanto colui che poteva fare il male e non lo fece, così non è privo di cattivo merito sia chi fece il male che poteva non fare, sia chi poteva fare il bene e non lo fece.
Dove non c’è libertà non vi è neppure merito.
Perciò gli animali privi di ragione non hanno nessun merito, perché mancano sia di deliberazione, sia di libertà: agiscono per istinto, sono portati dall’inclinazione, guidati dall’appetito.
Né, infatti, hanno giudizio secondo il quale giudicarsi e regolarsi, ma neppure possiedono lo strumento del giudizio, cioè la ragione.
Perciò non sono sottoposti a giudizio, perché non giudicano.
Per quale ragione si esigerebbe da essi una ragione che non hanno ricevuto?
7. Solo l’uomo non subisce dalla natura questa costrizione, e perciò egli solo tra gli animali è libero.
E tuttavia, dopo il peccato subisce anch’egli una violenza, ma dalla volontà non dalla natura, di modo che neanche così viene privato dell’innata libertà.
Ciò, infatti, che è volontario è libero.
Col peccato avviene che il corpo corruttibile appesantisca l’anima, con l’amore, non con il peso-materiale.
Poiché, per il fatto che l’anima di per sé non può rialzarsi, mentre da sé è stata capace di cadere, entra in causa la volontà la quale, resa languida per il corpo viziato e il vizioso amore resta prostrata e non ha disposizione per amore della giustizia.
Così non so in quale pessima e strana maniera la volontà stessa, deteriorata dal peccato, si crea una necessità, necessità che essendo volontaria non può scusare la volontà, né la volontà essendo adescata può escludere una certa necessità.
È, infatti, questa necessità in certo modo volontaria.
È una certa violenza favorevole che adesca premendo e preme lusingando; per cui la volontà colpevole, una volta consentito al peccato, non può di per sé scuoterla da sé né scusarla con ragione.
Da qui quelle parole di lamento e come uno che geme sotto il peso di queste necessità: Signore, dice, io soffro violenza, proteggimi ( Is 38,14 ).
Ma di nuovo, sapendo che non si lamentava giustamente con il Signore, essendo piuttosto in causa la sua propria volontà, guarda che cosa dice in seguito: Che cosa dirò e chi mi risponderà perché sono io che ho fatto questo ( Is 38,15 ) ( Volg.: poiché è lui che ha fatto questo ).
Sentiva il peso di un giogo che altro non era se non quello di una volontaria servitù, ed era si miserabile a causa di questa servitù, ma inescusabile perché si trattava di servitù volontaria.
È, infatti, la volontà Che essendo libera si è fatta schiava del peccato acconsentendo al peccato; è la volontà che servendo volontariamente si tiene sotto il peccato.
8. « Bada a quello che dici », mi dirà qualcuno.
« Tu dici volontario quello che consta già essere necessario? ».
« È vero che la volontà si è resa schiava, ma non è essa che si trattiene: è piuttosto trattenuta suo malgrado.
Bene concedi almeno questo, che è trattenuta.
Ma fa’ attenzione ché è la volontà quella che tu ammetti essere trattenuta.
Tu dici che la volontà non vuole?
Non può essere trattenuta la volontà se non vuole.
La volontà, infatti, è di chi vuole, non di chi non vuole.
Che se è trattenuta volendolo è essa che si trattiene.
Che cosa potrà, dunque, dire e che cosa risponderà a Dio, dal momento che è essa che agisce?
Che cosa ha fatto? Si è fatta schiava; perciò è detto: Chi fa il peccato è schiavo del peccato ( Gv 8,34 ).
Perciò, quando ha peccato, e ha peccato quando ha deciso di obbedire al peccato si è resa schiava.
Ma è libera di non farlo più ancora.
Ma lo fa ancora se resta nella stessa schiavitù.
Se non vuole, infatti, la volontà non è costretta; è, infatti, volontà.
Dunque, non solo si è resa schiava perché ha voluto, ma ancora si fa tale.
Giustamente perciò, e bisogna spesso ricordarlo, chi risponderà per lei, dal momento che essa lo ha fatto e lo fa tuttora? ».
9. « Ma non mi persuaderai, tu dici, che non esista questa necessità che io subisco, che sperimento in me stesso, e contro la quale continuamente io lotto ».
« Dove, di grazia, senti questa necessità? Non forse nella volontà?
Dunque, non vuoi con poca fermezza ciò che vuoi anche necessariamente.
Vuoi molto perché non puoi non volere, né lotti molto contro.
Ora, dove è la volontà, ivi è la libertà.
Questo dico della libertà naturale, non di quella spirituale, quella libertà per cui Cristo ci ha liberati ( Gal 4,31 ).
Di questa libertà l’Apostolo dice: Dove è lo Spirito ivi è la libertà ( 2 Cor 3,17 ).
Così l’anima in malo e strano modo sotto questa in qualche modo volontaria e malamente libera necessità, è tenuta schiava e nello stesso tempo è libera: schiava per la necessità, libera per la volontà, e ciò che è più strano e misero è che essa è tanto più colpevole quanto più libera, tanto più schiava quanto più colpevole, e per questo tanto più schiava quanto più libera.
Uomo infelice che io sono!
Chi mi libererà dalla calunnia di questa vergognosa schiavitù?
Infelice, ma libero, libero perché uomo, infelice perché schiavo, libero perché simile a Dio, infelice perché contrario a Dio.
O custode degli uomini, perché hai posto me contro di te? ( Gb 7,20 ).
Mi hai posto, infatti, quando non l’hai impedito.
Però sono io che mi sono posto contro di te, e sono divenuto grave a me stesso ( Gb 7,20 ).
Molto giustamente del resto, sicché il tuo sia anche il mio nemico, e colui che ripugna a te sia ripugnante anche a me.
Io sono tale per te e per me; io che sono divenuto contrario a me stesso, e nelle mie membra trovo ciò che contraddice alla mia mente e alla tua legge.
Chi mi libererà dalle mie mani?
Non faccio infatti quello che voglio ( Rm 7,24 ), senza che io, non un altro, lo impedisca; e quello che non voglio, quello faccio ( Rm 7,15-16 ), spinto da me stesso, non da un altro.
E magari questo impedimento e questa spinta fosse così violenta da non essere volontaria.
Forse così potrei trovare una scusa.
Oppure fosse così volontaria da non essere violenta.
In tal maniera potrei correggermi.
Ora, invece, da nessuna parte c’è un’uscita per il misero che, come ho detto, la volontà fa inescusabile e la necessità incorreggibile.
Chi mi libererà dalla mano del peccatore, dalla mano dell’iniquo che agisce contro la legge?
10. Qualcuno domanderà di chi mi lamento. Di me.
Io sono quel peccatore, quel fuorilegge, quell’iniquo: peccatore perché ho peccato, fuorilegge perché con la volontà persisto nell’agire contro la legge.
Poiché la mia stessa volontà è legge nelle mie membra che recalcitra contro la legge divina.
E poiché la legge del Signore è legge della mia mente, come sta scritto: La legge di Dio è nel suo cuore ( Sal 37,31 ), per questo anche a me stesso la mia volontà è trovata contraria, il che è grandissima iniquità.
Per chi, infatti, non sono iniquo, se lo sono per me?
Chi è iniquo per sé per chi sarà buono? ( Sir 14,5 ).
Lo confesso, non sono buono perché in me non c’è il bene.
Mi consolerò, tuttavia, perché anche i santi dicono così: So che in me non c’è il bene ( Rm 7,18 ).
Distingue, tuttavia, quell’« in sé » intendendo nella sua carne, per la legge contraria che esiste in essa.
Poiché ha una legge anche nella mente, e questa è migliore dell’altra.
Non è, forse, buona la legge di Dio?
Che se è cattivo per la legge cattiva, come non sarà buono per la legge buona?
O è sua la legge cattiva che è nella sua carne, e perciò cattivo per la legge cattiva, e non buono per la buona?
Non è così: la legge di Dio è nella sua mente, e talmente nella mente che è anche della mente.
Ne è testimone lo stesso che dice: Trovo un’altra legge nelle mie membra, contraria alla legge della mia mente ( Rm 7,23 ).
Forse è suo quello che è della sua carne, e non suo quello che è della sua mente?
Io dico: a più forte ragione.
Come non potrò dire quello che lo stesso maestro dice?
Poiché servendo con la mente alla legge di Dio e con la carne alla legge del peccato, mostra quale ritiene maggiormente suo quando reputa così alieno da sé il male che è nella carne da dire: Pertanto non sono io a farlo, ma il peccato che abita in me ( Rm 7,20 ).
E forse appositamente chiama « un’altra legge » quella che sente nelle sue membra, quasi la ritenesse una legge avventizia ed estranea.
Di qui io oso ancora dire qualche cosa di più, senza essere temerario: Paolo non è cattivo per il male che ha nella carne, ma è piuttosto buono per il bene che ha nella mente.
Dato, infatti, che con la mente serve alla legge di Dio, e con la carne alla legge del peccato, quale di queste due cose pensi sia principalmente da imputare a Paolo, lo giudicherai tu.
Quanto a me confesso di essere facilmente persuaso valere molto di più quello che è della mente che non quello della carne, e questo lo penso non solo io ma lo stesso Paolo, il quale dice: Se poi faccio il male che non voglio non sono più io che lo faccio, ma il peccato che abita in me ( Rm 7,20 ).
11. Ma riguardo alla libertà basti quanto abbiamo detto.
Nell’opuscolo che ho scritto sulla grazia e il libero arbitrio si leggono forse spiegazioni diverse circa l’immagine e la somiglianza, ma penso non siano contrarie a quelle qui esposte.
Quelle le avete lette, queste udite, lascio al vostro giudizio quali siano da preferire; o se conoscete al riguardo qualche cosa di meglio delle une e delle altre ne godo e ne gioirò.
Ma comunque stiano le cose per il momento tenete presenti queste tre cose come importanti: la semplicità, l’immortalità, la libertà.
Da questo penso vi risulti già chiaro come l’anima, per la sua innata e schietta somiglianza che così risplende in queste cose, abbia una non piccola affinità con il Verbo Sposo della Chiesa Gesù Cristo Signore nostro che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli.
Amen.
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