Formaz/Sussidi/Capirci/Capirci.txt Proviamo a capirci - Egidio Cïola Introduzione " Mi può suggerire un libro che parli della comunicazione e dei rapporti tra le persone? ". Quante volte mi sono sentito rivolgere questa richiesta e quante volte mi sono trovato in imbarazzo sulla risposta! Imbarazzo non certo perché di libri sull'argomento non ne esistano, quanto piuttosto perché spesso usano un linguaggio troppo specialistico, mentre in altri casi si limitano a distribuire consigli, o si preoccupano di far leva quasi esclusivamente sui buoni sentimenti. Penso invece che il lettore voglia prima di tutto essere informato e comprendere le caratteristiche ed i meccanismi di funzionamento di un fenomeno che lo riguarda tanto da vicino come la comunicazione. Solo questa conoscenza gli può infatti fornire gli elementi necessari per avere la giusta consapevolezza sia delle sue reazioni come di quelle degli altri. Mi riprometto perciò di offrirgli, con l'impiego di termini accessibili e di esempi che gli siano familiari, una visione completa delle conclusioni cui sono pervenuti gli studiosi sull'argomento. Lascio invece alla sua iniziativa di scegliere eventualmente quegli atteggiamenti relazionali che, a seguito di questa lettura, potrà giudicare adatti a migliorare la qualità della sua vita con gli altri. Un contadino aveva tanti campi e teneva lontani dal suo raccolto tutti gli uccelli egli altri animali con trappole e steccati. Ci riusciva benissimo, ma si sentiva molto solo. Così un giorno si mise in mezzo al campo per dare il benvenuto agli animali. Rimase lì dall'alba al tramonto con le braccia spalancate a chiamarli, ma non arrivò un solo animale, non una sola creatura vivente. Erano tutti terrorizzati dal nuovo spaventapasseri del contadino. dal film " Un medico, un uomo " Comunicazione e vita Parte prima: La necessità di stare bene insieme Abbiamo bisogno degli altri Per quanto il fatto di sentirci persone adulte ci faccia ritenere autosufficienti e quindi in grado di affrontare da soli i nostri problemi, sappiamo che in realtà per soddisfare molte esigenze della nostra vita ( e quindi per stare bene ) abbiamo bisogno degli altri. Concretamente, abbiamo bisogno dell'idraulico che ripari lo scarico della doccia della nostra abitazione, abbiamo bisogno del conducente dell'autobus diretto in centro per poter fare la spesa, abbiamo bisogno del lattaio che ci procura quanto serve per la colazione del mattino, e così via. Nessuno può essere contemporaneamente un idraulico, un conducente di autobus, un lattaio, e quindi chiediamo a chi si è assunto questi compiti sociali la soddisfazione delle nostre esigenze. Oltre a necessità di questa natura, ne esistono altre, forse meno pratiche ma almeno altrettanto importanti per la vita, che non possiamo soddisfare da soli e che non hanno uno specialista come l'idraulico o il conducente di autobus o il lattaio cui potersi rivolgere. Sono le aspettative riguardanti i nostri affetti, le nostre amicizie, il mondo del lavoro o dello studio ...; in altre parole tutto il complesso insieme delle nostre relazioni con gli altri. Allo stesso modo delle prime ed in misura addirittura ancora maggiore, non possiamo trovarvi risposta se non attraverso un intervento altrui. A titolo di esempio, ecco alcuni casi concreti tratti dall'esperienza di tutti i giorni. Gianni è operaio in un'industria. E giovane ed è animato da una forte spinta ad apprendere e a migliorare la sua competenza professionale. In queste ultime settimane è iniziato nell'officina in cui lavora il montaggio di un nuovo impianto produttivo piuttosto sofisticato, frutto delle tecnologie più avanzate. Gianni è interessato a lavorare sul nuovo impianto: pensa di parlare con il suo responsabile per cercare di farsi assegnare la conduzione del nuovo macchinario. Marta fa parte di un gruppo di giovani che nel tempo libero si trovano per fare dello sport e per divertirsi insieme. Pur avendo un carattere un po' riservato, si è molto ben inserita con gli altri. Da qualche settimana nel gruppo ha fatto la sua comparsa Luigi: Marta lo trova particolarmente simpatico e le piacerebbe conoscerlo meglio ... Lucetta è una signora di mezza età. É sera tardi ed il marito è già andato a dormire, mentre lei è rimasta alzata in attesa della figlia diciassettenne che non è ancora rientrata a casa. Prima di uscire le ha detto che sarebbe andata in macchina con un gruppo di amici in un centro vicino. L'ora è tarda, Lucetta è preoccupata: le sarà successo qualcosa? Tre persone alle prese con proprie aspettative o con proprie esigenze: Gianni vuole creare le premesse per migliorare le sue condizioni di lavoro, Marta vuole fare in modo che Luigi si accorga di lei, Lucetta vuole essere tranquilla sapendo che alla figlia non è successo nulla. A ciascuna di esse manca in questo momento qualcosa per potersi sentire soddisfatta nelle proprie attese. Nasce perciò in loro l'impulso ad agire, a fare quanto serve affinché la loro esigenza trovi risposta e poter quindi ottenere l'effetto di stare completamente bene. Gli altri hanno bisogno di noi Nessuno dei tre può però fare da solo quello che serve: è il responsabile di Gianni che può soddisfare la sua richiesta, è Luigi che può manifestare interesse per Marta, è la figlia di Lucetta che può rassicurarla con la sua presenza. I protagonisti dei tre esempi sono così costretti a " cercare " il proprio interlocutore per interpellarlo e segnalargli le loro aspettative: senza un suo intervento la condizione di insoddisfazione non può essere superata. Saranno disposti il responsabile di Gianni, il nuovo amico di Marta e la figlia di Lucetta, a lasciarsi coinvolgere? Questa loro disponibilità dipende dal verificarsi di una condizione: è necessario che ciascuno di essi senta che il lasciarsi coinvolgere si riflette anche sul quadro delle proprie attese, rendendone possibile almeno in parte la soddisfazione. In questo modo alla ricerca di stare bene di chi interpella viene a corrispondere lo stare bene anche di chi è interpellato. Il responsabile di Gianni pensa che un buon superiore deve conoscere a fondo i propri collaboratori e deve quindi essere al corrente delle loro situazioni individuali. Inoltre, considera il fatto di sentirsi interpellato dagli operai come un riconoscimento del suo ruolo. Quando Gianni gli ha chiesto un colloquio, ha organizzato gli impegni della giornata in modo da potergli dedicare il tempo necessario. Luigi è appena uscito da un'esperienza sentimentale a dir poco disastrosa. Gli ultimi mesi sono stati accompagnati da continue incomprensioni, litigi, ripicche con la sua ex ragazza e Luigi si è detto che di una nuova compagnia femminile per un po' di tempo non se parla. É entrato in questo nuovo gruppo di amici proprio per rilassarsi e ritrovare la serenità. Ha notato l'interesse di Marta, ma pensa che per il momento mostrerà indifferenza. La figlia di Lucetta, mentre la madre è a casa che l'aspetta, sta parlando con gli amici. Il discorso è caduto sull'esame di maturità; tra i presenti c'è chi l'ha già sostenuto ed altri che lo preparano quest'anno. Vengono fuori cose interessanti, ciascuno racconta la propria esperienza. Ogni tanto si fa una battuta, ma il tono della conversazione è nel suo insieme molto serio. La figlia di Lucetta, che è a un anno dalla maturità, è molto attenta e si è lasciata coinvolgere dall'argomento al punto che si è dimenticata dell'ora ormai tarda. Il responsabile di Gianni si è lasciato coinvolgere perché, così facendo, ha soddisfatto il proprio bisogno di essere un buon superiore e di sentire riconosciuto il suo ruolo. Luigi, al contrario, si è sottratto al coinvolgimento perché accettare le attenzioni di Marta andrebbe contro alla propria esigenza di distrazione. La figlia di Lucetta non ha neppure preso in considerazione la possibilità di coinvolgersi con la madre, non rivestendo un eventuale coinvolgimento nessuna utilità per l'esigenza che sente in questo momento di interessarsi di qualcosa di molto importante per il suo futuro come l'esame di maturità. I collegamenti vitali Un unico criterio ha guidato i comportamenti di tutte queste persone, sia di quelle che hanno cercato di farsi avanti con le loro esigenze, sia di coloro cui esse si sono indirizzate: tutti hanno fatto o detto ( o non hanno fatto o non detto ) qualcosa con la finalità di cercare una risposta a propri bisogni e quindi per contribuire al proprio stare bene ( o per diminuire il proprio star male ). Potremmo dire in altre parole che si sono presi cura della qualità della propria vita, cercando di stabilire idonei collegamenti interpersonali, che definiamo collegamenti vitali. Collegamenti, intanto, perché riguardano quelle esigenze che i singoli non sono in grado di soddisfare da soli, per cui si rende loro necessario stabilire dei legami, dei collegamenti appunto, con chi di volta in volta è adatto a generare con loro le risposte opportune. Il nostro modo di vivere è molto complesso e nessuno può essere capace di provvedere da solo ai propri bisogni: anche per i più elementari, come quelli legati all'alimentazione, il singolo ha bisogno di interlocutori che gli permettano di far arrivare il cibo nel suo piatto o di far scendere l'acqua dal suo rubinetto. Date queste condizioni, i nostri collegamenti vitali abbracciano tutto l'insieme delle nostre esigenze, risultandone esclusi i soli bisogni riguardanti le nostre funzioni vegetative governate dal sistema nervoso autonomo, come la circolazione sanguigna, la respirazione, la digestione, ecc. Ne è perciò interessata la nostra stessa sopravvivenza fisica, legata al bisogno di alimentazione, al bisogno di recupero delle energie mediante il sonno o lo svago, al bisogno di tutela della propria integrità fisica e quindi alla necessità di fuggire il pericolo, di prevenire le malattie e di rispettare l'integrità dell'ambiente, nonché al bisogno di perpetuare la specie umana attraverso la sessualità. Ne viene implicata anche tutta la nostra vita con gli altri: avvertiamo il bisogno di non essere soli, di sentirci accettati, di godere di considerazione e di stima, di emergere, di amare e di essere amati ... Altri bisogni si riferiscono alla considerazione che abbiamo di noi stessi, attraverso il senso di sicurezza, la fiducia nelle nostre capacità, la spinta a migliorare ed a riuscire nei diversi campi di attività. Infine i nostri collegamenti vitali hanno a che fare con le motivazioni che riguardano i nostri ideali, cioè le nostre convinzioni più intime e profonde. Nessuno tra tutti i bisogni elencati può essere soddisfatto senza coinvolgere altri nostri simili, per cui tentare la soddisfazione di ciascuno di essi significa necessariamente ricorrere a collegamenti vitali: essi hanno infatti a che fare con l'essenza della nostra vita, nelle sue manifestazioni più materiali così come in quelle più nobili e spirituali. Da come riusciamo a farli funzionare dipende quindi il nostro " sentirci bene " e, di conseguenza, la qualità della nostra vita. Collegamenti vitali e comunicazione Tutto quanto diciamo o facciamo, volontariamente o involontariamente, per stabilire i nostri collegamenti vitali, per coltivarli, per regolarli, per modificarli, per sollecitarli, per interromperli o per evitarli va sotto il nome di comunicazione. Riprendendo gli esempi da cui siamo partiti, Gianni non aveva altra scelta se non comunicare al suo responsabile il suo bisogno di crescita professionale, così come quest'ultimo ha trovato nella comunicazione con Gianni la risposta alla sua esigenza di essere un buon superiore; Marta ha comunicato in qualche modo la sua aspettativa sul conto di Luigi ( saranno stati certi suoi sguardi? certi suoi atteggiamenti? ) tant'è che lui se ne è accorto e a sua volta ha comunicato la sua intenzione di non farsi coinvolgere ( distogliendo lo sguardo? evitandola? ); Lucetta è in ansia perché non può comunicare con la figlia ( cioè ricevere la rassicurazione che non le è successo nulla ) e quest'ultima, con la sua assenza e pur essendone inconsapevole, comunica alla madre che al momento non pensa di rientrare a casa. Per tutti comunicare è una scelta obbligata; non comunicare comporterebbe non fare nulla per risolvere un proprio bisogno, cioè rimanere inerti in presenza di una situazione insoddisfacente. Gli sposi non possono se non comunicare l'uno con l'altro per soddisfare al proprio bisogno di amare e di essere amati. Un genitore non può se non comunicare con il figlio per essere gratificato nel suo bisogno di sentirsi un buon educatore ed il figlio dovrà comunicare con il genitore se vuole essere un buon figlio. Un datore di lavoro o i suoi rappresentanti non possono se non comunicare con i dipendenti se vogliono essere dei buoni imprenditori o dirigenti, così come il dipendente non può sottrarsi alla comunicazione con loro se vuole avere garantita la risposta alle esigenze materiali e di sicurezza per il futuro suo e dei propri familiari. L'allievo non può non comunicare con l'insegnante se vuole imparare, ma anche l'insegnante non può non fare altrettanto con l'allievo se vuole esprimere la sua disposizione personale all'insegnamento. I fedeli hanno bisogno di comunicare con il sacerdote ed il sacerdote di comunicare con i fedeli. Il superbo non può far a meno degli altri per soddisfare il suo bisogno di mettersi in vista, l'umile per dar prova di mansuetudine, l'energico per guidare, il sottomesso per sentirsi protetto, l'arrogante per prevaricare, l'egoista per pretendere, l'altruista per donare ... Comunicare per sentirci bene noi! A questo punto i presupposti dell'atto del comunicare risultano piuttosto lineari: tutti vogliamo vivere e stare bene con noi stessi e con gli altri; per ottenere questo risultato la via obbligata passa attraverso la soddisfazione dei nostri bisogni; questa soddisfazione ci arriva nella quasi totalità dei casi attraverso gli altri, per cui siamo indotti ( potremmo forse dire costretti ) a cercare di volta in volta gli indispensabili collegamenti vitali, cioè a comunicare. Qualcuno potrebbe rilevare che questo modo di considerare la comunicazione riduce i rapporti tra le persone a successioni di squallide manovre per assoggettare gli altri al proprio volere, con l'intenzione di sfruttarli e di strumentalizzarli in vista di un'egoistica soddisfazione. Oppure che tutto ciò fa pensare ad una specie di mercato in cui ciascuno comunica per negoziare una mercé speciale rappresentata dai comportamenti altrui, di cui servirsi per ottenere il suo massimo benessere. La qual cosa sembra non prendere in considerazione i moltissimi esempi di relazioni totalmente gratuite e disinteressate, mosse da motivazioni del tutto estranee alla ricerca dello stare bene individuale, che pure non mancano nella nostra esperienza. Ebbene, ci sembra che queste obiezioni presuppongano una visione meno lontana dalla nostra di quanto non appaia a prima vista. Possiamo infatti considerare gratuite e disinteressate alcune relazioni tra le persone solo se le riferiamo al livello del tornaconto materiale ed immediato, ma lo appaiono subito meno se cogliamo in esse il movente di soddisfare bisogni dello spirito, come quelli di amare, di conoscere, di corrispondere ai propri ideali o di essere coerenti con i propri valori. L'atto del comunicare neanche in questi casi è fine a se stesso, ma è guidato da intenzioni attraverso le quali passa la ricerca delle risposte a bisogni della persona, per quanto nobili ed elevati. Sono queste in effetti le basi sulle quali ciascuno costruisce un'immagine di come riterrebbe giusto e necessario " essere "; e, una volta elaborato questo modello, questa specie di controfigura ideale, sente nascere il bisogno di aderirvi concretamente. Ma per arrivare a questo scopo non può fare a meno degli altri. Gli altri per aiutarli, gli altri per consigliarli, gli altri per elevarli, gli altri per liberarli, gli altri per istruirli, gli altri per guarirli, e così via. Lo stesso eremita che, isolato nel suo romitaggio, sta conducendo la sua vita frugale ed essenziale per corrispondere al suo ideale di spiritualità, ha bisogno degli altri e comunica con gli altri ( o non comunica, ma, come vedremo in un prossimo capitolo, tra i due atteggiamenti paradossalmente non c'è differenza ) in base alla sua esigenza di non essere distratto nella sua ricerca ascetica da preoccupazioni mondane. É in gioco il suo " stare bene " come eremita, cioè il fatto di riuscire a sentirsi un buon eremita, di corrispondere al modello che ha elaborato. Come si può facilmente notare, entrambe le posizioni, alla prova della realtà, riconoscono il motivo ispiratore della comunicazione nella universale esigenza dello stare bene personale. Questo motivo ispiratore può essere di natura egoistica, edonistica, sensuale, così come altruistico o addirittura votato ad un eroico superamento di se stessi. Tutti sono però finalizzati allo stare bene: a far in modo cioè che un altruista corrisponda al suo ideale di altruista e si senta bene nel modo concreto con cui riesce a vivere da altruista, un egoista corrisponda al suo ideale di egoista e stia bene nel modo concreto con cui riesce a vivere come egoista e così via. Lo stare bene di cui andiamo parlando è pertanto il risultato atteso da qualsiasi persona quando agisce per trovare la risposta al quadro delle sue personali motivazioni, secondo una sua altrettanto personale classificazione nell'ordine di valore. Complicazioni e contraddizioni I problemi nascono piuttosto dal fatto che siamo costantemente sollecitati da stimoli provenienti da più bisogni contemporaneamente. Ad esempio, non è così facile per un genitore educare in modo rigoroso i figli ed al tempo stesso dimostrare loro affetto, o per un responsabile di azienda essere rispettato e contemporaneamente creare un clima che favorisca il coinvolgimento dei sottoposti. É evidente come ciascuno di questi singoli bisogni richieda di impostare il relativo collegamento vitale, cioè di comunicare, in modo conseguente. É anche possibile che, nel momento in cui siamo sollecitati contemporaneamente da due motivazioni, pensiamo di comunicare in vista della soddisfazione di una di esse, ma che di fatto orientiamo senza accorgercene la nostra comunicazione nell'altra direzione trovandoci così di fronte a reazioni nei nostri interlocutori che possono lasciarci stupiti. Lea è insegnante in una scuola elementare. Con le colleghe ha deciso di tentare un coinvolgimento ed una maggiore responsabilizzazione dei genitori degli alunni con lo scopo di creare una maggiore continuità tra i metodi educativi usati a casa e quelli usati a scuola. All'inizio dell'incontro con i genitori Lea apre la discussione dicendo che le insegnanti hanno notato qualche segno di disorientamento in diversi bambini, disorientamento che potrebbe essere evitato qualora si migliorasse la collaborazione tra genitori ed insegnanti. Molti genitori intervengono per esporre il proprio pensiero. Puntualmente ognuno di questi contributi viene commentato da una o l'altra delle insegnanti con l'atteggiamento di chi ha la certezza professionale di avere la verità dalla sua. La riunione si conclude con un richiamo ai genitori sugli atteggiamenti educativi da tenere con i figli a casa. Nelle settimane successive le maestre notano che l'abitudine di molti genitori di intrattenersi brevemente con loro al momento dell'uscita degli alunni è andata via via scomparendo: è come se si avvertisse un certo distacco, quasi una freddezza. Si stupiscono di ciò e si chiedono come mai, malgrado lo sforzo fatto per coinvolgere le famiglie, si sia giunti a questo stato di cose. Dario lavora come responsabile di un gruppo di progettisti. I problemi tecnici da risolvere ogni giorno sono molti e richiedono competenza, creatività e collaborazione da parte di tutti. Se venissero a mancare questi requisiti, Dario verrebbe sommerso da mille grattacapi che finirebbero fatalmente sulla sua scrivania di responsabile. Si preoccupa pertanto di mantenere quanto più possibile cordiali i rapporti con i suoi progettisti. C'è anche bisogno di polso però: si tratta di gente per lo più giovane, tecnicamente preparata, rampante. Se non sta attento, c'è il rischio che se lo mangino in un boccone, lui che viene dalla gavetta, che non ha come loro la laurea in ingegneria, che se la cava egregiamente quando si tratta di discutere di fatti tecnici, ma che va in crisi quando serve la dialettica. E i suoi collaboratori, quelli più giovani specialmente, di dialettica ne hanno fin troppa! Dario si trova in un bel pasticcio: gli serve comunicare in un modo adatto a stimolare la collaborazione ed il dialogo tecnico in modo da rispettare il suo bisogno di non venir schiacciato dai problemi, ma vuole anche far sì che sia rispettato il suo ruolo di responsabile. Per ottenere il primo scopo bisogna che la comunicazione avvicini a sé i suoi sottoposti, per conseguire il secondo la comunicazione deve mantenere la giusta distanza. Dario è comunque arrivato alla conclusione che per evitare lo stress bisogna rischiare: dedicherà più tempo alle riunioni per garantirsi il coinvolgimento di tutti e mantenere un clima collaborativo. Vediamolo all'opera nel primo di questi incontri con i suoi collaboratori. Uno dei progettisti ha appena finito di fare il punto sullo stato di avanzamento della stesura di un progetto. Lo stesso relatore ha sottolineato l'esistenza di alcune difficoltà e si apre una discussione sui modi adatti per il loro superamento. Dario ascolta in silenzio i pareri di tutti, prende nota della varietà delle idee e dei suggerimenti che emergono da questo scambio. Poi, guarda l'ora, decide che è tardi e che è il momento di concludere. Prende la parola e, punto per punto, comunica le sue decisioni operative che da adesso in poi saranno vincolanti per tutti. Nelle riunioni successive Dario nota con stupore che il clima relazionale è molto freddo, che gli interventi dei suoi progettisti si limitano a denunciare gli inconvenienti; sembra quasi che, a differenza di quanto avvenuto nella prima riunione, si aspettino da lui le soluzioni. Sia Dario che Lea e le sue colleghe hanno comunicato con l'intenzione di soddisfare l'esigenza di coinvolgere e di creare un clima collaborativo. In entrambi i casi, con le continue precisazioni delle insegnanti e con il silenzio iniziale di Dario seguito dal suo perentorio intervento conclusivo, l'atteggiamento relazionale utilizzato è stato invece mirato a soddisfare l'altro bisogno: quello di vedere riconosciuto il ruolo di educatrici esperte nel primo caso, di responsabile d'ufficio nel secondo. Mettiamoci nei panni dei loro interlocutori nelle due situazioni: come pensare di lasciarsi motivare al coinvolgimento quando si sente tagliar corto con tono direttivo sui propri ragionamenti; o quando ogni proprio pensiero viene sottoposto a severo vaglio critico! Alla ricerca della felicità Quando comunichiamo lo facciamo per aver cura di noi stessi e dei nostri bisogni, quelli più importanti come quelli meno importanti ... anche quello di fare semplicemente quattro chiacchiere con una persona incontrata per caso. Per quanto possa sembrare strano, pure gli episodi più banali trovano la loro ragion d'essere nelle ricerca di una gratificazione ( quella forse piccola, ma percettibile, corrispondente al bisogno di quel momento di scambiare due parole con qualcuno ) e quindi di stare bene in quella particolare circostanza. Anzi, sappiamo per esperienza come lo stare bene si leghi solo eccezionalmente ad aspetti molto rilevanti della vita, come il successo, o la grande prova d'amore, o il superamento di difficoltà apparentemente insormontabili come certe malattie o certi conflitti. Il nostro stare bene dipende piuttosto dalla qualità delle piccole cose di tutti i giorni, dal trovar risposta ai nostri piccoli bisogni, quelli minimi che accompagnano momento per momento la nostra esistenza. La felicità, si potrebbe dire, non arriva in banconote di grosso taglio, ma mediante tante piccole monete che prese una per una non hanno grande valore, ma messe insieme possono fare un tesoro. Qualche volta avremo successo, qualche volta falliremo. In certi casi riusciremo a costruire il nostro stare bene, talvolta creeremo invece senza volerlo, con le nostre stesse mani, le premesse per piccole o grandi infelicità. Sviluppare una maggiore attenzione a come ci presentiamo agli altri quando cerchiamo e offriamo collaborazione per la soluzione dei rispettivi bisogni può allora essere un modo difficile, ma alla nostra portata, di costruire il nostro oroscopo: alla nostra felicità, cioè alla soluzione della maggior parte delle difficoltà che ci presenta la vita, possiamo dare molte risposte non cercandole negli astri, ma nelle nostre capacità nel servirci della comunicazione. Per riassumere Ogni persona si aspetta di fare esperienze positive e quindi di stare bene. Perché una persona stia bene è necessario che i suoi bisogni individuali abbiano trovato adeguata soddisfazione. Le risposte ai bisogni individuali richiedono nella grandissima maggioranza dei casi l'intervento di altri e si rende quindi necessario ottenere il loro coinvolgimento. Questo coinvolgimento comporta lo stabilirsi di collegamenti vitali. Lo strumento di cui disponiamo per i nostri collegamenti vitali è la comunicazione. La comunicazione può essere definita come una successione di tentativi per stabilire collegamenti vitali con chi riteniamo adatti a soddisfare i bisogni cui da soli non siamo in grado di dare risposta. Introduzione Parte seconda: Stare bene con gli altri è complicato Bucce di banana Siamo tutti esperti comunicatori, se per esperto intendiamo chi ha avuto modo di accumulare nel tempo molta pratica: senza rendercene conto abbiamo cominciato a comunicare già prima di nascere facendoci sentire con i nostri movimenti nel grembo materno, abbiamo continuato il nostro esercizio subito dopo la nascita segnalando la fame, il bisogno di essere puliti o il dolore ricorrendo al pianto insistente caratteristico dei neonati; a qualche mese di vita abbiamo iniziato ad esercitarci nel sorriso ed all'età di un anno circa abbiamo cominciato ad usare le prime parole. Inizialmente accettavamo come interlocutori pochi visi conosciuti: quello materno ed insieme ad esso quello dei familiari più vicini. Successivamente abbiamo allargato il nostro interesse ai piccoli compagni di gioco, quindi a quelli della scuola materna ed alla maestra e poi via via coinvolgendoci con un numero sempre più ampio di interlocutori e con messaggi sempre più complessi. Ciascuno di noi ha così accumulato nel corso degli anni l'esperienza di un grandissimo numero di situazioni di comunicazione. Tante e tante volte il nostro stare bene è stato disturbato dall'affacciarsi di una qualsiasi, il più delle volte anche piccola, esigenza o pulsione, che ci ha indotto a ricorrere alla comunicazione per stabilire un collegamento vitale grazie al quale ottenere la risposta adeguata, Malgrado l'esperienza così acquisita, abbiamo dovuto accorgerci però che, come comunicatori, non sempre " le ciambelle ci riescono con il buco ". Ci succede infatti di sentire il bisogno di essere attenti al bene di un figlio dandogli dei consigli ed esserne contraccambiati con una reazione di insofferenza, di sperimentare l'esigenza di avere più calore nei rapporti con chi amiamo e, quanto più tentiamo di avvicinarci, tanto più sentirci respinti, di cercare di andare d'accordo con tutti sul lavoro e in cambio riceverne indifferenza. Ci sentiamo fraintesi, disattesi e ci viene qualche volta il dubbio che le nostre intenzioni vengano interpretate in modo arbitrario, quasi capriccioso. Il fatto è che il comunicare, malgrado la sua naturalezza e la sua apparente semplicità, è ricco di complicazioni. Numerose " bucce di banana " sono sparse sul terreno dei nostri collegamenti vitali. Esistono aspetti critici della comunicazione, cioè punti caldi, in presenza dei quali è facile fare passi falsi. È intuibile che chi li conosce, quando se li trova di fronte, li sappia affrontare e risolvere. Chiediamo quindi aiuto agli studiosi, che negli ultimi decenni si sono dedicati con molta attenzione alla ricerca sulla comunicazione umana, per farci dire da loro quali siano questi punti critici e per capire ciò che determina la riuscita o l'insuccesso di un collegamento vitale. Gli " ingredienti " della comunicazione Prendendo a prestito un esempio dalla gastronomia, potremmo dire che la comunicazione assomiglia ad un piatto, la cui ricetta richiede determinati ingredienti. La riuscita di questo piatto dipende dalla qualità di questi ingredienti, dal loro dosaggio e da come ciascuno di essi viene trattato prima di essere unito o mescolato agli altri. Anzitutto è però necessario conoscere questi ingredienti, perché solo conoscendoli li si può usare convenientemente. Allo stesso modo gli studiosi si sono preoccupati di conoscere gli " ingredienti " fondamentali che entrano nella " ricetta " della comunicazione, per capire quale tipo, quale dosaggio e quale trattamento siano più appropriati. Una prima interessante conclusione cui sono arrivati indica in cinque gli ingredienti che sono sempre presenti in tutte le ricette relative alla comunicazione tra le persone. Approfonditi studi hanno portato ad escludere condizioni relazionali in cui non si riscontri la presenza di tutti e cinque questi elementi simultaneamente. Una seconda conclusione vede nella qualità, nel dosaggio e nel modo di intrecciarsi di questi cinque ingredienti l'origine del successo o della difficoltà nel comunicare. Gli " ingredienti ", sinteticamente, si possono così definire: 1. l'esistenza di modalità di comunicazione diverse, oltre alle parole; 2. la presenza inevitabile di giudizi impliciti sugli interlocutori; 3. l'esistenza di percezioni unilaterali, che alimentano meccanismi ripetitivi; 4. il vincolo di dover scegliere tra complementarità e competizione; 5. l'impossibilità di non comunicare. Ci rendiamo conto che così espressi questi ingredienti basilari della comunicazione umana risultano di ben ardua comprensione per chi non sia in qualche modo già addentro nell'argomento. Nelle prossime pagine il lettore troverà trattato ciascuno di essi in modo approfondito e, con l'aiuto di molti esempi ricavati dalla vita di tutti i giorni, si troverà nella condizione di poterli comprendere. Conoscere la comunicazione per farne buon uso Prima di accingerci ad esaminare il funzionamento di questi meccanismi, vorremmo mettere in guardia sul rischio di un errore. Nel corso dei prossimi capitoli verranno di tanto in tanto segnalati effetti indesiderati derivanti dall'azione di qualcuno tra gli ingredienti in discussione. La tentazione in questi casi può essere quella di eliminare quella certa componente, in modo da eliminarne insieme anche le conseguenze. Gli esperti ci ricordano però che i cinque elementi sono senza eccezione sempre tutti presenti in ogni situazione di comunicazione per cui qualsiasi tentativo da parte nostra di annullarne anche uno solo è destinata a fallire, essendo ciò in contraddizione con questa loro proprietà. Possiamo piuttosto conoscerli meglio ed organizzare le nostre modalità comunicative in maniera tale da metterli al servizio della qualità dei nostri collegamenti vitali. Nostra intenzione è quindi di additare al lettore il modo caratteristico di manifestarsi di ciascuno di essi, non per suggerire come contrastarli, ma per intuire come tenerli sotto controllo. Non si pensi che questo rappresenti poca cosa: lo studio della casistica ci permette di affermare che, anche con la loro pura e semplice conoscenza, unita all'abilità nel distinguerli ( la si può acquisire con un po' di attenzione e di esercizio ), chiunque è già in grado di far fare un interessante salto di qualità alle proprie capacità di comunicazione. Non si usano solo parole Prima complicazione I tanti modi per comunicare Il primo punto da considerare per curare i nostri collegamenti vitali riguarda la molteplicità di forme attraverso le quali ci esprimiamo tutte le volte in cui comunichiamo. Questa molteplicità di forme si manifesta in tutte le occasioni di comunicazione, come nell'esempio che riportiamo. Silvio è un uomo di mezza età, molto semplice nei modi e dal carattere conciliante. La sua vita si svolge con serenità nel solito tran tran di tutti i giorni. C'è un solo neo che di tanto in tanto mina la tranquillità dei suoi pensieri: una vecchia questione mai risolta con il cugino Carlo. Da ragazzi sono cresciuti insieme passando insieme tutto il loro tempo come due fratelli; successivamente, sposati entrambi, hanno avuto a che dire per una banale faccenda di interesse e da allora hanno completamente interrotto i rapporti. Si ignorano ormai da anni. Silvio è rincasato alla solita ora, ma anziché posare il giornale e togliersi la giacca nell'ingresso come fa abitualmente, entra direttamente nel tinello dove la moglie sta lavorando. Gli occhi di Silvio sono lucidi, lo sguardo è intento ed illuminato, il suo volto è pallido, ma c'è una traccia di rossore sui suoi zigomi. Si ferma a qualche passo dalla moglie, è immobile, la mano sinistra serra il giornale con forza e questa pressione fa apparire un biancore sulle nocche delle dita. Il suo respiro è un po' affannato, deglutisce. La sua voce esce tutta d'un fiato, le parole si accavallano, il tono è eccitato: " In ufficio ho ricevuto una telefonata di Carlo. Ci invitano a casa loro per domenica prossima. Gli ho detto che saremmo andati ". Che cosa ha comunicato Silvio? Siamo facilmente d'accordo nel dire che ha informato la moglie sul contenuto di una telefonata ricevuta e sul programma familiare della domenica successiva. Questo è il significato che ha trasmesso per mezzo delle parole che ha usato. Si tratta però solo dell'aspetto più evidente; in realtà Silvio ha trasmesso molte altre informazioni importanti che contribuiscono a dare maggiore completezza al significato legato alle parole. Già il modo di entrare in casa per lui inusuale ha segnalato che c'è qualcosa di eccezionale, tale da fargli dimenticare gesti automatici ripetuti chissà quante volte, come levarsi la giacca e appoggiare il giornale. La mimica del suo volto dice che è commosso ( ha gli occhi lucidi ), molto emozionato ( è pallido ), sbalordito ( lo sguardo intento e illuminato, gli zigomi arrossati ). La sua immobilità e la tensione delle mani indicano nervosismo ed emozione, che trovano conferma nel tono di voce, nel modo di parlare, nell'accavallarsi delle parole. Silvio si è servito di più mezzi per comunicare, molti dei quali senza esserne consapevole. Ha usato le parole scegliendole nel suo vocabolario come le più adatte alla circostanza. Nel pronunciare queste parole ha adottato un certo tono di voce, un certo volume, un certo timbro ed ha fatto un certo uso delle pause. Si è servito del viso atteggiando i lineamenti ad una certa mimica, fissando lo sguardo in un certo modo, modificando il colorito abituale della sua pelle. Ha usato il corpo comandandogli di fare o di non fare certi movimenti. Ha utilizzato le mani disponendole in un certo tipo di gestualità. Ciascuno di questi particolari ha integrato e completato il significato specifico delle parole usate. Quanto ciò sia importante è facilmente dimostrabile. Proviamo, servendoci della nostra immaginazione, a modificare qualche particolare nella descrizione dell'episodio: potrebbe essere un cambiamento nell'espressione dello sguardo, o nella mimica del volto, o nel tono di voce, o negli atteggiamenti del corpo. Ci accorgiamo immediatamente che Silvio in questo caso ci fa arrivare un messaggio diverso, pur avendo lasciate immutate le parole usate. Prendiamo un altro esempio. Immaginiamo un padre nell'atto di rivolgersi ad un figlio undicenne con queste parole: " Vuoi spiegarmi che cosa hai fatto oggi all'uscita da scuola? ". In un primo caso supponiamo che il figlio sia seduto sul divano del tinello e che il padre sia in piedi di fronte a lui con il busto eretto e con le mani sui fianchi. In un secondo caso vediamo il padre seduto sul divano di fianco al figlio. Ci accorgiamo che le parole pronunciate, pur restando le stesse, assumono nelle due circostanze significati completamente diversi: nel primo modo il padre trasmette l'intenzione di indagare o di rimproverare, nel secondo, al contrario, di voler essere informato o di capire. Potremmo pensare alla nostra facoltà di comunicare come ad un direttore d'orchestra che ha diretto un concerto di cui sdamo ascoltando la registrazione. Può sembrare che il motivo musicale da noi percepito sia prodotto da pochi strumenti, quelli che nella partitura è previsto abbiano maggiore risalto. Se però affiniamo il nostro ascolto o, ancor meglio, assistiamo di persona al concerto, ci accorgiamo che il direttore dispone di molti più orchestrali e che l'armonia ottenuta è il frutto del suo abile lavoro di integrazione e di fusione dei suoni e dei timbri, talvolta anche sommessi, prodotti da tanti strumenti. Allo stesso modo, la nostra facoltà di comunicare si serve di più strumenti espressivi: quelli verbali, quelli che arricchiscono le parole di toni, timbri, volumi, quelli gestuali ... e, all'interno di ciascuno di questi insiemi, quelli appartenenti alle loro sottocategorie. Tutte le volte in cui comunichiamo, ciascuno di essi esegue la sua parte, esattamente come gli orchestrali; ed il risultato complessivo, cioè il messaggio prodotto, è il frutto del contributo di tutti, nessuno escluso. Di conseguenza, qualora uno solo di essi modifichi anche leggermente la sua esecuzione, il significato risultante ne viene a sua volta trasformato. All'inizio non c'era la parola A ben riflettere, le modalità non verbali di comunicazione sono le prime di cui abbiamo fatto esperienza nella nostra vita. Ancora nel grembo di nostra madre che ci ha ospitati prima della nascita siamo stati cullati dal messaggio rassicurante rappresentato dal suono del suo battito cardiaco e dal ritmo alternato del suo respiro. Poi è stata la nostra pelle il veicolo principale di comunicazione: attraverso di essa ci siamo sentiti piacevolmente interpellati quando siamo stati presi in braccio e rassicurantemente accuditi quando le nostre labbra hanno incontrato il seno materno. Più tardi ancora, sono state le carezze e le coccole sulle ginocchia degli adulti a segnalarci che avevamo un posto importante nella loro vita. Abbiamo dimostrato il nostro piacere nel ricevere questi messaggi facendoci vedere eccitati e contenti. L'economia del corpo Man mano però che crescevamo e che diventavamo più abili nell'uso delle parole, ci hanno però insegnato a non lasciar trasparire troppo le emozioni attraverso il linguaggio della mimica e della gestualità. Per diventare adulti abbiamo dovuto imparare a dissimulare i nostri stati d'animo attraverso un più attento controllo dei modi di comunicare corporei ed al tempo stesso sviluppare la nostra abilità nell'uso del vocabolario. Talvolta questa regola della vita adulta rischia di diventare troppo vincolante. Per esempio, tutti noi trascorriamo ormai una quantità maggiore di tempo ( se escludiamo le ore dedicate al sonno ) impegnati nel lavoro che non con i nostri familiari. Molto spesso non vediamo l'ora che la giornata finisca attratti dalla prospettiva di tornare nel calore della nostra casa, dove trovare pace e rilassamento con attorno a noi visi che ci sono cari. E poi, quando finalmente, dopo mille peripezie nel traffico cittadino, arriviamo a casa ... sembriamo dimenticare l'aspettativa che ci ha accompagnato tutta la giornata: il tanto atteso piacere serale di ritrovarsi con la persona che amiamo si riduce il più delle volte ad un saluto freddo e distratto perché è l'ora del telegiornale o perché ci sono le faccende domestiche da sbrigare. Per di più questi modi di reincontrarsi della coppia interessano anche degli spettatori che ne restano coinvolti per la loro stessa presenza in famiglia. Ad esempio, come farà un figlio che assiste tutti i giorni a questo modo distaccato di ricongiungersi dei suoi genitori a pensare che papa e mamma si vogliono bene? Forse perché papa paga l'affitto e mamma stira le camicie? Eppure quei due si vogliono veramente bene, ma sono diventati troppo adulti per concedersi di dire con un briciolo di slancio quanto sentono importante l'altro. Non si tratta certo di corrersi incontro tutte le sere a braccia aperte e di dar vita alla scena hollywoodiana di un abbraccio mozzafiato. Si tratta piuttosto di concedersi un gesto di attenzione reciproca per comunicare sentimenti ed emozioni. Questo stesso piccolo gesto sotto gli occhi di un figlio gli fa capire che " quei due " se la intendono e ciò rappresenta per lui una specie di polizza di assicurazione sul suo futuro, perché attraverso questi atteggiamenti sente garantito l'appoggio di una coppia genitoriale unita. É vero che ogni tanto assiste a discussioni tra di loro, che qualche volta li vede farsi il broncio, ma, passata la burrasca, è evidente dai loro atteggiamenti che stanno bene insieme. Femmine e maschi Nella richiesta durante la crescita di rinunciare alle modalità di comunicazione di tipo non verbale in modo da non lasciar trasparire apertamente le emozioni, avviene un fatto curioso: si è molto più esigenti verso i maschi che verso le femmine. Spesso si invita infatti un bambino che piange a non comportarsi come una femminuccia, mentre si definisce maschiaccio una bambina padrona delle sue reazioni e capace di farsi valere. Troviamo l'effetto di questi diversi atteggiamenti educativi nella vita degli adulti. Osserviamo due donne che si incontrano: esse usano molti modi per salutarsi e manifestare, se è il caso, il piacere di essersi incontrate: può essere il viso che si atteggia al sorriso quando sono ancora troppo distanti per parlarsi, poi è il tono della voce che esprime la gioia del saluto e può darsi che decidano di prendersi a braccetto per fare un tratto di strada insieme. Due uomini nella stessa circostanza si sarebbero probabilmente limitati ad una stretta di mano ed eventualmente a camminare l'uno di fianco all'altro nel caso avessero deciso di fare la stessa strada. Questa minore dimestichezza dei maschi nell'uso degli strumenti di comunicazione non verbali li limita spesso nel loro ruolo educativo di padri. Se è vero infatti che la natura ha voluto, organizzando la procreazione attraverso la maternità, che si instaurasse un rapporto particolarmente profondo tra madre e figlio, è altrettanto vero che fin dai primi mesi di vita è possibile anche ad altri adulti stabilire un rapporto affettivo con un bambino, a patto però di rispettare i suoi modi spontanei di comunicare, modi che coinvolgono prevalentemente la corporeità. I padri, essendo in quanto maschi meno esperti in comunicazione non verbale per i motivi accennati, possono trovarsi in imbarazzo con i propri figli quando vogliono creare le condizioni per un legame affettivo basato su quella spontaneità e confidenza corrispondenti ai bisogni dei bambini. Rischiano così spesso, con il passare degli anni, di essere percepiti come assenti o disposti a coinvolgersi solo quando non se ne possa fare a meno, soprattutto per sgridare o per vietare, forse più temuti che amati. Anche la vita intima di coppia è influenzata dalla diversa abilità e sensibilità sviluppate da uomo e donna nel comunicare attraverso la gestualità e la corporeità. Molte donne dicono che gli uomini vogliono solo " quello ", mentre loro vorrebbero che " quello " rappresentasse il culmine di attenzioni e di manifestazioni affettive loro riservate da un corteggiatore attento. Alcuni uomini, per parte loro, affermano che sono tutte storie, che si tratta di trucchi, neanche troppo scaltri, usati dalle donne per rendersi preziose. Tralasciamo le polemiche e limitiamoci a dire che nella sfera sessuale, regno degli strumenti di comunicazione corporea, la donna si aspetta, molto di più rispetto a quanto si aspetti il maschio, di coinvolgersi e di essere pienamente coinvolta nello scambio di una molteplicità di significati affettivi ed emotivi trasmessi e percepiti attraverso i corpi. La sensibilità femminile è sotto questo profilo più ricca di espressioni e di aspettative, proprio a seguito della maggiore libertà concessa alle femmine nel corso del processo educativo di usare mimica, gestualità e corporeità per accompagnare ed esprimere le emozioni. Risulta pertanto per la maggior parte delle donne innaturale non farvi ricorso e non goderne gli effetti nel corso di un'esperienza sessuale, al punto da sentirsene defraudate nel caso in cui l'approccio maschile non vi presti la necessaria attenzione. La differenza si nota Ci accorgiamo di quanto siano importanti le altre modalità di comunicazione con cui accompagniamo, anche inconsapevolmente, le parole, quando siamo costretti a rinunciarvi. Prendiamo una conversazione telefonica. Non ci è concesso in questo caso vedere chi si trova all'altro capo del filo e dobbiamo quindi accontentarci delle parole e della voce. Attraverso quest'ultima ci arrivano già molte indicazioni con il suo tono, le sue pause, le sue modulazioni. Ben altra cosa sarebbe però se potessimo cogliere le espressioni del volto ed i gesti che vi sono associati. Tant'è che, quando riteniamo un argomento particolarmente delicato, usiamo il telefono solo per accordarci su un appuntamento, in modo che, incontrandoci successivamente di persona, possiamo fruire di tutta la ricchezza di espressioni dei nostri interlocutori sia sul piano verbale che su tutti gli altri piani. Fidarsi delle parole? Non solo parole quindi per comunicare, ma toni di voce, modulazioni, timbri, mimiche, gesti. Abbiamo sin qui dato per scontato che nella singola circostanza specifica ognuna di queste modalità concorra per la sua parte a trasmettere un unico significato, così come in un'orchestra tutti i musicisti danno il loro contributo all'armonia del pezzo suonato. Come però un singolo orchestrale può stonare, cioè emettere un suono in disaccordo con quello degli altri, allo stesso modo è possibile per noi dire una cosa mediante una delle nostre modalità di espressione e qualcosa di diverso con le altre. Nando è supervisore in un grande complesso industriale. Ha appena riunito i suoi collaboratori per trasmettere loro alcune disposizioni di lavoro ricevute dal proprio superiore. Per la verità, Nando non è molto d'accordo con l'impostazione data da quest'ultimo: gli ha fatto subito presente le sue perplessità ed ha proposto alcune alternative a suo modo di vedere più efficaci, ma senza riuscire a convincerlo. Si trova ora a dover cercare il consenso operativo dei suoi operai su qualcosa di cui lui stesso è il primo a non essere convinto. Non è certo la prima volta che si trova in circostanze come questa. Sa per esperienza che bisogna mostrarsi sicuri, senza tradire la minima esitazione, altrimenti c'è rischio di soccombere sotto un fuoco di fila di obiezioni, alla fine delle quali sarebbe comunque costretto a tagliare corto con un " Si fa così e basta! " di stampo autoritario, che Nando vuole evitare per non alterare il buon clima di collaborazione che ha creato nel suo gruppo. Eccolo quindi esporre le nuove disposizioni: la sua voce è chiara e ferma, il tono trasmette determinazione, i lineamenti del volto denotano fermezza, la gestualità contenuta e precisa sottolinea l'importanza dell'argomento. Un solo piccolo particolare tradisce il conflitto interno di Nando: il suo sguardo si sposta continuamente e nervosamente da un volto all'altro, quasi a cercarvi il segnale anticipatorio di un'eventuale obiezione che lo possa mettere in difficoltà. Se interrogassimo singolarmente gli operai probabilmente nessuno sarebbe in grado di precisare che lo sguardo del superiore ha oggi quelle caratteristiche; molti ( se non tutti ) affermerebbero però che questa volta nel modo di rivolgersi loro di Nando c'è qualcosa di insolito, che non permette loro di capire bene. Trattandosi di disposizioni di lavoro importanti, essi hanno però bisogno di capire per evitare errori, per cui sorge loro spontaneo l'impulso a fare domande, a fare obiezioni. Questo era proprio quello che Nando cercava di evitare! Nando ha cercato di trasmettere sicurezza e determinazione tenendo sotto controllo molte modalità di comunicazione, come i gesti, l'espressione del viso, il tono e le inflessioni della voce, soprattutto le parole. Attraverso lo sguardo, al contrario, ha manifestato fragilità ed incertezza. Ciò ha posto un problema di interpretazione ai suoi operai: se cioè basarsi sui segnali che denotano sicurezza e trascurare il segnale discordante rappresentato dallo sguardo, o viceversa. Nel caso di discordanze come questa, è curioso come sia proprio quel segnale discorde, proprio quello che tradisce l'aspetto che vorremmo evitare di far passare, quello che attira di più l'attenzione dei nostri interlocutori. Consideriamo un secondo esempio. Antonietta e Pino hanno deciso di comperare una telecamera. Ormai ce l'hanno tutti. Nessuno dei due ha una cultura tecnica che possa aiutare la scelta; per farsi un'idea sul modello da acquistare hanno chiesto ad amici, con il risultato di confondere ancor più le idee. Un sabato pomeriggio decidono di recarsi i un negozio specializzato per confrontare tra loro i diversi modelli in commercio, sperando così di capirne meglio le caratteristiche. Trovano un commesso molto preparato che fornisce loro con pazienza tutte le informazioni del caso. Egli è molto motivato a questo lavoro e si sforza di fare bella figura sia con la clientela che con il titolare. Mentre illustra con competenza le caratteristiche dei diversi articoli, da buon venditore blandise con il tono della voce i due possibili acquirenti, li asseconda con modi un po' cerimoniosi, li avviluppa in maniere suadenti. Ad un certo momento Antonietta e Pino si scambiano uno sguardo di intesa e poi, rivolgendosi al commesso: " La ringraziamo. Dobbiamo pensarci ancora su. Buona sera ". Appena usciti sulla via dicono che finalmente ora sanno tutto sulle telecamere, ma che qualcosa ha suggerito loro di non lasciarsi coinvolgere dal commesso e di rimandare l'acquisto. Cosa è successo? Il commesso ha usato le parole per rispondere in modo competente alle curiosità di Antonietta e Pino e, a tempo stesso, messaggi non verbali per convincerli in modo insistente all'acquisto. L'accentuazione da parte del venditore dell'uso delle modalità non verbali li ha allarmati: fidarsi della competenza risultante dalle parole o rischiare di lasciarsi abbindolare dai modi del commesso? Per rispondere a questa alternativa Antonietta e Pino hanno tenuto maggiormente conto dei segnali non verbali. Ciò non è avvenuto per caso. La maggior parte delle persone si comporta allo stesso modo, ben consapevole che, se è relativamente facile per molti manipolare la realtà con le parole, è molto raro incontrare attori talmente consumati da riuscire a fare altrettanto ed in modo coerente con numerosi e diversificati strumenti di comunicazione non verbali. Meglio perciò fare affidamento su questi ultimi e diffidare delle parole. Un laccio pericoloso Esistono altre situazioni di incompatibilità tra il significato delle parole e quello trasmesso con le modalità non verbali, che hanno la particolarità di presentare vincoli così complessi da rendere impossibile scegliere a quale dei due credere. Olga è la giovane madre di Matteo, un bambino di due anni. Olga è molto meticolosa in tutto quello che fa: già a scuola era sempre molto preparata ed anche ora, in ufficio, è considerata, malgrado la sua limitata anzianità di servizio, un'impiegata modello. Ce la mette proprio tutta nelle cose che fa e ci tiene ad essere apprezzata. Anche nel tenere la casa in ordine, pur con il poco tempo che le resta da dedicare alle faccende domestiche, è inappuntabile. Tutti le hanno detto che con la sua puntigliosità nel far tutto nel migliore dei modi e con la sua ancor giovane età le sarebbe riuscito difficile conciliare le esigenze del lavoro e della cura della casa con il ruolo di madre. Effettivamente la nascita di Matteo le ha richiesto uno sforzo molto accentuato soprattutto da quando, terminato il periodo di assenza dal lavoro per maternità, ha dovuto dividersi nei suoi diversi ruoli di madre; donna di casa ed impiegata. Olga è molto orgogliosa di suo figlio e dei suoi progressi. Naturalmente vuole che Matteo abbia la migliore mamma che si possa desiderare e si sforza di aderire, come sempre, ad un ideale di perfezione. Ci sono momenti in cui avverte lo slancio a stringersi al petto il suo bimbo, come tutte le mamme. Ci sono anche attimi in cui però scruta negli occhi di Matteo quasi per capire dal suo sguardo se è contento della mamma che ha. Quando la mamma gli spalanca le braccia è come se Matteo sentisse una molla scattare spingendolo nell'abbraccio. Sente la voce di mamma che lo invita con affetto e calore. Alza gli occhi: lo sguardo di mamma non è però sereno, sembra dirgli qualcosa di diverso si direbbero gli occhi di chi deve superare una prova, un esame, occhi che sembrano far dipendere da quel bimbetto la sua considerazione di sé come madre. Matteo è in difficoltà: obbedire all'invito dell'abbraccio o obbedire al " mi fa paura il tuo giudizio " che c'è nello sguardo di Olga? Matteo vuole bene a mamma e vuole essere obbediente, ma lei lo ha messo nella condizione difficilissima di non poter obbedire se non disobbedendo. Se infatti si concede all'abbraccio va contro il messaggio " ti sento come un giudice che mi intimorisce "; e se, al contrario, si ritrae, delude l'attesa della madre di stringere a sé il suo piccolo. Matteo coglie all'interno della comunicazione di Olga due messaggi simultanei trasmessi dalla madre mediante modalità espressive diverse che fanno passare attese opposte. Si trova così in grande difficoltà nell'interpretare la situazione e nel decidere in base a quale dei due messaggi reagire. Essendo molto coinvolto affettivamente con la madre come tutti i bambini, c'è rischio che Matteo non riesca ad uscire da questo imbarazzo proprio per evitare di deluderla. Secondo alcuni studiosi, che chiamano " doppio legame " questa particolare situazione di comunicazione, la presentazione sistematica e simultanea ad un bambino di messaggi contrastanti ed incompatibili sarebbe all'origine di gravi disturbi di adattamento. Nella vita adulta situazioni analoghe di doppio legame, pur sempre poco piacevoli, possono avere fortunatamente conseguenze meno problematiche. Alfredo è alto dirigente in una società finanziaria. La sua lunga esperienza lo ha portato nel tempo a coprire posizioni di elevata responsabilità in tutti i settori aziendali, per cui, grazie alla capacità che ha sviluppato nell'analizzare i problemi da più prospettive, i suoi pareri sono molto ascoltati ed influiscono in modo determinante sulle strategie aziendali. Alfredo non è più giovane e pensa da qualche tempo a chi possa in futuro subentrargli nell'incarico. Il requisito più importante del successore è rappresentato secondo lui, oltre che dalla competenza, dalla capacità di decidere con coraggio ed autonomia. Tra i collaboratori di Alfredo c'è Vanni, un quarantenne che sembrerebbe dotato di queste caratteristiche. Decide di metterlo alla prova affidandogli la conduzione di una trattativa di grande importanza per la società. Vanni è orgoglioso di aver meritato una così evidente considerazione e sa che è un'occasione da non sprecare. Sa anche che dovrà dimostrarsi indipendente, dar prova di capacità di iniziativa e di grinta per soddisfare le attese di Alfredo. Da quando ha preso in mano la cosa, Vanni nota però che viene chiamato sempre più spesso, ormai quasi una volta al giorno, da Alfredo che vuole essere informato nel dettaglio e che è prodigo di consigli. Vanni è imbarazzato: fare la propria strada ignorando le sollecitazioni del proprio superiore e far così apprezzare la propria indipendenza di giudizio o, al contrario, lasciarsi guidare dalle sue impostazioni e dai suoi consigli? In entrambi i casi Vanni, per osservare le disposizioni ricevute, è costretto a mostrarsi insubordinato, rischiando che qualora l'affare andasse a buon fine, il merito venga attribuito ai consigli di Alfredo, e se le cose dovessero andare male, gli venga rimproverato di aver voluto fare di testa sua. Vanni è però avvantaggiato rispetto al piccolo Matteo. Egli infatti è in grado di identificare la trappola in cui Alfredo, probabilmente senza esserne consapevole, lo ha cacciato e gli è quindi possibile scegliere quale dei due rischi correre. Matteo invece, pur sentendo che c'è qualcosa che non va nel modo della mamma di rapportarsi con lui, non sa distinguere, e ciò lo disorienta, lo disturba, rendendolo ansioso. Bene farebbe Olga ad essere meno perfezionista, accettando come normali i suoi inevitabili limiti. I messaggi non verbali vanno curati Ai bambini si insegna a riflettere prima di parlare, intendendo con questo che, prima di esprimersi, bisogna pensare a che cosa si vuol dire ed alle parole da usare. Dopo quello che abbiamo detto, questo invito alla riflessione, che ovviamente non riguarda solo i bambini, trova un campo di azione molto più ampio, comprendendo oltre alle parole tutta la vasta gamma di modi di comunicare non verbali. Nostra preoccupazione dovrebbe essere quella di emettere messaggi dai significati concordanti nelle parole, nei gesti, nelle espressioni del volto, nelle posizioni del corpo, nella voce ( con i suoi toni, le sue inflessioni, i suoi timbri ) e così via. Quando per qualche motivo non riusciamo in questo, nascono confusioni che complicano le nostre relazioni con gli altri, cioè il funzionamento dei nostri collegamenti vitali. Interpretare i messaggi non verbali Dobbiamo anche prendere in considerazione l'eventualità che il nostro interlocutore possa sbagliare nell'interpretare i nostri messaggi. Se ci riferiamo alle parole che abbiamo deciso di usare per comunicare, questo rischio esiste, ma è limitato dal fatto che il loro significato è condiviso, pur con approssimazioni anche notevoli, da coloro che parlano la medesima lingua. Tutti sappiamo cosa vuol dire pane, notte, tavolo, ecc. Se consideriamo invece i modi non verbali di comunicare, l'attribuzione ad essi della rispettiva interpretazione non è altrettanto scontata: non esiste un dizionario dei gesti, o delle espressioni del viso, o delle inflessioni della voce! Si spalanca così il campo alla possibilità di innumerevoli incomprensioni, equivoci o malintesi. Il caso che segue ne è un esempio. Quando Anna si sente giù di corda, prende un romanzo e si immerge nella lettura. É un'abitudine che ha fin da piccola, quando riempiva con la lettura i lunghi pomeriggi trascorsi da sola nel retro della merceria di famiglia, sperando che gli adulti, vedendola in un angolo con il suo libro, si accorgessero della sua solitudine. Ultimamente le succede sempre più spesso di ricorrere in questo modo alla lettura: ormai i figli sono grandi, l'impegno richiesto dal ménage familiare si è ridotto ed ha quindi più tempo a disposizione. Qualche volta si sente un po' inutile e ciò la deprime. Prende allora un libro e tenta in questo modo di risollevare il suo morale. Anna lamenta anche che Attilio, suo marito, non la capisce, non le sta vicino come lei vorrebbe, mantiene un atteggiamento indifferente e distaccato, che le fa sembrare ancora più penoso il suo senso di improduttività e di solitudine. Di conseguenza, si lascia sempre più spesso assorbire dalla lettura. Attilio, quando rientra dal lavoro, vorrebbe poter scambiare quattro chiacchiere con Anna, interessarla ai fatti della sua giornata, distoglierla dal mondo limitato delle quattro pareti domestiche. Si trattiene però dal fare questo perché la vede immersa nella lettura e non vuole disturbarla. Qualche volta si è addirittura accorto di essere un po' geloso dei libri di Anna. Ecco una coppia infelice a causa di un equivoco: quando Anna prende un libro è come se dicesse ad Attilio: " Guarda che mi sento sola. Il libro è solo un riempitivo. Ho bisogno che tu mi stia un po' vicino ". Lui invece capisce: " Lasciami in pace in compagnia del mio romanzo ". Un caso tipico: gli adolescenti Un ultimo caso. In casa Landi siamo alle solite. È sabato sera e, come tutti i sabati sera, si discute animatamente sull'ora di rientro del figlio Franco di sedici anni. Franco insiste per rincasare ad un'ora che gli permetta di andare in discoteca con gli amici, i genitori invece lo vogliono a casa più presto. La tensione sale e, quando Franco esce, ha raggiunto livelli insostenibili. " Franco non ha proprio nessun riguardo per noi! Sembra fare di tutto per mancarci di rispetto! " commentano i genitori. Franco non ha però nessuna intenzione di mancare di rispetto; con le sue insistenze vuol semplicemente dire: " Ho voglia di sentirmi grande e di fare le cose che fanno i ragazzi della mia età ". Altro equivoco, nato questa volta dall'interpretazione data al modo di comunicare cocciuto di Franco. Il suo tono di voce, i suoi gesti di insofferenza sono interpretati infatti dai genitori attribuendo loro un significato diverso rispetto alle sue intenzioni. Pare di sentire molti genitori di adolescenti protestare. " Ai figli non bisogna darle tutte vinte! "; " Bisogna pure che ci siano delle regole in famiglia e che vengano fatte rispettare! "; " Anche un adolescente deve continuare ad avere rispetto per i suoi genitori! ". Questi adulti interpretano i segnali non verbali rappresentati dall'alterazione della voce del ragazzo, dai suoi gesti di nervosismo, dai lineamenti del suo volto tesi, come una mancanza di rispetto e di attenzione nei loro confronti. Il loro intervento educativo rischia di conseguenza di riguardare non l'uso che deve fare un adolescente della sua nascente autonomia, ma la necessità che un sedicenne continui ad avere considerazione ed obbedienza per padre e madre. In questo modo si sposta il problema e lo si rende molto più complicato. Infatti, ben altra flessibilità nella ricerca di alternative è possibile parlando di tempo libero e di orari di rientro serale di un ragazzo di sedici anni, rispetto al caso in cui sia in discussione il suo rispetto o meno verso i genitori! Nella seconda ipotesi non esistono vie di mezzo: o si ottiene rispetto o si cede e cedere viene vissuto dagli adulti come una sconfitta, come una perdita della propria dignità genitoriale. La posta in gioco è troppo grande per lasciare spazio a negoziazioni. Non c'è allora da stupirsi se si finisce per irrigidirsi sull'ora di rientro a mezzanotte e mezzo anziché all'una, quasi che da quella mezz'ora di differenza dipendano le sorti dell'universo! Se si rimanesse invece centrati sulla reale difficoltà che è quella di assistere un adolescente nel fare le sue scelte riguardo all'uso dell'autonomia e, impresa difficile, di educarlo all'uso della libertà, si eviterebbe di sentirsi per questo sminuiti o non rispettati nel ruolo di genitori. Servirsi di tutta la persona per comunicare In conclusione, comunicare non consiste solo nel confezionare successioni di parole legate tra di loro dalla logica o dalle regole della sintassi che abbiamo imparato a scuola. Non sono coinvolti solo la nostra mente, le nostre corde vocali ed il nostro senso dell'udito. Nel comunicare è partecipe tutta la nostra persona, che si esprime ricorrendo ad una insospettata varietà di mezzi per completare ed arricchire i significati legati alle parole. Sfruttare questa grande potenzialità significa permettere ai nostri collegamenti vitali di svilupparsi con completezza e con profondità, tanto che i nostri rapporti con gli altri ne escano arricchiti. Per riassumere Non comunichiamo solo con le parole, ma anche servendoci dei suoni, timbri, inflessioni e pause della nostra voce, per mezzo del nostro sguardo, della mimica del volto, dei gesti, delle posizioni del corpo. Se cambiarne i messaggi non verbali che le accompagnano, le medesime parole possono acquistare significati anche molto differenti. Quando con ciascuna modalità di comunicazione facciamo passare lo stesso messaggio, non esistono difficoltà di interpretazione, mentre se c'è discordanza nascono equivoci e incomprensioni. Parlare è tutt'uno con giudicare Seconda complicazione Giudizi nascosti Nel corso di una conversazione può esserci successo qualche volta di accorgerci che il nostro interlocutore assumesse, apparentemente senza nessun motivo, un tono risentito o un inspiegabile atteggiamento di chiusura o, diversamente, di aggressività, tanto da chiederci che cosa potessimo aver detto o fatto per suscitare questa reazione. Ma per quanti sforzi facessimo, non riuscivamo a trovare spiegazione, finendo così per concludere che la gente qualche volta è un po' bizzarra, oppure per pensare che quel nostro interlocutore ha approfittato della situazione per sfogare su di noi le sue ansie o il suo nervosismo. Facilmente la spiegazione è però un'altra. Possiamo esserci imbattuti in un tranello della comunicazione, dovuto ad un automatismo per il quale insieme a ciò che diciamo passa sempre un giudizio implicito, nascosto, riguardante sia noi stessi che, soprattutto, la persona con cui stiamo parlando. Tutte le volte in cui comunichiamo si verificano infatti due fenomeni. Di uno di questi siamo sempre consapevoli, mentre dell'altro il più delle volte non ce ne accorgiamo. Il fenomeno di cui siamo consapevoli consiste nella nostra volontà di dire quella certa cosa in quel certo momento. Raramente ci rendiamo invece conto dell'altro ( quello di cui stiamo segnalando l'esistenza ), per il quale le nostre stesse parole lasciano sempre intendere la considerazione che abbiamo nei riguardi della persona a cui queste parole sono rivolte. Ma, se chi in questo modo esprime involontariamente il suo apprezzamento sull'altro può farlo senza rendersene conto, chi ne è destinatario ne sente inevitabilmente l'impatto, particolarmente quando esso è penalizzante. Sono proprio questi nostri giudizi nascosti i responsabili di molte reazioni dei nostri interlocutori apparentemente inspiegabili. Una nota favola di Esopo può aiutarci a cogliere come si manifestano questi giudizi e, soprattutto, a valutarne le conseguenze. " Un pastore conduceva le sue pecore a pascolare piuttosto lontano dal villaggio e si divertiva a fare questo scherzo: gridava che i lupi gli assalivano il gregge e chiamava in aiuto gli abitanti del villaggio. Due o tre volte quelli accorsero spaventati e poi se ne tornarono indietro tra le beffe. Ma accadde alla fine che i lupi vennero davvero. Mentre essi sbranavano il gregge, il pastore invocava l'aiuto dei compaesani, ma questi non se ne preoccuparono molto, credendo che egli scherzasse, come al solito ". Nella prima parte del racconto la considerazione del pastore riguardo a se stesso ed ai compaesani può essere sintetizzata nella frase: " Io sono furbo e loro sono sciocchi ". Nella seconda parte il giudizio cambia: " Io sono incapace a difendere il gregge da solo e considero loro capaci di aiutarmi ". Purtroppo per lui, gli abitanti del villaggio continuano a tenere per buono il suo primo giudizio, in relazione al quale la loro risposta è: " Noi non siamo sciocchi e lui vuol fare il furbo alle nostre spalle ". E non accorrono alle sue invocazioni di aiuto. É molto facile notare come il significato delle parole " al lupo, al lupo " cambi in relazione alla diversità dei giudizi impliciti in gioco. Il diritto ... La famiglia Vaschi, padre, madre ed il figlio Piero, sta viaggiando in autostrada. Alla guida c'è il padre. Piero ha quasi diciannove anni ed ha la patente da qualche mese. Si sono fermati in un'area di servizio per fare rifornimento. Ne approfittano per sgranchirsi le gambe. Il padre si rivolge a Piero: " Non c'è molto traffico, hai voglia di guidare tu fino all'uscita dall'autostrada? ". Gli occhi di Piero si illuminano. E come se il padre gli avesse detto: " Ti considero abbastanza abile come guidatore ". Piero si immedesima nel giudizio espresso sul suo conto: nessuna difficoltà relazionale in vista. Qualche volta Laura lamenta con le amiche di sentirsi trattata come una bambina dai genitori. Si festeggiano oggi in famiglia i suoi sedici anni. Tutti i familiari le hanno fatto il loro regalo e lei sta aprendoli uno dopo l'altro. É la volta del regalo del padre. E una scatoletta piccola piccola: Laura è curiosa di vederne il contenuto. Dalla confezione sbuca fuori un rossetto per le labbra. Laura butta le braccia al collo del padre e lo ringrazia entusiasticamente. Ha ricevuto altri regali, alcuni più costosi, ma questo rossetto ha avuto su di lei un effetto tutto speciale. Anche questa volta è il giudizio implicito comunicato dal padre mediante questo dono ( " Ti considero grande e ti faccio un regalo da signorina " ) a scatenare la gioia prorompente di Laura. Siamo in un'officina all'inizio del turno di lavoro. l capo squadra sta distribuendo agli operai gli incarichi per le prossime ore. C'è da fare un lavoro delicato, richiedente molta perizia ma almeno altrettanta fatica. Chiama Rocco che non ha mai ricoperto questa mansione e la affida a lui. Rocco si mette all'opera con buona lena, con entusiasmo e noncuranza dello sforzo. Nel comunicargli la richiesta di svolgere questo lavoro, il caposquadra implicitamente ha espresso il giudizio che Rocco è un operaio capace di svolgere mansioni complesse e richiedenti elevata professionalità. Rocco si è sentito gratificato da questa valutazione del suo capo, si sta dando da fare e quasi non fa caso alla notevole fatica che in questo momento gli viene richiesta. Entrambi concordano sul giudizio implicito nelle parole del capo e tutto va per il meglio. Come nei casi appena descritti, una delle condizioni necessarie affinché in una situazione di comunicazione tutto fili liscio consiste nella corrispondenza dei rispettivi giudizi impliciti messi in gioco da parte delle persone coinvolte. Quando ciò si verifica la loro mente rimane libera dalla preoccupazione su come reagire ad un eventuale giudizio penalizzante e può così dedicarsi in modo indisturbato al contenuto dei messaggi, agli avvenimenti, alle cose da fare. Possiamo prendere ad esempio la situazione stessa che il lettore sta vivendo in questo momento. Egli sta comunicando con chi scrive attraverso le parole che sta leggendo. Chi scrive, per il fatto stesso di scrivere un libro, ritiene se stesso in grado di dire cose interessanti sull'argomento e contemporaneamente giudica il lettore desideroso di saperne di più sul tema. Se quest'ultimo si riconosce in questi giudizi continuerà la lettura. Al contrario, nel momento in cui giudicasse che quanto gli viene proposto non merita attenzione, metterebbe in discussione la capacità di chi scrive, interromperebbe la lettura ( la comunicazione ) e dimenticherebbe il libro su qualche scaffale. Tonio è un quindicenne che vive in campagna. Il padre si dedica al lavoro dei campi ed alla conduzione della stalla per l'allevamento dei vitelli. I rapporti tra Tonio ed il padre sono sempre molto tesi. Il padre è convinto che non abbia voglia di lavorare e non ha molta considerazione nei suoi confronti. Tanto per tenerlo occupato, oggi gli ha detto di pulire ed ingrassare i meccanismi dell'impianto automatico per il trasporto dei mangimi dal silo alla stalla e per il loro dosaggio. Si tratta di un impianto costoso che è il fiore all'occhiello di questa piccola azienda agricola. Il padre pensa già di dover successivamente intervenire a sua volta per rimediare alle inevitabili negligenze di Tonio. É sera e decide di andare a controllare il lavoro del figlio. Trova tutto in perfetto ordine: il lavoro è stato fatto a regola d'arte e anche i piccoli particolari sono stati curati come si deve. Va a vedere lo scaffale dove vengono riposti gli attrezzi e li trova tutti puliti e messi in bell'ordine. Non crede ai suoi occhi: tutto ciò sarebbe opera di quel fannullone di Tonio? Nel dire al figlio " fai la manutenzione all'impianto del mangime ", il padre ha implicitamente comunicato al figlio ( anche se sicuramente non l'avrebbe voluto ): " Giudico me stesso tranquillo nell'affidarti un lavoro su questo impianto cui tengo molto e considero te abbastanza capace da riuscire a fare ciò che ti chiedo ". Tonio capisce: " Papa si fida di me! ". Ed ecco il miracolo, si fa per dire. ... e il rovescio Il nostro benessere con gli altri dipende in larga misura da questo intreccio di giudizi che, come una trama invisibile ma molto consistente, sta sotto a tutti i nostri collegamenti vitali, a tutte le nostre relazioni. Alcune volte però questi stessi giudizi impliciti, che circolano come se fossero dei contrabbandieri all'interno dei nostri collegamenti vitali, fanno nascere dei guai. Monica e Gigi hanno avuto Barbara da appena cinque settimane. É la loro primogenita e sono nel pieno della fase di apprendistato come genitori di una neonata. Monica è indaffarata ad allattare, pesare, pulire, cullare a tutte le ore del giorno e della notte. Qualche volta questo ritmo è un po' stressante, particolarmente quando Barbara piange e non è facile capirne il motivo. Gigi non vuole essere uno di quei padri che si disinteressano dei figli delegando tutto alla madre. Quando è a casa partecipa attivamente alla cura di Barbara. Il momento che in queste ultime settimane ha cominciato ad apprezzare di più come padre è il rientro dal lavoro, quando si fa raccontare da Monica come è stata la bambina. Vuole sapere tutto, fa domande, si fa descrivere nei dettagli il peso, la durata della poppata, il sonno, i pianti. Non vuole perdere, seppure non possa farlo che indirettamente attraverso le parole della moglie, neppure un attimo di questo primo periodo di vita della figlia. Da qualche giorno nota però che Monica manifesta insofferenza quando le chiede tutte queste informazioni. " Sarà un po' nervosa per la fatica " commenta tra sé e sé Gigi. Finché una sera Monica scoppia in lacrime, dice di non riuscire a farcela più, che non riesce più a reggere tutte queste insistenze, questi interrogatori del marito. La famigliola entra in crisi. Cerchiamo di capire. Gigi, quando si interessa in modo così puntiglioso della giornata di Barbara comunica implicitamente " mi considero un buon padre e ritengo che tu, Monica, possa aiutarmi ad esserlo informandomi di ciò che avviene in mia assenza ". Dal canto suo Monica vede così la loro situazione: " Se mi fai tutte queste domande significa che non ti fidi delle mie capacità come madre e questo mi fa sentire sempre sotto esame ". Non cadiamo nella trappola di voler decidere se ha ragione Gigi o ha ragione Monica. Quello che ci serve notare è come i giudizi impliciti nelle parole e nei comportamenti dei due sono differenti e che l'incidente relazionale scaturisce proprio da queste valutazioni nascoste. Un caso analogo è quello di Aldo, capo ufficio in una cartiera. Tra i suoi collaboratori c'è Fausto, un laureato di circa trent'anni di cui apprezza molto capacità e serietà. Lo vede ancora un po' insicuro professionalmente e da qualche mese ha deciso di aiutarlo a sviluppare una maggiore autonomia sotto il profilo tecnico. Segue perciò da vicino la sua attività in modo da non fargli mancare gli stimoli necessari. Fausto ha notato che da qualche tempo il suo capo si interessa in modo particolare al suo lavoro. Ciò lo fa sentire a disagio, si sente controllato, ha finito col pensare che Aldo non valuti positivamente la sua collaborazione. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un fraintendimento nato dalla diversità dei giudizi impliciti legati alla comunicazione. Quando Aldo si interessa al lavoro di Fausto intende fargli capire: " Lavori bene e voglio aiutarti a lavorare ancora meglio ". Fausto avverte che Aldo gli dica: " Se devo intervenire io significa che tu da solo non sei all'altezza ". Angela è una ragazza di ventidue anni, studentessa universitaria. Di solito per andare alla facoltà si serve dei mezzi pubblici. Oggi però ha in programma, dopo le lezioni, di recarsi in diversi punti della città per fare alcune commissioni. Per essere facilitata in questi spostamenti, chiede in prestito al padre l'auto di famiglia. Il padre acconsente e aggiunge: " Bada che è in riserva, fai subito rifornimento ". E lei: " Certo, papa ". Comincia a prepararsi ed il padre riprende: " Lo sai che Piazza Castello è chiusa per lavori? Gira alla larga perché ci sono sempre intasamenti ". Angela risponde: " Sì, papa ". Sta pettinandosi davanti allo specchio e sente il padre: " Hai letto sul giornale che hanno allargato la zona disco? ". Lei risponde: " Sì, lo so ". Infine, mentre Angela raduna le sue cose per uscire, il padre dice: " Ah, mi raccomando non tirare troppo le marce! ". Angela a questo punto sbotta: " Uffa, papa! ", prende le chiavi ed esce di casa con fare risentito. Il padre si domanda: " Ma che cosa l'avrà mai fatta arrabbiare così? E sempre tanto nervosa questa ragazza! ". Ormai siamo abbastanza accorti nel far uscire allo scoperto i giudizi impliciti. Il padre comunica: " Voglio aiutarti a usare la macchina senza problemi ", mentre Angela si dice: " So stare al volante e conosco la città. Non accetto che tu, papa, mi dia dei consigli come se fossi una principiante ". Va sottolineato come i giudizi impliciti siano inevitabili. E il fatto stesso di comunicare a metterli in azione. In qualche modo ciò assomiglia a quanto avviene in occasione di uno sforzo fisico che comporta necessariamente un aumento della frequenza dei battiti del nostro cuore: le due cose sono legate l'una all'altra. Come non è neppur pensabile di poter chiedere uno sforzo fisico al nostro corpo evitando che di pari passo il nostro cuore acceleri i suoi battiti, così non potrà mai esservi comunicazione con qualcuno senza che si attivino questi giudizi. Non ci si chieda quindi cosa o come fare per eliminarli. Ne ci si proponga di tacere quando ci si accorgesse che un messaggio fa passare un giudizio implicito penalizzante: molte volte ciò rappresenterebbe un rimedio peggiore del male. Infatti, molti ruoli che la vita ci attribuisce ( quello di genitori, di superiori, di insegnanti, quello di amici ... ) ci impongono di non tacere anche quando le nostre parole comportano un giudizio dall'impatto negativo sul nostro interlocutore. Se stessimo zitti, verremmo meno alle nostre responsabilità e non saremmo né buoni genitori, superiori o insegnanti, né veri amici. Come comportarci allora? Che fare Si tratta innanzi tutto di accorgerci, ancor prima di formulare il nostro messaggio, del tipo di giudizio implicito che stiamo per trasmettere. Per riuscire in questo, dato che non ne siamo abituati, bisogna allenare la nostra attenzione ed affinare la nostra sensibilità. A questo scopo ci possiamo chiedere, per esempio, cosa proveremmo nel sentirci dire quella certa cosa se fossimo nei panni di chi ci sta di fronte. Se pensiamo che la nostra reazione sarebbe di gratificazione o neutra, possiamo procedere senza alcuna preoccupazione. Se invece immaginiamo che ci sentiremmo sminuiti o penalizzati, è logico prevedere una percezione analoga anche da parte sua, tanto che potrebbe rinchiudersi nel silenzio, diventare polemico o rivoltarsi contro di noi. Se un'eventuale reazione di questo tipo ci sembra indesiderabile, è necessario pensare a come prevenirla. Si tratta allora di formulare il nostro pensiero in modo da attutirne l'impatto e renderne meno problematica l'accettazione da parte del nostro interlocutore. Possiamo con questo proposito far precedere ciò che gli dobbiamo dire da una premessa adatta a smorzare il peso del giudizio implicito destinato a finire sulle sue spalle. Prendiamo il caso in cui qualcuno stia sbagliando e riteniamo quindi necessario intervenire per consigliarlo. In queste situazioni, fare un'osservazione o dare un consiglio equivale a far passare il giudizio implicito: " Non sei abbastanza bravo nel venire a capo dei tuoi problemi. Al contrario io sono più in gamba di te e ti spiego come bisogna fare ". Se temiamo che l'impatto di questo giudizio comporti la nascita di qualche difficoltà, possiamo ad esempio far precedere il nostro consiglio dalla considerazione: " Forse non ti è mai venuto in mente, ma ... ( e facciamo seguire l'osservazione ) ". In questo modo forniamo noi stessi una spiegazione accettabile della sua manchevolezza tale da far percepire meno lesivo il giudizio implicito che comunque trasmettiamo. Come a dire: " Certamente ci saresti arrivato anche tu. Tutto è dipeso solamente dal fatto che non ti è venuto in mente prima ". Un altro possibile accorgimento consiste nel far cadere meno dall'alto il nostro giudizio implicito, assumendo nel dialogo una posizione pacata, dicendo, ad esempio: " Non voglio certo fare la parte di chi insegna ai gatti ad arrampicarsi, ma, secondo me ... ". In questo modo sottintendiamo considerazione per la competenza del nostro interlocutore che risulta così salvaguardata malgrado l'osservazione che gli rivolgiamo. Due modi tra i tanti possibili. La regola generale consiste nel trovare una premessa capace di assorbire l'impatto dei nostri giudizi impliciti su chi ci sta di fronte. L'attenzione al fenomeno di cui stiamo parlando e l'impiego degli accorgimenti suggeriti permettono un radicale miglioramento nella qualità della comunicazione. L'osservazione delle situazioni di tutti i giorni mostra infatti come la grande maggioranza delle difficoltà relazionali dipenda in larga misura proprio dalla circolazione incontrollata di apprezzamenti di questo tipo nascosti nei discorsi tra le persone. Possiamo ancora pensare a circostanze in cui non sia possibile o non vogliamo ricorrere a questo genere di accorgimenti. In questi casi può esserci utile anche solamente accorgerci che in quel momento stiamo mettendo in gioco con le nostre parole una considerazione non gratificante per chi ci sta davanti. Questa consapevolezza ci permette infatti di non farci trovare impreparati dalle sue reazioni e, soprattutto, di non stupircene. C'è quindi modo e modo di far passare, essendone consapevoli, queste nostre valutazioni su noi stessi e sugli altri. Il rischio peggiore Abbiamo notato come le reazioni suscitate dal giudizio implicito possano essere rappresentate da un senso di gratificazione, di neutralità o di deprezzamento. Talvolta il senso di deprezzamento o di frustazione è particolarmente problematico, al punto da influire sulla persona che ne è interessata in modo molto pesante, ben al di là della risposta emotiva immediata. Il caso che segue ne è la dimostrazione. A casa Flavi è l'ora di cena. Intorno al tavolo ci sono padre, madre, la figlia Irene di diciassette anni, il figlio Alberto di quindici ed il nonno più che ottuagenario. La conversazione è caduta sugli incidenti stradali del sabato notte al rientro dalle discoteche. Alberto dice che, secondo lui, si tratta di un falso problema, che di giovani coinvolti in incidenti stradali ce ne sono tutti i giorni e a tutte le ore. Gli altri non sono d'accordo e ciò fa discutere. Irene ad un certo punto dice che una causa può consistere nel fatto che i giovani spesso esagerano nel bere alcoolici, considerazione che, pur con sottolineature diverse, trova un po' tutti d'accordo. Ad un certo punto interviene il nonno dicendo che una volta queste cose non succedevano, che i giovani di allora avevano altro a cui pensare, altro che fare le ore piccole! La reazione è di mutismo assoluto: ognuno guarda nel suo piatto senza fare alcun commento. Un attimo dopo il silenzio viene interrotto dalla madre che cambia completamente argomento e si informa con Irene sulla sua preparazione in vista di una imminente interrogazione scolastica. Come se nulla fosse, l'argomento si sposta quindi sul tema della scuola. Analizziamo quanto è avvenuto. Alberto ha espresso un'idea che è stata raccolta dagli altri, ma la sua posizione non è stata condivisa. Anche Irene ha espresso un'idea che è stata presa in considerazione ed alla fine è stata in linea di massima accolta. Il nonno pure ha detto quello che pensava, ma nessuno ha raccolto il suo pensiero né l'ha preso sul serio. La conversazione intorno alla tavola è continuata come se lui non avesse detto nulla. Se ci riferiamo ai giudizi impliciti, notiamo che quelli riguardanti Alberto ed Irene hanno una caratteristica comune: è come se fosse stato detto loro che i loro ragionamenti meritano attenzione, anche se possono essere ritenuti sbagliati, come nel caso di Alberto. Per quanto riguarda il nonno invece si è semplicemente negato il fatto che le sue idee possano essere degne di considerazione, tant'è che nessuno ha fatto il benché minimo sforzo per commentarle o, eventualmente, per contestarle. Le sue parole sono state lasciate semplicemente cadere nel nulla, come se non fossero state pronunciate. Possiamo definire il giudizio implicito riguardante il nonno spersonalizzante, dato che gli si è di fatto negato il diritto di esistere a pieno titolo all'interno di una conversazione nella quale era coinvolto per la sua stessa presenza a tavola. Si è trattato di una specie di annullamento della sua persona, quasi a dirgli: " Per questi discorsi tu non esisti ". Ci rendiamo facilmente conto che, se la posizione di Alberto che si è trovato in disaccordo con gli altri può non essere tra le più piacevoli, ben più pesantemente penalizzante è la condizione del nonno che non si sente nemmeno considerato. Cosa farà allora? Potrà rinchiudersi in un silenzio immusonito pensando: " Tanto io non conto più nulla " o potrà diventare polemico e petulante nel tentativo maldestro di riconquistarsi una dignità relazionale. Si noti come entrambe le reazioni non rappresentino un problema solo dal punto di vista del nonno, ma incidano sulla serenità di tutti i membri della famiglia, i quali senza accorgersene hanno creato essi stessi le premesse della scontrosità o delle insopportabili insistenze del vecchietto di cui spesso si lagnano. Non è sempre tutta colpa dell'arteriosclerosi! Lasciare circolare impunemente nei nostri collegamenti vitali questi giudizi spersonalizzanti è da considerarsi un modo " malato " di comunicare, dato che molto spesso tali giudizi si comportano come un virus che infetta tutte le situazioni di relazione tra due persone: si vengono così a creare conseguenze molto penose per lo stato d'animo di chi ne è fatto oggetto, al punto che ne viene in alcuni casi intaccato l'equilibrio emotivo. Guai se una di queste due persone è un bambino. Qualora negli anni in cui si gettano le basi della sua futura personalità di adulto, egli venga sistematicamente bombardato da giudizi impliciti che devastano la sua percezione di persona degna di considerazione. Come potrà mai trovare fiducia in se stesso quando è stato trattato dagli adulti che lo circondano come se non avesse idee, sentimenti, emozioni? Nei casi più gravi ciò provoca l'insorgere di difficoltà psicologiche che possono sfociare in veri e propri disturbi della personalità. Senza arrivare a questi casi limite, si tratta peraltro di un modo di comunicare piuttosto diffuso che, come si constata da questi esempi, si verifica anche nelle famiglie più " normali ". Davide è un bimbo di quattro anni con un fratellino, Giorgio, di due. Quando è nato Giorgio è stata dura per lui abituarsi all'idea di non avere più tutte le attenzioni di mamma solo per sé. Gli hanno detto che doveva volere bene a Giorgio e si è sforzato di farlo, ma come voler bene ad uno che reclama in continuazione la mamma per mangiare, per essere pulito e così via? Davide ha provato a ritornare a essere piccolo come Giorgio facendosi di nuovo la pipì addosso, nella speranza di obbligare così la mamma a prendersi cura allo stesso modo anche di lui, ma non ne ha ricavato molto. Gli hanno di nuovo messo il pannolone alla notte e tutto è finito lì. Davide continua a fare la pipì nel letto e Giorgio continua a godere delle cure materne. Ora Giorgio è cresciuto, ha imparato a camminare e comincia a fare disastri. Nessuno dei giochi di Davide è più al sicuro, alcuni sono stati distrutti, altri rovinati da questo novello piccolo Attila. Davide è convinto che Giorgio sia cattivo perché a lui hanno insegnato e pretendono che queste cose non si facciano. Ogni tanto si arrabbia, cerca di difendere i suoi giochi e Giorgio si mette a strillare come un'aquila. Papa e mamma, per farlo smettere, gli dicono che non è successo niente, che Davide gli vuole bene, che loro due sono due buoni e bravi fratellini. Poi li invitano ad abbracciarsi, a farsi " caro " ed a darsi bacino. Davide non vorrebbe, tenta di rifiutarsi, ma le mani di papa e mamma lo spingono verso Giorgio finché, tanto per farli contenti e risparmiarsi le loro insistenze, da questo benedetto, tanto atteso bacino. Davide è molto arrabbiato dentro di sé con Giorgio per tutti i motivi che abbiamo visto e giudica responsabile il fratellino dei suoi guai. I genitori, con i loro interventi educativi, si comportano come se Davide non avesse queste difficoltà, anzi negano addirittura che queste difficoltà esistano, continuando a dirgli che lui e Giorgio si vogliono molto bene. Potremmo dire che Davide viene " espropriato " delle sue sensazioni e delle sue emozioni: gli adulti le ignorano come se non esistessero e non fossero state espresse attraverso i suoi comportamenti. Il virus ha già cominciato a fare disastri: se papa e mamma non cambieranno il loro modo di intervenire, ne passerà di tempo prima che Davide smetta di bagnare il letto! I giudizi spersonalizzanti sono dappertutto Ci soffermiamo su alcuni esempi di giudizi impliciti spersonalizzanti, per richiamare l'attenzione del lettore sulla frequenza con la quale essi possono presentarsi nella vita di tutti i giorni e per sottolinearne le possibili conseguenze. E in corso una discussione carica di tensione tra marito e moglie. Entrambi si sforzano di convincere l'altro del proprio punto di vista. Il tono si alza. Ad un certo momento interviene il marito dicendo con tono incalzante: " Dimmi se è vero o no che sono passati mesi dall'ultima volta che siamo andati a trovare i miei parenti! " . Lei replica: " Non usare questo tono con me, sai! " e lui, cercando di controllarsi: " Non sono forse mesi che i miei non ci vedono? " e lei, di rimando: " Smettila di alzare la voce! " A questo punto il marito perde le staffe ed ha una reazione emotiva incontrollata. Cosa ha provocato la reazione incontrollata del marito? Molto probabilmente la sua esasperazione nasce dal fatto di sentirsi ignorato nelle sue argomentazioni: per due volte pone la stessa domanda e per due volte la moglie anziché rispondergli sposta il discorso. Il giudizio implicito spersonalizzante è: " Di' pure quello che vuoi, tanto per me ciò che tu dici o ciò che tu provi non ha nessuna importanza. Non esiste. Ciò che conta è come io mi sento trattata! ". Una scenetta alla quale possiamo aver assistito in molti. Una piazza cittadina, un giorno di festa, un palloncino colorato vola via verso l'alto, un bimbo piange. Un adulto lo consola: " Non è successo niente, guarda come vola in cielo! ". Il bimbo continua a piangere. Sembra che quanto più l'adulto si sforzi a dirgli che non è successo nulla, tanto più forte sia il pianto del piccolo. Carletto è sul seggiolone e la nonna lo sta imboccando. E la prima volta che gli danno da mangiare il fegato . Carletto non lo gradisce e lo sputa. La nonna: " Amm, pappa buona!" e lo imbocca di nuovo. Carletto sputa e si mette a strillare. Una giornata di inizio primavera, una di quelle prime giornate di tepore dopo i freddi dell'inverno, quando si apprezza il sole che comincia a riscaldare piacevolmente. Sarà è sul passeggino spinto dalla madre: Indossa un grosso berretto di lana. Ad un tratto Sarà si strappa il berretto dal capo perché ha caldo. Il passeggino si ferma e la mamma rimette a posto il berretto. Si riparte e qualche passo più in là si ripete la scena e mamma dice: " Fa freddo, bisogna tenere il berretto ". Dopo poco la bimba si toglie ancora il berretto e così via altre volte nel corso della passeggiata. Tutti questi bambini sono stati espropriati delle loro sensazioni. E più che apprezzabile il tentativo degli adulti di consolare, di diversificare l'alimentazione e di evitare l'insorgere di un raffreddore. Nel primo caso però, mentre il bimbo vive quella che per lui è la tragedia della fuga del suo amico palloncino, gli si dice che non è niente, cioè gli si dice che il dolore che prova non è nulla. Questo subbuglio interiore che lo fa piangere e singhiozzare, semplicemente non deve esistere. Eppure lui lo sente e lo fa proprio stare male! La nonna fa qualcosa di molto simile con Carletto che sente sgradevole il gusto del fegato, gusto sgradevole che la nonna si ostina a definire " pappa buona ". Carletto sa che queste non sono le sensazioni che sperimenta quando mangia qualcosa che gli piace. Ma si sente dire che non c'è nessuna differenza. Anche nel terzo caso l'insistenza della madre nel ricacciare il berretto in testa alla bambina significa: " Guarda che non fa caldo. Tieni il berretto! " Ciò equivale a dirle che quella spiacevole sensazione di eccessivo calore non esiste. Però lei la sente! Tre bambini ai quali è stato negato di fare esistere quella parte di loro stessi che ha espresso di volta in volta dolore, disgusto, sensazione di caldo. Nell'educazione ... Proviamo a pensare che questi giudizi impliciti spersonalizzanti, da fatti episodici, diventino uno stile educativo, cioè un modo sistematico di comunicare tra adulti e bambini nel corso di mesi e di anni. Non facciamo fatica ad immaginare la confusione che si viene a creare nella testolina di un piccino, quando regolarmente ciò che prova viene negato o viene alterato chiamandolo con un nome diverso. Lo si mette nella condizione di dubitare delle sue stesse percezioni. Come potrà domani, adulto, avere fiducia in se stesso quando non sa se potersi fidare di ciò che prova e di ciò che percepisce? I bambini devono poter piangere quando si trovano ad affrontare sofferenze che per loro sono grandi, per quanto banali possano sembrarne le cause agli occhi di un adulto ed i genitori dovrebbero evitare di esigere l'impossibile da se stessi quando pensano: " Se un padre o una madre non sa acquietare il pianto di un figlio, se non sa decidere per lui ciò che è buono al suo palato e ciò che non lo è, o quando ha caldo e quando ha freddo, non è un buon genitore ". Si può essere buoni genitori anche vicino ad un figlio che singhiozza o che non mangia. ... in famiglia ... Il ricorso più drammaticamente problematico ai giudizi impliciti spersonalizzanti si trova nella famiglie che sorridono sempre. Se succede qualcosa di bello sorridono, se succede qualcosa di penoso sorridono, se tutto va bene sorridono, se tutto va male sorridono, se si fa giusto sorridono, se si sbaglia sorridono ... I membri di queste famiglie, soprattutto gli adulti, hanno probabilmente bisogno di rassicurarsi di far parte di una buona famiglia ed hanno l'idea che le buone famiglie non debbano mai avere contrattempi o tensioni, e allora ... sorridono. Il risultato è che, ciascuno dei familiari, quando dentro di sé si sente contrariato o arrabbiato, vede reagire gli altri con un sorriso che, come una pellicola dolciastra ed appiccicosa, nega il suo essere arrabbiato o contrariato e lo costringe ad essere come se niente fosse. Dopo anni di questo genere di esercizi, gli individui finiscono col dubitare di se stessi. ... sul lavoro ... In un'azienda industriale è in corso una riunione ad alto livello. Si sta discutendo di qualità, un argomento cruciale in questi ultimi tempi. Per la verità, i prodotti continuano ad essere apprezzati dai consumatori, ma non si vuole dormire sugli allori. L'obiettivo è quello di eliminare gli attuali pochi casi di lamentele della clientela. Nel corso della riunione vengono prese molte decisioni riguardanti la cura della progettazione, quella della manutenzione degli impianti e così via. Tra le altre decisioni c'è anche quella di promuovere una campagna di sensibilizzazione tra gli operai addetti alla produzione, affinché facciano suggerimenti per l'eliminazione di eventuali inconvenienti presenti nel ciclo di lavorazione. Terminata la riunione, i responsabili dei reparti di produzione organizzano incontri con gli operai per spiegare loro le intenzioni dell'azienda e per invitarli a segnalare le loro proposte di miglioramento. Il riscontro a questa sensibilizzazione è positivo ed i suggerimenti arrivano numerosi. Passa qualche mese ed il numero delle segnalazioni cala vistosamente; non solo, ma quando i responsabili ricordano agli addetti la possibilità di fornire questo genere di indicazioni, l'impressione è che questi ultimi siano infastiditi. Cerchiamo di capire come sono andate le cose. I numerosi suggerimenti presentati nel momento iniziale hanno dovuto essere sottoposti ad analisi tecnica. Ciò ha comportato un notevole impegno di tempo da parte degli addetti agli uffici tecnici, a causa dell'elevato numero dei casi da esaminare. Di questi suggerimenti, alcuni sono risultati utilizzabili, mentre, come prevedibile, una parte di essi non è stata giudicata adatta per problemi di fattibilità tecnica, di sicurezza o di economia. All'atto pratico, dalla mobilitazione degli operai sono derivate poche applicazioni concrete e queste poche a distanza di tempo. La direzione aziendale ha ritenuto non fosse necessario dare un riscontro a tutti coloro che hanno presentato un suggerimento, sia nel caso di esito positivo come negativo. Dal punto di vista degli operai sembra allora che la loro disponibilità alla collaborazione sia caduta nel nulla, che le loro proposte siano state ignorate, che l'entusiasmo con cui hanno reagito all'invito al coinvolgimento non sia stato preso nella minima considerazione. Di qui la demotivazione. A torto forse, ma finiscono per concludere: " Ci chiedono delle idee e poi nessuno se ne cura. Questo significa che, al di là dei bei discorsi, a nessuno interessa veramente quello che suggerisce la nostra esperienza ". Questa operazione che, tra l'altro, avrebbe potuto portare un miglioramento nel clima aziendale, rischia di ottenere l'effetto opposto. ... in ospedale Riscontriamo sorprendentemente la presenza di giudizi impliciti spersonalizzanti ( che, ricordiamo, abbiamo chiamato " modo malato di comunicare " a causa delle sue conseguenze ) anche in situazioni relazionali aventi come obiettivo la salvaguardia della salute! Parliamo del rapporto tra medico e paziente. Osserviamo un primario che con la sua équipe di aiuti ed assistenti sta facendo il giro delle visite tra le corsie dei ricoverati. Si fermano accanto ad uno, gli fanno domande, lo visitano, consultano la cartella clinica, discutono, prendono decisioni e passano al letto successivo. Al paziente non vengono forniti riscontri se non in modo spesso molto sbrigativo, non vengono motivati eventuali cambiamenti nella terapia. Il paziente scruta il volto dei medici alla ricerca di segnali rassicuranti, ma essi sono molto professionali e non traspare nulla. La sua ansia di guarigione, la sua preoccupazione riguardo al bene prezioso della vita, il suo bisogno di essere protagonista delle vicende che lo riguardano, tutto questo non viene tenuto in considerazione. La percezione del malato è quella di sentire annullata la propria personalità, di aver messo la propria esistenza nelle mani di chi è lì per prendersi cura del suo corpo. Lui è ... il " caso clinico "; cosa pensi, o provi, o voglia sapere, ha l'impressione non conti nulla. Alla malattia fisica, cui molto spesso si accompagnano stati d'animo di abbattimento e di depressione, si sommano così i penosi effetti di una condizione spersonalizzante. Proprio quell'ambiente che deve provvedere al benessere della persona, in un momento in cui essa ha bisogno di contare in pieno su tutte le sue potenzialità per combattere la battaglia e riconquistare la salute, rischia di appannare ed indebolire le sue risorse psichiche ( la volontà, l'intelligenza, la collaborazione attiva ) aventi un ruolo determinante insieme alla cure mediche, per il buon esito del processo di guarigione. Rispettare le persone Ai casi descritti si potrebbero aggiungere ancora quelli legati alle manovre per sottrarsi alla comunicazione quando non se ne abbia interesse o piacere. Mostrarsi molto occupati o intenti in qualcosa e fingere di non accorgersi degli approcci dell'interlocutore, accampare impellenti impegni, ironizzare sulle competenze dell'interlocutore in argomento o squalificarlo brutalmente ( cosa vuoi sapere tu! ): sono anche questi modi per scoraggiare l'interlocutore attraverso giudizi impliciti spersonalizzanti. Si è già sottolineato come il benessere relazionale delle persone passi anche attraverso l'accettabilità dei giudizi ricevuti nelle occasioni di comunicazione. Come si può pensare che possa essere sentito accettabile un giudizio implicito che suscita un senso di frustrazione profonda, di annullamento delle proprie idee, delle proprie emozioni o delle proprie sensazioni, come nel caso di un giudizio spersonalizzante? Si tratta perciò di porre la massima attenzione, particolarmente con i più deboli ( bambini, malati, persone in difficoltà ), a non far passare insieme ai contenuti dei nostri messaggi questi giudizi. Al contrario, occorre permettere loro di costruire e di mantenere integra la consapevolezza del proprio valore insostituibile rappresentato dall'essere persone, mediante giudizi impliciti comunque rispettosi, anche quando non dovessero essere gratificanti. Per riassumere Tutte le volte in cui comunichiamo, si verificano sempre due fenomeni. Di uno dei due siamo sempre consapevoli e riguarda la nostra intenzione di dire determinate cose. L'altro avviene nella maggior parte dei casi a nostra insaputa: esso consiste nella presenza in quanto diciamo di giudizi impliciti riguardanti sia noi stessi che la persona con cui stiamo comunicando. La reazione dei nostri interlocutori ai messaggi che inviarne loro è determinata certo dal loro contenuto, ma in misura spesso maggiore, proprio da questi giudizi. Essi possono essere all'origine di importanti difficoltà nei nostri collegamenti vitali, anche considerato il fatto che ne siamo quasi sempre inconsapevoli. Talvolta questi giudizi sono tali da essere percepiti come segno della totale non considerazione da parte nostra per la persona stessa di un interlocutore. Li chiamiamo in questi casi " giudizi impliciti spersonalizzanti " e li consideriamo indice di un modo malato di comunicare, perché - qualora diventino abituali - possono provocare l'insorgere di importanti difficoltà per le persone implicate, soprattutto se sono bambini. La tentazione del " come prima, più di prima " Terza complicazione Quando causa ed effetto si rincorrono Un'esperienza comune, per chi vive in campagna o ha una casa con un giardino, è quella di dover fare i conti con le erbacce. Non le si vorrebbe perché ostacolano il passaggio, oppure perché rendono brutto l'ambiente. Alcune hanno radici profonde e resistenti, per cui non si riesce ad estirparle ed allora non resta altra scelta se non attrezzarsi con una falce o con le cesoie e tagliarle. Tagliandole però le si sottopone ad una potatura radicale che, come tutte le potature, rinforza le piante, per cui dopo qualche tempo ricrescono più sane, robuste e rigogliose di prima. Si è perciò costretti ad intervenire nuovamente, per poi vederle ricrescere, tagliarle di nuovo e così via. Arriva il momento in cui, se ci si ferma per un attimo a riflettere, non si capisce più se si tagliano le erbacce perché crescono o se le erbacce crescono perché le si taglia. Ciò che si fa per eliminarle crea le condizioni che costringeranno a tagliarle di nuovo. Si è messo in moto un meccanismo per il quale tagliare le erbacce è ciò che serve per risolvere il problema ma è contemporaneamente la causa del ripetersi dello stesso problema. I meccanismi di questo genere vengono chiamati " circolari ", perché, come nell'esempio, causa ed effetto si rincorrono a vicenda scambiandosi tra di loro in un girotondo apparentemente senza fine, così come fa il cagnolino che si morde la coda. Nei rapporti tra esseri umani - quindi nei nostri collegamenti vitali - le situazioni che presentano questa caratteristica della circolarità costituiscono la regola. I circoli virtuosi relazionali: una gioia In un negozio l'esercente sta servendo una cliente. Dice tra sé e sé: " Questa signora fa spesso spese importanti da me, perciò la voglio servire bene ". A sua volta la cliente pensa: " In questo negozio mi trattano bene e quindi preferisco servirmi da loro ". La premura del negoziante per la cliente la induce a continuare a rivolgersi a lui e ciò fa sì che egli continui a mettere cura particolare nel servirla, tanto che essa è portata a riservargli ancora i suoi acquisti e così via, in un ripetersi di questi due comportamenti di cui l'uno diventa la causa e l'effetto dell'altro. Una moglie commenta in cuor suo: " Fa proprio piacere faticare in cucina per mio marito. Vederlo mangiare in questo modo e ricevere i suoi apprezzamenti sono per me il miglior premio ". Il marito pensa: " Sono proprio fortunato ad avere per moglie una così brava cuoca ". Il marito apprezza la moglie perché è abile in cucina o ... la moglie si da da fare in cucina perché il marito apprezza la sua capacità tra i fornelli? Giulio va bene nei suoi studi. Certo, gli costa fatica studiare; ma vede i suoi sforzi premiati quando nelle interrogazioni i professori gli danno un bei voto e lui si sente così invogliato a fare sempre meglio. Gli insegnanti, per parte loro, non hanno difficoltà a dare una buona valutazione a Giulio, vista la sua preparazione. Allora, i professori danno un buon voto a Giulio perché si prepara bene per le interrogazioni o ... Giulio si prepara bene per le interrogazioni perché i professori lo premiano con una buona votazione? E il giorno di paga in una piccola officina. Il titolare distribuisce le buste con la retribuzione: " Visto che avete lavorato, io vi pago ". E gli operai: " Visto che tu ci paghi, noi lavoriamo ". In tutti questi casi ci sono le condizioni affinché si stabilisca un meccanismo di circolarità comportante il ripetersi nel tempo del rispettivo modo di rapportarsi da parte di entrambi, dato che ciò permette di stare bene a tutti e due. Ciascuno dei due interlocutori coinvolti è quindi naturalmente portato a ripetere il suo comportamento e questa ripetizione induce a sua volta l'altro a fargli eco con la sua risposta, in una specie di moto perpetuo che si autoalimenta. Le premesse su cui basa il funzionamento di questi meccanismi sono facilmente spiegabili richiamando i collegamenti vitali incontrati nel primo capitolo. Come ricordiamo, la comunicazione è una successione di tentativi dell'individuo di stabilire collegamenti vitali coi suoi possibili interlocutori, in quanto li ritiene adatti a soddisfare quei bisogni cui da solo non è in grado di dare risposta. Si è pure sottolineato come il successo di questi tentativi è legato alla consapevolezza da parte dell'interlocutore che aderirvi permette di trovare soddisfazione anche ad un proprio bisogno: comunicare diventa pertanto un collegamento vitale per entrambi. Ognuno dei due ottiene dall'altro la risposta che serve e si rende conto che offrire la sua risposta comporta avere di ritorno il comportamento dell'altro che lo aiuta a stare bene. Quando esiste questa coincidenza, le persone sono a loro agio e la comunicazione funziona bene, tanto da indurre i due protagonisti a ripetere nel tempo lo schema che ha soddisfatto entrambi; schema che potremmo chiamare " circolo virtuoso relazionale ", proprio per la sua tendenza a replicarsi. I circoli viziosi relazionali: una prigionia Bisogna però tenere conto del fatto che non sempre le cose vanno in questo modo. Possiamo ad esempio pensare al caso in cui qualcuno, attratto in un tentativo di comunicazione e non trovando questa corrispondenza, si sottrae alla comunicazione o, meglio, comunica la sua intenzione di non comunicare. Potrà evitare l'interlocutore, potrà dire espressamente che vuole essere lasciato in pace, potrà non farsi trovare e così via. Esistono però situazioni in cui ciò non è possibile, in cui i due sono obbligati a comunicare, come nel caso di moglie e marito, o di genitori e figli, o di insegnante e allievo, o di capo e subordinato. In tutti questi casi l'esistenza di legami vincola reciprocamente i due interlocutori. Accade allora che l'uno sollecita interventi che sono adatti a soddisfare le sue aspettative ed esigenze, ma che sono estranei o vanno contro alle esigenze dell'altro; quest'ultimo, di conseguenza, non aderisce alla richiesta. Il primo è però vincolato dal legame a potersi aspettare la risposta che gli serve da questo solo interlocutore per cui, spinto dal bisogno, è obbligato ad insistere, mentre l'altro insiste nel rifiuto. Si crea una situazione di blocco o di stallo, come direbbe l'appassionato di scacchi. Chi ha cominciato per primo? Una coppia di mezza età. Lui rientra dopo il lavoro. La moglie, come tutti i giorni, lo accoglie con un fuoco di fila di domande sulla giornata di lavoro e sui fatti avvenuti. Il marito risponde a monosillabi, lei insiste, lui si chiude e la situazione si fa tesa: l'uno in poltrona, l'altra in cucina. Immaginiamo di essere presenti alla scena e di rivolgerci alla signora per farci spiegare i motivi del suo fare così insistente. Ci risponde: " Sono costretta a comportarmi così dal mutismo di mio marito. In questo modo, se non altro, riesco a farmi dire le cose più importanti ed evitare che con il tempo finiamo per diventare due estranei. Se lui parlasse di più certo non sarei costretta a fargli tutte queste domande ". Al marito chiediamo di dirci il perché del suo comportamento così evasivo. " Come posso fare diversamente di fronte a questi continui interrogatori? Non mi va di essere indagato tutti i giorni in questo modo. Se lei la smettesse di fare tante domande, sarei più disponibile nei suoi confronti e parlerei più volentieri ". Questo episodio permette di fare due osservazioni molto importanti che riguardano molti casi di insuccesso nel funzionamento dei collegamenti vitali quando gli interlocutori sono legati tra di loro da un vincolo persistente. La prima si riferisce all'ostinazione che entrambi mettono nel loro modo di rivolgersi all'altro, proprio in quel modo che crea loro tante difficoltà. Questa ostinazione li induce a marcare con sempre maggior forza il tono del proprio intervento. Più lui si chiude e più lei fa domande. Più lei fa domande e più lui si chiude. Ritroviamo, esasperato da una ripetitività ossessiva, il circolo relazionale, questa volta vizioso: come prima, più di prima ... Una seconda conseguenza riguarda la difficoltà a risolvere questo genere di situazioni, dato che ciascuno dei due si aspetta dall'altro il primo passo: " Cesserò di farti domande quando parlerai di più "; " Parlerò di più quando cesserai di fare domande ". Come dire: " Sarò disposto a venire incontro al tuo bisogno di essere informata ( o di non essere sottoposto ad interrogatorio ) dopo che tu avrai soddisfatto il mio bisogno di non essere sottoposto ad interrogatorio ( o di essere informata ) ". Il meccanismo della motivazione É tempo di riconoscimenti in azienda. Boldrini è stato escluso dal numero dei premiati con un aumento di stipendio. A suo modo di vedere, questa è l'ennesima prova della scarsa considerazione che hanno per lui. In particolare il suo capo non dimostra nessun apprezzamento positivo nei suoi confronti. Boldrini si sente demotivato. Fa il suo dovere, ma non accetta di fare nessuno sforzo in più di quanto strettamente previsto dalla sua mansione. Non vengano a chiedergli piaceri. Dice tra sé: " Mi trattano così? Io li ripago della stessa moneta. Metterò impegno nel mio lavoro dopo che avranno fatto l'aumento anche a me! ". Il capo di Boldrini ha notato che negli ultimi tempi egli è stato escluso dagli incentivi. Gli ha più volte parlato per invitarlo a fornire una collaborazione più convincente, ma senza risultato apprezzabile. Si rende conto delle sue attese, ma non potrà soddisfarle se non dopo che Boldrini avrà mostrato di aver cambiato atteggiamento verso il lavoro. Ecco un altro circolo vizioso relazionale: Boldrini lavorerà meglio e di più solo dopo che avrà avuto l'aumento, l'azienda gli darà l'aumento dopo che lui avrà dimostrato di lavorare meglio. Quanto più Boldrini rimarrà fermo nella decisione di non dare una collaborazione convinta, tanto più l'azienda sarà indotta a non premiarlo, ma quanto più l'azienda continuerà a non premiarlo, tanto più sarà demotivato e collaborerà in modo inadeguato. Siamo sempre al cane che si morde la coda. A tutti i livelli Troviamo un esempio molto evidente di circolo vizioso relazionale nei rapporti tra fisco e cittadini. Più le tasse sono alte, più i cittadini - potendolo - sono indotti ad eludere il fisco. Più però i cittadini eludono le tasse, più il fisco è costretto ad aumentarle. " Cesseremo di aumentare le tasse quando i contribuenti faranno il loro dovere! " proclamano i ministri finanziari. " Pagheremo le imposte solo quando il governo alleggerirà la pressione fiscale! " dicono molti cittadini. Gli effetti di questa situazione di stallo sono sotto gli occhi di tutti. Con le migliori intenzioni Nelle famiglie in cui vivono persone che esagerano con l'alcool si nota spesso la presenza di circoli viziosi relazionali. In molti casi ( anche se questo non rappresenta la regola ) l'abuso di bevande alcooliche viene motivato dagli interessati con il bisogno di darsi un tono, di ricavare quel tanto di sicurezza in sé che non sanno altrimenti come trovare. Senza il bicchiere sembra loro di non riuscire a sentirsi all'altezza delle situazioni. Ben sappiamo che abusare nel consumo di alcool comporta grandi rischi per la salute, dato che il perverso meccanismo dell'assuefazione rende necessaria una quantità via via sempre maggiore di alcoolici per ottenere lo stesso livello di " tono " relazionale. In tempi anche abbastanza brevi si finisce così per diventarne dipendenti e non poterne quindi fare a meno, con conseguenze per il benessere psichico e familiare, oltre che fisico, facilmente intuibili. In queste condizioni, accade spesso che i familiari della persona interessata dal problema dell'alcool intervengano rimproverandola, controllandola nei suoi spostamenti e nelle sue spese, sottoponendola in continuazione a domande per sapere dove è stata e cosa ha fatto. Tutto ciò con l'evidente obiettivo di indurla a cambiare strada. Molto spesso, così facendo, e ovviamente senza volerlo, ottengono l'effetto contrario. Infatti, prevedendo di doversi aspettare osservazioni e pressioni, l'interessato ricorre all'alcool illudendosi che ciò lo aiuti a trovare l'energia e la sicurezza necessario per fronteggiare i familiari. Ecco scattata la molla del circolo vizioso relazionale: quanto più forti e frequenti sono i rimproveri, tanto maggiore è il ricorso all'alcool nella speranza vana di meglio riuscire a farvi fronte; quanto maggiore è il ricorso all'alcool, tanto più aumentano i rimproveri. Non a caso, recenti promettenti successi nella cura dell'alcoolismo sono resi possibili dal coinvolgimento nel trattamento anche dei familiari con lo scopo, tra l'altro, di facilitare il superamento proprio di questo genere di circoli viziosi relazionali. Il caso degli adolescenti Circoli viziosi relazionali sono presenti, e con effetti spesso drammatici, nelle famiglie con figli adolescenti. Per i genitori, avere in casa un figlio o una figlia adolescente è in certi casi un affare serio. Essi pensano con un po' di nostalgia a come si stava bene un tempo, solo un paio d'anni prima, quando venivano ascoltati, obbediti, seguiti. Ora invece è una discussione continua sui doveri scolastici, sull'uso del tempo libero, sulle compagnie frequentate, sugli orari ... Tutte quelle regole di convivenza che hanno permesso alla famiglia di organizzare fino ad allora con successo la vita comune sono messe in questione. Eppure di regole ce n'è bisogno, dicono i genitori, altrimenti la casa diventa un albergo in cui c'è chi va e c'è chi viene a piacer suo. La tentazione è quindi quella di tener duro e di ribadire l'impostazione familiare di sempre. Consideriamo però anche che questi figli sono stati messi al mondo nella prospettiva di vederli crescere e rendersi via via più autonomi. Padre e madre sarebbero i primi a lamentarsi nel caso in cui un figlio o una figlia ventenne fosse ancora attaccato alla loro gonna o ai loro calzoni. Il fatto è che molti adulti pensano che un ragazzo fino ad un certo giorno non abbia la capacità e la maturità necessarie per ragionare da solo e che quindi debba continuare ad obbedirli e che, improvvisamente, dal giorno successivo capacità e maturità, sbocciate in una notte, facciano la loro comparsa in modo da rassicurarli sul buon uso che egli farà fin da subito della sua nascente indipendenza. Dare autonomia ad un figlio, cioè metterlo in condizione di usare la sua mente per decidere da solo ciò che riguarda la sua vita, è invece un cammino fatto di tanti passi nel corso dei mesi e degli anni. Ed è un cammino in cui c'è da rischiare: ricordate quel giorno - ormai sono passati tanti anni - in cui per la prima volta faceste attraversare da solo la strada a questo figlio allora bambino? Ricordate l'ansia con la quale l'avete seguito con lo sguardo finché non raggiunse il marciapiede opposto? In quel momento rischiaste di perderlo; ma guai a non correre quel rischio: gli avreste negato l'opportunità di muoversi liberamente nell'abitato. Anche ora ci sono rischi da correre e talora sono rischi grossi, ma sono rischi cui non è permesso sottrarsi, perché il prezzo di un'eventuale rinuncia è il rallentamento del suo cammino verso la vita adulta. Questo cammino, che ha avuto un andamento pressoché regolare più o meno sin verso la fine delle scuole medie, ha subito in quel momento una brusca accelerazione che, spesso inattesa, può aver trovato impreparato qualcuno. La ragione di questo passaggio va cercata nei diversi ritmi di sviluppo delle facoltà mentali nel corso dell'infanzia e nei periodi successivi. Fino all'età corrispondente ai primi anni delle scuole medie, il funzionamento della mente è legato ai fatti pratici, concreti e gli stimoli che la mente stessa è in grado di trattare riguardano tutto ciò che passa attraverso i cinque sensi, soprattutto ciò che può essere visto o toccato. Di questo mondo del pensiero non fanno perciò ancora parte i ragionamenti astratti, come - ad esempio - quelli che permettono di stabilire criteri autonomi in base ai quali giudicare ciò che è bene e ciò che è male. Questi criteri, non essendo il bambino capace di elaborarli per conto suo, vengono semplicemente presi a prestito dai genitori. La sua propensione all'obbedienza nasce proprio dal fatto che la sua mente non è ancora capace di funzionare al livello necessario da metterlo in condizione di disobbedire ( se lo fa, è per negligenza, per imitazione o per capriccio, non per principio ). Verso i dodici anni, approssimativamente, i processi mentali cominciano a trasformarsi e a comprendere progressivamente anche ragionamenti che riguardano idee, concetti, opinioni, giudizi. Ciò permette al ragazzo di guardare alle cose del mondo non più solamente attraverso gli occhi dei genitori, ma anche con i propri occhi. Ed il mondo visto con gli occhi di un ragazzo o di una ragazza è diverso da come appare attraverso gli occhi di un adulto. Di qui le discussioni tra figli e genitori tipiche dell'adolescenza. I collegamenti vitali dei figli sono alimentati dal bisogno di usare le loro facoltà mentali di pensiero astratto da poco conquistate e dal bisogno quindi di elaborare idee e giudizi autonomi, mentre quelli dei genitori sono sostenuti dal bisogno di guidare la vita dei figli, di evitare loro esperienze negative, di sentirsi genitori responsabili. Il rischio di mettere in moto un circolo vizioso relazionale è dietro l'angolo: quanto più un adolescente cerca di far uso della sua nascente autonomia, tanto più i genitori possono sentire il bisogno di aumentare i loro controlli, nel timore che non ne faccia buon uso; quanto più i genitori controllano, tanto più l'adolescente è portato a reclamare la sua autonomia e a difenderla. Tutto ciò spesso in un crescendo, con una specie di rincorsa in cui, all'accentuarsi dell'atteggiamento dell'uno, corrisponde il radicamento del comportamento degli altri. Talvolta l'effetto di questo genere di circoli viziosi relazionali diventa talmente insostenibile da indurre i ragazzi alla fuga dalla famiglia: molti casi di allontanamento da casa da parte di adolescenti portati all'attenzione della cronaca sono l'ultimo drammatico atto tentato per rompere un circolo vizioso relazionale. Esiste un accorgimento che può aiutare molti adulti a non cadere nella trappola. Quando un ragazzo o una ragazza morde il freno o mette in discussione idee, impostazioni o disposizioni dei genitori, questi ultimi percepiscono facilmente tutto ciò come una mancanza di rispetto e di obbedienza verso di loro. Di conseguenza, la loro reazione è quella di esigere rispetto e obbedienza. Dopo quello che abbiamo detto, risulta evidente che le cose non stanno in questi termini. Non dobbiamo pensare che quel figlio ce l'abbia con loro, ma che egli stia cercando, forse anche sbagliando, la sua strada per diventare adulto. Se anche in questo caso, come in quello analogo esaminato parlando di comunicazione non verbale, gli adulti fossero capaci di non sentirsi chiamati in causa nel loro prestigio e nella loro autorità, sarebbe per loro molto più facilmente e soprattutto più serenamente accettabile il confronto, talvolta anche teso, con un adolescente che si trova tra le mani la novità per lui preziosa ed entusiasmante di una mente capace di funzionare da sola, una novità che è impaziente di collaudare sul palcoscenico della vita. Come uscirne Cosa fare quindi per prevenire il nascere di circoli viziosi relazionali o, quando ci si incappa, per uscirne? L'accorgimento fondamentale è quello di aver ben presente che si tratta di un circolo, cioè di una situazione in cui io faccio o dico qualche cosa capace di alimentare, in un modo che a me sfugge, proprio quella reazione del mio interlocutore che mi disturba e che a sua volta sembra costringermi a ripetere ciò che ho fatto o che ho detto. Avere questa avvertenza permette di esaminare meglio e più da vicino il proprio involontario contributo nell'alimentare e nel far vivere i circoli viziosi relazionali in cui siamo coinvolti. La signora Daletti è sempre indaffarata con i due figli ancora piccoli. Dedica loro tutto il suo tempo e le sue energie per il fatto che è lasciata molto sola dal marito, il quale, dopo il lavoro, sta spesso fuori casa. Quest'ultimo non si sente molto invogliato a tornare a casa, perché sa già che troverebbe la moglie tutta presa dai suoi doveri di madre e che, dopo cena, addormentati i bambini, sarà così stanca da addormentarsi a sua volta in poltrona. La signora Daletti si lascia assorbire dalle cure materne perché il marito è assente e non collabora nell'allevamento dei figli; il marito è assente e non la aiuta perché lei è troppo presa dal suo ruolo di madre. Come in tutti i circoli viziosi relazionali anche in questo caso entrambi sono portati ad accentuare il proprio comportamento, provocando così un'analoga accentuazione nel comportamento dell'interlocutore: quanto più il marito è assente, tanto più la signora dovrà dedicarsi ai figli; quanto più quest'ultima è impegnata con i figli, tanto più il marito cercherà di stare fuori di casa. Riconoscere la circolarità di questa situazione, significa per la signora accorgersi che dipende anche da lei se il marito esce più di quando lei non vorrebbe. Così come il signor Daletti può accorgersi che lui stesso, non collaborando a causa della sua assenza, contribuisce a creare le condizioni per cui la moglie non trova più il tempo e le energie per loro due. Non si aspetti, il signor Daletti, di veder cambiare la loro vita di coppia dopo due pomeriggi dedicati ai figli, come non sia altrettanto ingenua la signora da sperare che tutto si normalizzi dopo che, di tanto in tanto, trova il modo di dedicare tempo a suo marito ed a se stessa. C'è bisogno di tempo per disinquinare i collegamenti vitali dall'abitudine di aspettarsi la ripetizione del solito schema e per far rinascere la fiducia. Non servono nemmeno dei mesi. Serve quel tanto di costanza che assicuri del nuovo corso delle relazioni. Qualcuno potrebbe dire altrimenti che ciascuno dei due deve " prendersi la sua parte di colpa ". Vorremmo evitare di ragionare in questi termini, perché allora dovremmo anche dire che entrambi hanno diritto a far valere una parte di ragione e ciò finisce per lasciare le cose al punto di partenza. É meglio restare fuori dal campo minato delle ricerche sull'innocenza e la colpevolezza, per preoccuparci delle cause e delle conseguenze. La causa non è una colpa: dire che il signor Daletti contribuisce ad alimentare il circolo vizioso relazionale con la sua ridotta presenza in famiglia, non significa dire che è colpa sua, ma significa dire che, da persona intelligente, se vuole, può fare il primo passo ed intervenire per la parte che dipende da lui sulle cause del loro malessere di coppia. Allo stesso modo per la moglie. Resta il fatto che, di un eventuale coinvolgimento in un circolo vizioso relazionale, bisogna prima di tutto accorgersi. Un buon indicatore di questa indesiderata condizione consiste nella presenza di recriminazioni da parte nostra sull'ostinazione con cui sentiamo che qualcuno lascia insoddisfatte determinate nostre aspettative. Si tratta allora di guardare ai nostri stessi comportamenti: ci possiamo così accorgerò che all'intransigenza altrui fa in molti casi da contrappunto un'involontaria ma almeno altrettanto miope insistenza da parte nostra in atteggiamenti che provocano effetti penalizzanti anche per il nostro interlocutore. Per quale motivo dovrebbe essere proprio lui a venirci incontro per primo? Nell'ultimo capitolo di questo libro si prenderà in esame proprio questo interrogativo. Per riassumere All'interno dei collegamenti vitali si stabiliscono meccanismi circolari in forza dei quali, all'accentuazione di un certo comportamento da parte di una persona, corrisponde un'analoga accentuazione del corrispondente comportamento di reazione dell'altra. Questi meccanismi hanno la proprietà di alimentarsi in modo automatico e quindi di diventare ripetitivi nel tempo. Possiamo chiamarli " circoli virtuosi relazionali " quando contribuiscono a far stare bene chi ne è implicato, " circoli viziosi relazionali " se fanno stare male. Entrambe le persone coinvolte, senza rendersene conto, contribuiscono con il proprio comportamento a tenere in vita i circoli relazionali virtuosi o viziosi. Riconoscere che essi si mantengono anche grazie al proprio contributo, apre la possibilità per ciascuna delle due di fare il primo passo per cercare, se necessario, di eliminarli. Stare al proprio posto o mettersi in concorrenza? Quarta complicazione Superiorità o inferiorità? Un racconto orientale narra di un pescatore famoso per la sua abilità. Amava e rispettava il fiume ed il fiume lo ricompensava svelandogli tutti i suoi segreti. Così aveva imparato a conoscere le abitudini dei pesci meglio di chiunque altro e sapeva perciò scegliere dove e come farli abboccare più facilmente. La sua bravura era arrivata al punto da permettergli di prevedere ancor prima di gettare l'amo la specie e le dimensioni del pesce che avrebbe abboccato! L'ignoto narratore che ha fatto arrivare questa storia sino a noi racconta che un giorno, mentre il pescatore era intento a pescare, gli si avvicinò un mendicante, che con voce lamentosa gli chiedeva l'elemosina di uno dei pesci da lui già catturati: " Tu hai di che sfamarti! Pensa a me che non ho nulla da mangiare! ". Il pescatore non alzò neppure lo sguardo dal fiume e non raccolse in nessun modo queste implorazioni. Dopo qualche momento, viste inutili le sue insistenze, il mendicante prese ad allontanarsi recriminando sulla sua sfortuna per aver incontrato un così grande egoista. Fatto qualche passo, si sentì inaspettatamente raggiungere dal pescatore. Egli aveva abbandonato sulla riva la sua canna e lo stava invitando a seguirlo. Gli andò dietro stupito. Entrarono in un boschetto di bambù ed il pescatore si mise a spiegare i criteri con i quali deve essere scelta una canna perché sia adatta alla pesca. Una volta trovatane una che andasse bene, la tagliò e, mentre ne eliminava le foglie, indicò un arbusto rampicante, una specie di liana, dicendo che dal suo fusto flessibile possono essere facilmente ricavate delle fibre sottili e resistenti, molto adatte a fare da lenza. Da un cespuglio spinoso, rompendo opportunamente un rametto, ricavò un amo acuminato che legò, zavorrato con una pietruzza, alla lenza stessa. Con una bacca selvatica secca e la penna di un uccello costruì un galleggiante. Infine, il pescatore mostrò al mendicante come trovare sotto le pietre o sotto i tronchi caduti larve di insetti che servissero come esca. Qualche minuto dopo i due erano seduti fianco a fianco in riva al fiume, ciascuno con la sua canna da pesca in mano. L'attesa non fu lunga. Ad un certo punto all'amo del mendicante abboccò un bei pesce. Mentre l'uomo staccava con aria soddisfatta ed ancora incredula il pesce dall'amo, il pescatore prese a dirgli: " Se ti avessi dato in elemosina uno dei miei pesci, ti saresti sfamato oggi, ma domani avresti avuto di nuovo fame e non avresti saputo come procurarti del cibo. Adesso sai pescare. Tutte le volte in cui non avrai di che mangiare, saprai come procurartene da solo ". Tralasciamo ogni intento moralistico scontato, per soffermarci ad esaminare come i due protagonisti si sono posti l'uno rispetto all'altro. Il mendicante ha assunto nell'episodio una posizione di sottomissione basata sul fatto di considerarsi meno valido del pescatore nell'arte di procurarsi il cibo, probabilmente per indurlo alla compassione ed ottenere l'elemosina. Quest'ultimo avrebbe potuto adattarsi a questo modo di impostare lo scambio, accettando la posizione di superiorità attribuitagli dal mendicante. In questo modo l'incontro avrebbe avuto come protagonisti un interlocutore ( il mendicante ) per sua stessa scelta in atteggiamento di inferiorità e l'altro ( il pescatore ) in un corrispondente ruolo di preminenza. Entrambi si sarebbero riconosciuti in queste differenti posizioni ed entrambi avrebbero giudicato accettabile questo fatto. Il pescatore avrebbe dato uno dei suoi pesci e tutto sarebbe finito. Terminato lo scambio, la constatazione delle loro diverse capacità di far fronte alle esigenze della sopravvivenza ne sarebbe uscita confermata e rafforzata. Il pescatore ha però replicato all'atteggiamento sottomesso del mendicante basandosi su un presupposto diverso. Egli ha pensato che, una volta istruito, il mendicante sarebbe stato capace di cavarsela da solo. In questo modo i due protagonisti hanno assunto nella loro relazione un'altra posizione: non più quella in cui l'uno è superiore e l'altro sottomesso, ma quella che vede entrambi capaci di porsi sullo stesso piano. Non lasciamoci tentare dal giudicare se sia migliore o peggiore l'approccio proposto dal mendicante o quello nato dalla reazione del pescatore. Entrambi offrono la possibilità di impostare in modo soddisfacente i loro comportamenti. Ci troviamo invece di fronte all'alternativa presente in tutte le situazioni relazionali rappresentate dai nostri collegamenti vitali: accettare l'atteggiamento di inferiorità ( come in questo caso ) o di superiorità di un interlocutore ( come può accadere in alcune circostanze ), o fare qualche cosa per modificare il peso dei rispettivi ruoli? Nel caso di qualcuno che voglia mostrarsi superiore a noi: lasciarlo fare o raccogliere la sfida e mettersi in competizione? La diversa idoneità individuale delle persone nelle circostanze più disparate della vita o la spinta di condizionamenti provenienti dalla società, fanno sì che esse regolino i loro reciproci rapporti sulla base della concorrenza ( cioè sul tentativo di dimostrare di essere altrettanto o più bravi degli altri ) o sulla base dell'accettazione della differenza ( e quindi sul persistere della disuguaglianza ), che finisce per attribuire gradi di prestigio e di iniziativa diversi ai due interlocutori. I ruoli familiari L'evoluzione storica della famiglia occidentale offre illuminanti esempi di queste due modalità nell'impostare le relazioni interpersonali. La famiglia che abitualmente definiamo tradizionale presentava ruoli ben definiti ed assai differenziati. L'uomo era per lo più il solo ad avere un lavoro esterno ed era pertanto l'unica fonte di guadagno: ciò gli conferiva prestigio e potere su moglie e figli. Egli rappresentava l'autorità da rispettare e da obbedire. Alla donna erano riservate le cure della casa e l'educazione dei figli. Per l'opinione comune queste erano incombenze di poca importanza, non avendo immediato rilievo economico, per cui ad essa toccava un ruolo di sottomissione. Doveva essere l'angelo del focolare che attendeva fedelmente questo marito, cavaliere senza macchia e senza paura, per servirlo ed assecondarlo. La vita della coppia, in tutte le sue manifestazioni, ne era condizionata. La donna, per intima accettazione di questa posizione di sottomissione o a causa della pressione sociale che esigeva da lei questo atteggiamento, regolava i suoi comportamenti di conseguenza. D'altra parte, il marito di una casalinga, interpellato sull'occupazione della moglie, non dice ancor oggi: " Oh, non fa niente, è una casalinga? ". In tempi più recenti abbiamo visto e stiamo vedendo le donne misurarsi con gli uomini nei più diversi campi di attività e, anche se non sempre, a tutti i livelli di responsabilità, acquistando consapevolezza e peso diversi nei riguardi dell'uomo e quindi all'interno della coppia. Di conseguenza, nessuna incombenza familiare, se si esclude quella della maternità biologica, è più di competenza esclusiva della donna, così come da nessun compito o responsabilità può considerarsi esentato il maschio. Mentre la coppia tradizionale presupponeva la constatazione e l'accettazione di differenze molto nette tra i ruoli sessuali, oggi la relazione a due tende, anche se con fatica, a basarsi sulla quasi totale intercambiabilità di quelle incombenze in passato considerate tipicamente maschili o femminili. Anche il cambiamento nel rapporto tra genitori e figli man mano che crescono si collega ai due schemi di comportamento. Finché i figli sono piccoli prevalgono i comportamenti che sottolineano le differenze esistenti tra adulti e bambini per quanto riguarda esperienza, maturità ed autonomia. Con il tempo, particolarmente nel corso dell'adolescenza, i figli tendono a esigere una considerazione più adulta e quindi a cercare progressivamente di porsi nei riguardi dei genitori su un piano sempre più simile a quello adulto. No ai ruoli rigidi Ci si può chiedere se in una coppia sia più consigliabile lo schema superiorità/sottomissione oppure quello dell'emulazione, o quale dei due sia più adatto nell'educazione. L'osservazione delle famiglie che riescono a stare bene permette di coglierne una caratteristica molto significativa sotto questo profilo: in queste famiglie tutti i membri sono capaci e sono disponibili a utilizzare di volta in volta ed a seconda delle circostanze entrambi gli schemi. C'è il momento in cui un genitore si rivolge ad un figlio da una posizione di superiorità ed il momento, anche ravvicinato nel tempo, in cui egli accetta di mettersi in discussione, in virtù di una maggiore competenza che un figlio - anche prima dell'adolescenza - può avere in un campo specifico ( ad esempio nello sport o per la scuola ). Così anche per certi aspetti della vita matrimoniale le rispettive caratteristiche individuali possono suggerire la temporanea superiorità dell'uno o dell'altra, senza che questo crei condizioni di definitiva sudditanza. In una diversa circostanza i ruoli si possono capovolgere in modo del tutto naturale e senza alcuna forzatura, così come può nascere un confronto che non è vissuto come un attentato alla dignità o ai meriti di nessuno. Sono considerazioni queste che valgono per qualsiasi collegamento vitale, anche se estraneo alla famiglia ed agli affetti. Nel mondo del lavoro stesso si è passati dall'applicazione rigida e sistematica della direttività da parte dei responsabili, quindi da uno schema di rapporti fortemente caratterizzati nel senso della superiorità/sottomissione, a stili di gestione più flessibili secondo i quali, fatto salvo il riconoscimento del ruolo dei supervisori ai vari livelli, trovano spazio la discussione, il confronto e la ricerca di soluzioni condivise. Dove ciò è stato applicato, si è assistito al miglioramento del clima degli ambienti di lavoro e, come diretta conseguenza, dei risultati aziendali. L'istituzione dei circoli di qualità o dei gruppi di lavoro per il miglioramento o di altri analoghi strumenti organizzativi che prevedono il coinvolgimento attivo e propositivo anche di chi ha compiti di tipo esecutivo come l'impiegato d'ordine o l'operaio, va considerata sotto questa luce come portatrice di interessanti opportunità per la qualità della vita lavorativa. I collegamenti vitali che sono retti dall'applicazione rigida e statica nel tempo di uno solo di questi schemi comportano invece sempre l'insorgere di guai. Può essere un marito che si arrocca in una posizione di superiorità ( ho ragione io e basta ), cercando di costringere la moglie in una condizione di sudditanza, tipica del marito " vecchia maniera "; o di una moglie che reagisce aprioristicamente a quello che ritiene essere lo strapotere sociale del maschio, innescando così il meccanismo relazionale della competizione. Di qui la discussione accesa, il litigio, talvolta la crisi. Non più quindi un flessibile avvicendarsi nell'impiego degli schemi relazionali, ma una competizione, qualche volta senza quartiere, di ciascuno dei due per costringere caparbiamente l'altro all'interno di una propria impostazione rigidamente precostituita. Genitore, adulto, bambino Alcuni studiosi descrivono questi stessi fenomeni affermando che, all'interno di una relazione, ciascuno dei due può scegliere un atteggiamento da " adulto ", da " genitore " o da " bambino ". Se entrambi scelgono in una certa circostanza di utilizzare il modo adulto ( cioè ragioneranno insieme, collaboreranno da pari a pari, si porranno di fronte alle difficoltà in modo realistico ), tutto funzionerà a dovere. Se uno dei due decide di porsi verso l'altro nell'atteggiamento di un genitore ( cioè spiegherà come fare, darà consigli, richiamerà regole, proteggerà, criticherà ... ) e l'altro sceglie come risposta una posizione filiale ( si mostrerà sottomesso, obbedirà ), entrambi si troveranno d'accordo nelle rispettive posizioni. I guai nascono quando i due non sono d'accordo, quando ad esempio l'uno si ostina a dare consigli o ordini ( atteggiamento genitoriale ) e l'altro vuole ragionare ( atteggiamento adulto ), o quando uno dei due cerca collaborazione ( atteggiamento adulto ) e l'altro ha voglia di scherzare ( atteggiamento da bambino ), o, ancora, il primo rimprovera l'altro ed il secondo vuol rimproverare il primo ( entrambi si mettono nell'atteggiamento genitoriale cercando di collocare in posizione di bambino l'interlocutore ). Questi studiosi arrivano anch'essi a concludere che l'equilibrio e l'armonia relazionale si ottengono ricorrendo di volta in volta a ognuno di questi atteggiamenti, scegliendoli in base alle caratteristiche della situazione, alle abilità richieste nella circostanza particolare, ai livelli di capacità rispettivamente posseduti, al tipo di sollecitazione proveniente dall'interlocutore e così via. Tutto ciò mantenendo la consapevolezza e la libertà interiore che non si tratta di schemi definitivi, decisi una volta per tutte, ma del modo che si giudica più adatto per vivere quella certa situazione, con quella certa persona, in quel certo momento. Per altri momenti o altre circostanze, anche con la stessa persona, lo schema relazionale più adatto può essere un altro ed è interessante concedere a se stessi ed al proprio interlocutore la libertà di cambiare: da un atteggiamento adulto passare ad uno bambino o a quello genitore e viceversa, non per capriccio, ma per dar vita alle condizioni più adatte. La strada da privilegiare consiste nel lasciar convivere dentro di sé questi atteggiamenti, di rispettarli nella convinzione che non ne esiste uno migliore o più valido degli altri, ma che tutti e tre vanno valorizzati per la insostituibile utilità di ciascuno di essi in vista del benessere relazionale nostro e dei nostri interlocutori. Per riassumere Possiamo regolare i nostri rapporti con le persone accettando il ruolo di superiorità o di inferiorità che esse ci attribuiscono, oppure rifiutandolo. In questo secondo caso ha inizio una competizione per decidere chi dei due occuperà il ruolo conteso. La competizione ci può portare a dare più importanza all'obiettivo di piegare il nostro concorrente rispetto a quello di trovare una reale via di uscita dalla situazione. L'equilibrio e l'armonia relazionale nei riguardi di qualcuno si ottengono accettando di occupare, a seconda delle circostanze, sia ruoli in cui prevaliamo che ruoli in cui riconosciamo la sua superiorità. Non si può non comunicare Quinta complicazione Strano, ma vero Avete presenti le tre scimmiette sagge, una delle quali si copre la bocca con le mani, l'altra gli occhi, la terza si tappa le orecchie? Sono le scimmiette che non vogliono dire, non vogliono sentire, non vogliono vedere. In una parola, non vogliono comunicare. Ma, a dispetto di questa loro intenzione, noi percepiamo la loro volontà e ciò sta a significare che comunque l'hanno a noi comunicata. Non vogliono comunicare e, proprio nel momento in cui decidono di non farlo, non hanno modo di evitare di comunicarcelo: comunicano di non voler comunicare. Il lettore perdonerà questo modo complicato e un po' bizzarro di formulare il pensiero, scelto con lo scopo di sottolineare proprio l'impossibilità per chiunque di sottrarsi alla comunicazione. Non è possibile non comunicare. Qualche esempio ci servirà per rendercene conto dal vivo e per cogliere le conseguenze pratiche di tale stato di cose. Il rumore del silenzio Il signor Tarebbi ha appena ricevuto un cartoncino di auguri natalizi da un lontano parente con cui si sono interrotti i rapporti da ormai lunghissimo tempo. Si stupisce di questa inaspettata attenzione, ma decide di non rispondere, cioè di non comunicare. Il parente in questione probabilmente attende che gli auguri vengano ricambiati e, notato dopo qualche tempo che ciò non avviene, capisce che il suo tentativo di riallacciare i rapporti non ha avuto buon esito. Pur pensando di non comunicare, il signor Tarebbi ha quindi comunicato almeno la sua intenzione di non comunicare. Accade con una certa frequenza di leggere che i calciatori di una certa squadra hanno indetto il cosiddetto " silenzio stampa ", cioè hanno deciso di non comunicare con i giornalisti. A giudicare dalla quantità di commenti suscitati sulle pagine dei quotidiani da questo genere di decisioni, si ha la misura di quanto poco silenzioso sia questo tentativo di non comunicare. E ora di cena a casa Calvisi ( padre, madre ed una figlia di nove anni ). Il padre sta richiamando la figlia in modo piuttosto energico a causa del ritardo con cui quest'ultima si è presentata a tavola, nonostante sia stata chiamata più volte. La signora Calvisi giudica in cuor suo un po' eccessiva la severità del marito in questa circostanza: non le sembra che il comportamento della figlia, per quanto non corretto, sia così grave da richiedere tanta attenzione. Padre e madre già in altre occasioni non si sono trovati d'accordo sui metodi educativi e ne sono nate discussioni in presenza della figlia, che la signora questa volta vuole evitare a tutti i costi. Decide perciò di non intervenire. Anzi, approfittando del fatto che è venuto a mancare il pane in tavola, si alza per prenderne nel cucinino, dove prolunga volutamente di qualche istante la sua permanenza proprio per evitare di interferire. Tornata a tavola si accorge di essere bersagliata da occhiatacce del marito. Terminata la cena e ritornata in camera la figlia, egli la apostrofa duramente: " L'avevo capito, sai, che non sei mai d'accordo su come fare con la bambina! ". " Ma come? - replica lei - se non ho detto nulla, non ho nemmeno aperto bocca! ". Certo, l'intenzione di non comunicare c'era ed era anche una intelligente intenzione. Purtroppo era anche impossibile da realizzare. Se fosse rimasta a tavola, ciò sarebbe forse stato interpretato come un avallo della posizione del marito; alzandosi ha fatto capire le sue riserve. In ogni caso ci sarebbe stata comunicazione. La situazione, spesso sfruttata dagli umoristi, in cui il marito dimentica l'anniversario di matrimonio, è un esempio eloquente di questo genere di lacci in cui ci si impiglia comunicando. Infatti, mentre il marito non comunica con l'atteso mazzo di fiori o con un regalo o con un'attenzione, segnala anche di essersi dimenticato della ricorrenza. Come si vede, non dire o non fare nulla in casi come questo, è tutt'altro che assenza di comunicazione. Gigi ed Alfio sono due fratellini piuttosto vivaci. Giocano volentieri insieme, ma ogni tanto bisticciano, cosa che succede d'altra parte alla maggior parte dei fratelli. Oggi pomeriggio tutto è tranquillo, quando ad un tratto dalla loro cameretta si levano pianti e strilli. La mamma accorre immediatamente, getta uno sguardo alla situazione, vede che si tratta di uno dei soliti bisticci, decide di non intervenire e se ne ritorna alle sue faccende. Non ha detto nulla, per cui sembrerebbe non aver comunicato, ma i due bambini hanno subito smesso: evidentemente qualcosa è stato loro segnalato che li ha indotti a cambiare comportamento. Anche se la madre non si fosse distolta dai suoi lavori neanche per un attimo, ciò sarebbe stato un messaggio, interpretato magari come una implicita autorizzazione a continuare ad accapigliarsi. Gli stessi organismi sociali devono fare i conti con questa scomoda proprietà della comunicazione. Il silenzio di un politico di primo piano su una questione di rilevanza nazionale, di un governo a riguardo di un problema interno o internazionale, di un sindacato o di un imprenditore per rapporto a fatti economici o occupazionali, non è assenza di comunicazione. In altre parole, questi protagonisti sociali, tacendo, cioè volendo non comunicare, di fatto segnalano la loro intenzione di non coinvolgersi o di non volersi assumere responsabilità e questo può essere un messaggio di grande rilevanza, se attribuito a chi, come questi attori sociali, si propone come rappresentante ed interprete della sensibilità collettiva. Il silenzio non è quindi mai assenza di messaggi, essendo il silenzio stesso un messaggio. Il fatto curioso è che il silenzio, proprio in quanto comporta l'astensione totale da parte di chi tace dal proporre riferimenti, spesso i più impensati ed imprevedibili, lascia campo libero agli interlocutori nel cercarne i significati. In questo modo un silenzio, forse dettato da ragioni di prudenza o di attesa di maggiori e più dettagliate informazioni, si presta alle più curiose e talvolta pericolose interpretazioni. Chi tace, acconsente? Bisogna a questo punto segnalare uno svarione madornale in cui si può essere indotti dalla saggezza popolare. Si dice infatti che " chi tace acconsente ". Le considerazioni appena sviluppate fanno invece dire che chi tace, tace e basta. Nessuno può essere certo che il silenzio di chi tace significa che è d'accordo. Le sorprese cui sono andati incontro coloro che hanno pensato nelle diverse epoche e nei diversi contesti di farsi portavoce delle cosiddette maggioranze silenziose ne sono una chiara dimostrazione. Ritornando a riflettere sull'inevitabilità del comunicare, finiamo a questo punto per concludere come qualsiasi nostro comportamento rappresenta un messaggio, che viene recepito da chi ci circonda: un gesto, un atteggiamento, un silenzio, un'assenza, cosi come un tono di voce, un certo modo di muoversi, di camminare, un'espressione del volto, sono altrettanti messaggi che emettiamo in modo deliberato o senza esserne completamente consapevoli. Far finta di niente non serve Gli esempi riportati nei capitoli precedenti descrivono - tra le altre - alcune situazioni in cui i protagonisti, pur avvertendo l'esistenza di qualcosa che non va in un loro rapporto interpersonale, preferiscono evitare di dare risalto alla cosa; fanno perciò finta di niente, oppure cercano di far capire in modo indiretto il loro disaccordo. E probabilmente il timore di complicare ancor più i rapporti a suggerire di non parlare chiaro. Nel primo caso si ricorre al silenzio, nel secondo ci si mette a metà strada tra dire e non dire, una specie di mezzo silenzio. Non si può non comunicare, per cui anche questi silenzi o questi mezzi silenzi finiscono comunque col lasciar capire qualcosa, ma in un modo tanto vago da prestarsi al rischio di inconvenienti. Si consideri ancora che a tacere il proprio disagio, a mandar giù i rospi come si suoi dire, si riesce di solito per periodi molto brevi. Con il passare del tempo ciò comporta infatti quasi per tutti un tale accumulo di insoddisfazione e di tensione da causare reazioni il più delle volte tanto improvvise quanto incontenibili quando arriva l'ultima proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. Come fare allora a manifestare chiaramente il proprio pensiero ( dando così voce al silenzio ) ed al tempo stesso evitare di mettere in crisi i propri collegamenti vitali? Cominciamo con il considerare come in questi casi il modo più spontaneo per comunicare il nostro disagio consisterebbe probabilmente in un atto di accusa verso chi ci mette in difficoltà. Facilmente il nostro interlocutore di fronte ad una nostra accusa reagirebbe con un'altra accusa o con un'aggressione, allo scopo, dal suo punto di vista, di difendersi. Da un lato è perciò necessario riuscire a dirgli che ci fa stare male o che ci fa sentire impediti, dall'altro però occorre evitare di metterlo in stato d'accusa. Si può ottenere questo risultato avendo cura di non sottolineare che lui/lei fa qualcosa di sbagliato o che è cattivo perché ci danneggia, ma di segnalare piuttosto che il problema consiste nel nostro stare male quando lui/lei fa o dice quella certa cosa. In altre parole, non gli chiediamo di comportarsi diversamente perché sino ad ora ha sbagliato o si è reso colpevole del nostro disagio, ma lo invitiamo a fare altrimenti per evitarci una sofferenza. Non si pensi ad un vuoto giro di parole fine a se stesso. Un esempio concreto aiuterà a meglio capire la portata di questa impostazione. Erica e Max sono sposati da qualche anno. Sono una coppia ben affiatata, con molti interessi in comune che rendono ancor più saldo il loro legame. Anche i rapporti con le rispettive famiglie di origine sembrano andare bene, salvo che per un particolare. Erica ha notato infatti che, quando sono in visita ai suoceri e lei prende posizione su qualche argomento in discussione, Max evita accuratamente di appoggiarla: tace, lasciando a lei di vedersela da sola. Questo fatto la fa stare male, ma, ad eccezione di qualche timido tentativo senza esito, ha sempre evitato di parlarne con il marito per la paura di creare incomprensioni e tensioni tra loro due. Preferisce sopportare, anche se con il passare del tempo le riesce sempre più difficile tacere. Cosa consigliare a Erica? Potremmo suggerirle di aspettare un momento in cui entrambi sono rilassati per chiedere prima di tutto al marito il suo consenso a parlare dell'argomento, dicendo con tono pacato: " Vorrei parlarti di una cosa che riguarda entrambi. Posso farlo adesso? O quando hai un minuto di tempo? ". Registrato il consenso da un'affermazione esplicita ( " Certo, dì pure "! ) o da una mimica di incoraggiamento del volto del marito, potrebbe entrare nel discorso cominciando col descrivere l'ultima occasione in cui si è sentita in difficoltà: " Martedì sera quando siamo stati a cena dai tuoi e si parlava delle difficoltà della donna che lavora, volevo far capire, soprattutto a tua madre che è sempre stata casalinga, che la mia scelta di lavorare in ufficio non è per moda o per conformismo, ma è perché io ci credo. Ti ho guardato per cercare aiuto, mi sono spostata sedendomi vicino a te nella speranza che tu mi appoggiassi, ma tu hai fatto finta di niente. Questo mi ha fatto sentire sola e a disagio, anche perché mi hai sempre detto di pensarla come me ". Qui dobbiamo mettere subito in guardia Erica contro un pericolo: quello di accusare il marito. Sarebbe infatti molto sbagliato se dicesse: " Quando sei con i tuoi genitori non hai più il coraggio di pensare con la tua testa ". Questa frase comporterebbe molto facilmente una reazione negativa di Max ed è proprio questo genere di reazioni che lei sembra voler evitare con il silenzio tenuto sino ad ora. Consiglieremmo quindi ad Erica di proporre al marito qualche nuovo atteggiamento, come ad esempio: " In una prossima occasione come questa, cosa ne diresti se tu, per aiutarmi a sentirmi meno a disagio, appoggiassi solamente la tua mano sulla mia, mentre parlo? In questo modo, anche senza che tu dica niente, mi sentirei meno sola, perché capirei di avere il tuo sostegno. O tu come pensi che si potrebbe fare? ". Come si può agevolmente notare, ad Erica è stato consigliato di comportarsi secondo il seguente schema: • cercare la disponibilità del marito a parlare della questione ( " Vorrei parlarti di una cosa che riguarda entrambi " ); • descrivere in modo preciso e concreto ciò che ha creato disagio ( " ti ho guardato ", " mi sono spostata ", " hai taciuto " ); • descrivere le sensazioni provate nella circostanza, evitando accuratamente di incolpare il marito ( " mi sono sentita sola e a disagio " ); • proporre un accorgimento per il futuro ( " appoggia la tua mano sulla mia " ); • motivare questo accorgimento ( " capirei di avere il tuo sostegno " ). Seguendo questa successione di messaggi si sono ottenuti, punto per punto, questi effetti: • si è evitato di irrompere nella vita del marito con un'improvvisa e, dal suo punto di vista, imprevista lamentela, che avrebbe potuto indurlo a rifiutare il dialogo o ad assumere una posizione rigidamente difensiva; • si è evitato accuratamente che la moglie lanciasse accuse, per mantenere centrata l'attenzione esclusivamente sulla descrizione di fatti concreti; • da parte della moglie non si sono assolutamente formulati giudizi, per mettere invece in evidenza le emozioni ed i sentimenti che ha sentito nascere in lei; vale a dire: emozioni e sentimenti non sono presentati come una conseguenza di un errore o di un'incapacità del marito, ma come un fatto legato a lei medesima, alla sua personale sensibilità ( quasi " ... abbi pazienza, sono fatta così " ); • il discorso non si è fermato ad una lamentela ( la lamentela a sé stante facilmente può essere percepita come un atto di accusa ), ma la moglie ha fatto una proposta alternativa e trattandosi di una proposta, non di una richiesta o di un'imposizione, essa è stata formulata in termini interrogativi e presuppone la libertà del marito di mostrarsi d'accordo oppure no; • si è offerta una motivazione precisa alla proposta formulata, che altrimenti potrebbe essere interpretata come un capriccio o una rivalsa. Come si può agevolmente notare, servirsi di un tale schema relazionale permette - seppure con le necessario attenzioni - di parlare di argomenti anche molto delicati e di tenere contemporaneamente sotto controllo i rischi che nascono inevitabilmente quando tra due persone si fa venire a galla qualcosa che non va. Si tratta, in ultima analisi, di un'efficace alternativa al silenzio, i cui pericoli descritti nel presente capitolo sono a loro volta tutt'altro che trascurabili. Vivere è comunicare Affermare che comunicare è inevitabile porta dunque a dire che comunichiamo per il fatto di esistere e che il vivere stesso è comunicazione costante ed ininterrotta. Abbiamo cominciato a comunicare quando i nostri genitori si sono accorti di averci concepito: il primo atto comunicativo - ovviamente inconsapevole - è consistito nell'influenzare con la nostra esistenza l'equilibrio ormonale dell'organismo di nostra madre, in modo da sospenderne il ciclo mensile e " dire " così che avevamo cominciato a vivere. Da allora è stato un susseguirsi ininterrotto di comportamenti, suscitati da impulsi interni o da stimoli provenienti dall'esterno, recitati sul palcoscenico della vita, davanti a molti spettatori interessati a cogliervi le nostre intenzioni e le nostre idee. E la nostra vita tutta intera che " parla " agli altri. E gli altri " ascoltano " la nostra vita. Vivere e comunicare rappresentano un tutt'uno: è questo il morivo per il quale non è possibile non comunicare. Per riassumere E impossibile non comunicare. Anche tacendo, o allontanandoci da qualcuno, o essendo assenti, comunichiamo: esprimiamo la nostra intenzione di tacere, di allontanarci o di non voler avere nulla a che fare. Tacere è spesso deleterio quanto parlare. Ma c'è un modo di uscire dal dilemma: comunicare il proprio problema senza accusare l'altro di esserne causa, premurandosi di offrire delle alternative concrete al nostro interlocutore. Il paradosso, trabocchetto relazionale Giochi pericolosi " Non leggete questa frase ". Chi prova a rispettare questa prescrizione si accorge che ciò è impossibile. Infatti, senza leggerla non si può sottostarvi e se la si legge, si va contro il divieto. Si prova la sgradevole sensazione di essersi impigliati in un gioco da cui non è possibile districarsi senza sbagliare. Eccoci entrati nel mondo della comunicazione paradossale, cioè di quel tipo di comunicazione comportante di trovarsi di fronte, come nell'esempio citato, ad una richiesta la cui soddisfazione esige comportamenti che producono di fatto e senza via di scampo la sua trasgressione. Non si pensi che si tratti di giochetti malignamente congegnati dagli studiosi in vista di astruse dimostrazioni: ci si trova piuttosto di fronte ad un modo di comunicare presente in misura insospettata nella vita quotidiana della maggior parte delle persone. I signori Rivoni, marito e moglie, sono nella sala d'attesa del medico. Il marito da qualche tempo lamenta un malessere generalizzato: ha poco appetito, accusa bruciori allo stomaco, si sente debole e depresso. Mentre stanno aspettando il loro turno, si china verso la moglie e le dice sottovoce: " Mi raccomando, se mi vuoi bene, non dire al medico che in questi ultimi mesi ho bevuto un po' più del solito ". Ecco scattata la trappola del paradosso: per voler bene nel modo in cui si aspetta il marito, la signora Rivoni dovrebbe tacere, ma se tace lo danneggia perché con il suo silenzio non mette il medico nelle condizioni di stabilire la giusta diagnosi per curarlo e quindi, agendo in tal modo, non fa il suo bene. In altre parole, se lei lo ama nel modo che le è richiesto in questo momento, di fatto non lo ama; se sceglie l'altra alternativa è come se gli dicesse - secondo la logica del marito - di non amarlo: comunque si comporti essa sbaglia. Simile è il caso di quel giovanotto che si rivolge alla sua ragazza dicendole: " Se mi ami, dammi i soldi per comprarmi la droga ". Come farà questa ragazza a dirsi innamorata se gli nega la prova d'affetto che le chiede? Ma come farà altrimenti a dire di amarlo se, dandogli il denaro, lo mette nella condizione di danneggiarsi con le sue stesse mani? La lettura del pensiero La moglie si rivolge al marito: " Tu non provi più interesse per me: mai un'affettuosità, un'attenzione, un regalo. Se mi volessi veramente bene, avresti ben altri atteggiamenti! ". Il marito rimugina tra sé e sé queste parole, fa un po' di autocritica ed arriva alla conclusione che effettivamente la moglie non ha tutti i torti. Qualche sera dopo perciò arriva a casa con un flaconcino di profumo che sa essere gradito alla moglie. Naturalmente si aspetta un segno di gradimento del regalo da parte di lei: nulla di particolare, ma quanto basti per sentire apprezzata l'attenzione avuta. La moglie guarda con fare un po' distaccato la confezione e con aria triste ed assorta dice con un filo di voce: " Certo che se mi avessi regalato il profumo senza che io mi fossi lamentata, sarebbe tutta un'altra cosa! É un regalo fatto per forza, perché te l'ho chiesto! ". Il marito a questo punto non sa più che pesci pigliare: se non ha gesti d'affetto è rimproverato di essere disattento, se li ha viene rimproverato perché non è spontaneo. In qualunque modo agisca raccoglie disapprovazione. Vorrebbe far riguadagnare interesse e vitalità al rapporto di coppia, proprio come si aspetta la moglie, ma è finito in un vicolo cieco che rischia di rendere vano ogni tentativo. Tra le coppie questo schema relazionale è piuttosto frequente. Parte dalla convinzione che, se ci si vuole bene, si deve essere capaci di capire i desideri della persona amata ancor prima che essa li manifesti. Seguendo questa logica, se si deve arrivare ad esprimere una richiesta o un'attesa di natura affettiva, ciò è indice che non si è amati abbastanza. " Se mi amassi veramente, non dovrei sempre chiederti di abbracciarmi! ". " Se mi volessi bene sul serio, non dovrei continuamente chiederti di dirmelo! ". " Se io continuassi a piacerti, non dovrei chiederti tutte le volte di concedermi la tua intimità! " Come dire che, di volta in volta, la persona amata dovrebbe capire da sola quando si vuole essere abbracciati, quando ci si vuoi sentir dire " ti amo ", quando si ha piacere di fare all'amore e così via! Si attribuisce in questo modo all'interlocutore affettivo la facoltà di leggerci nel pensiero per cogliervi le nostre aspettative ancor prima che ci venga in mente di formularle. Magia questa che riesce nemmeno alle menti più straordinarie e sofisticate e a cui si accompagna il rischio di restare delusi per essersi aspettati qualcosa di impossibile. Per di più, se come nell'esempio si arriva a manifestare la propria attesa alla persona che amiamo, non apprezziamo più la sua disponibilità quando essa vi corrisponde, in quanto si giudica la risposta forzata, non genuina. Si potrebbe cercare piuttosto di far riguadagnare semplicità ai nostri rapporti affettivi: quella sorta di ingenuo stupore grazie al quale ci sentiamo capaci di tutto per chi amiamo ed al tempo stesso bisognosi di tutto. Quella semplicità che permette di chiedere senza umiliarsi e senza pretendere ed a chi da, di dare senza contropartite ne sopraffazioni. Alla fine ciò che conta è non precludersi ne la gratificazione delle proprie attese, né il piacere di apprezzare ed accogliere la disponibilità della persona amata, dopo averla guidata a scoprire ciò che può renderci felici in quel certo momento. Essere gelosi Le relazioni affettive influenzate dalla gelosia sono un fertilissimo terreno di coltura di paradossi comunicativi. " Se mi racconti per filo e per segno cosa è successo quando hai incontrato il marito di Manuela mentre eri fuori per acquisti, ti prometto di non tornare più sull'argomento! ". La moglie, non nuova a richieste come questa, sente come se una morsa le stringesse lo stomaco. " Ci risiamo! " pensa. Se tacerà o descriverà l'accaduto in modo sommario sottolineandone la banalità, sa per esperienza che non sarà creduta. Se invece aderirà alla richiesta scendendo nei dettagli, il marito si servirà di questi particolari per alimentare i suoi sospetti e per accusarla di leggerezza o di infedeltà. In qualunque modo si regoli, la moglie finirà sotto accusa. Parlando di gelosia, rileviamo la presenza di un paradosso nel paradosso. Infatti la persona gelosa, mentre cerca di punire con lamentele, rimproveri, scenate la persona amata per presunte infedeltà - e crea così le condizioni paradossali di cui si è detto - punisce in modo ancor più pesante e penoso se stessa, costringendosi ad arrovellamenti mentali, a costruzioni fantasiose, a interpretazioni machiavelliche. Per punire l'altro, la persona gelosa in pratica rovina la vita a se stessa! Nessuno pensi però che argomentazioni come questa possano convincere un geloso a non esserlo! Consigli inefficaci Anche nel nostro modo di dare consigli per cercare di dare aiuto può nascondersi il trabocchetto del paradosso. Dopo anni di fidanzamento, Rossella è stata lasciata da Fabio. É facilmente immaginabile il suo stato d'animo! Non ha voglia di uscire, piange spesso, vede buio nel suo futuro. Le persone che le sono più vicine cercano di consolarla e di aiutarla a superare questo momento difficile. Una delle battute più frequenti che si sente fare è la seguente: " Non star lì a pensarci in continuazione, cerca di dimenticare! ". Con queste parole Rossella viene invitata a far leva sulla sua volontà al fine di dimenticare. Ed ecco scattata la trappola del paradosso. Infatti, qualunque cosa vogliamo fare, dobbiamo prima di tutto averla presente nella nostra mente o, qualora ce ne fossimo eventualmente dimenticati, ricordarla. In altre parole, la volontà presuppone la consapevolezza. Nel caso di Rossella, l'inevitabilità del legame tra volontà e consapevolezza finirà per rendere vani i buoni consigli che le vengono dati. Quando amici e parenti le raccomandano di cercare di dimenticare, in realtà senza rendersene conto la sollecitano a doversi " ricordare per dimenticare "; e ciò finisce paradossalmente per rafforzare proprio quel ricordo che le si suggerisce di allontanare. Le profezie che " si realizzano da sé " Si possono anche incontrare situazioni in cui il paradosso si presenta sotto altra veste. É il caso in cui ci si adopera per evitare certi effetti indesiderati nei nostri collegamenti vitali con qualcuno e, paradossalmente, proprio quanto facciamo con questo scopo costringe il nostro interlocutore all'interno di schemi di comportamento che provocano pari pari quegli inconvenienti che si volevano evitare. É così che nascono e si mantengono in essere sotto i nostri stessi occhi e giorno dopo giorno determinate condizioni nei rapporti con gli altri, che capiamo fin dal primo momento essere l'origine di possibili difficoltà. Per quanto ci sforziamo di porvi rimedio, è come se fossimo imprigionati da un destino maligno in un meccanismo che porta fatalmente al verificarsi di quei malanni da noi stessi previsti fin dall'inizio. Quasi al punto da scoprirci facili profeti. ... nell'educare i figli ... Cinzia è nata da qualche giorno. Parenti e amici di famiglia si affollano attorno alla sua culla per darle il benvenuto. Ognuno, mentre si congratula con i genitori, aggiunge i suoi commenti. In questi casi si cercano spesso le somiglianze con i parenti, quasi a sottolineare l'appartenenza del neonato a quel certo ceppo familiare attraverso i segni che porta impressi nel suo aspetto fisico. Non sempre però i commenti sono concordi: c'è chi vede qualche affinità con i caratteri somatici di qualcuno della famiglia paterna, altri riconoscono qualche tratto che richiama la famiglia d'origine della madre. Nel caso di Cinzia le valutazioni sono concordi: assomiglia inconfondibilmente a zia Giuseppina. Questo verdetto sconvolge il padre di Cinzia. Zia Giuseppina è infatti una zia paterna nota a tutta la cerchia dei parenti come la persona con il carattere peggiore che si possa immaginare. I suoi comportamenti scostanti, le sue reazioni esagerate e spesso incontrollate, quel certo suo modo acido di parlare di tutti e di tutto ne hanno fatto la pecora nera da evitare. Con queste premesse, si può comprendere l'allarme del padre dopo aver registrato l'unanime sentenza della somiglianza esistente tra Cinzia e zia Giuseppina. Infatti, se si assomigliano fisicamente, come fare ad escludere un'analoga somiglianza nel carattere? Egli certamente non vuole che la figlia cresca sviluppando una personalità tanto problematica e penalizzante quanto quella della zia; per il bene che sente di volere alla neonata, si propone perciò fin da adesso di fare qualsiasi sforzo sul piano educativo per aiutarla a formarsi un carattere positivo, improntato alle buone relazioni. Cinzia cresce, e i suoi progressi sono seguiti con trepidante compiacimento dai genitori. Nella mente del padre è però ormai insinuato il timore che, insieme alla somiglianza fisica, possa manifestarsi con il tempo un'analoga somiglianza psicologica con la zia. Viene anche per Cinzia, come per tutti i bambini, il periodo in cui comincia a fare qualche capriccio. Si tratta di momentanee ostinate resistenze di fronte a richieste dei genitori di mettere in ordine i giochi, di mangiare quel certo cibo, di rinunciare a qualche richiesta. Tutti i bambini quando fanno un capriccio si comportano in modo insistente, irragionevole, disobbediente. Ma Cinzia non è come tutti gli altri bambini: c'è pericolo che diventi come zia Giuseppina, anch'essa ostinata e spesso capricciosa, per cui il padre vede nei normali atteggiamenti della figlia quando si impunta i primi segni anticipatori di un brutto carattere. Sente perciò il bisogno di fare qualcosa per prevenire il pericolo ed a questo scopo interviene in modo molto risoluto. La determinazione del padre si scontra con la caparbietà del capriccio della bambina: più lui cerca di imporsi, tanto più lei accentua la sua reazione. Ciò alimenta la preoccupazione paterna al punto da suggerirgli interventi sempre più drastici, fino al giorno in cui Cinzia, diventata un po' più grandicella ed esasperata da queste modalità educative, passerà dal capriccio infantile ad una reazione di vera opposizione. Ed in quel momento si avrà la prima conferma concreta dell'ineluttabilità della sua somiglianza con zia Giuseppina, anche purtroppo nel pessimo carattere. Proprio come si temeva fin dalla sua nascita! ... sul lavoro Alfredo è capo reparto in una grande industria. Ricopre da molto tempo questa funzione, di cui vanta ormai una notevole esperienza e ciò lo aiuta a trovare le giuste soluzioni alla molteplicità dei problemi che gli si presentano ogni giorno. Alla competenza tecnica si è progressivamente aggiunta la sensibilità e la giusta attenzione per i risvolti umani della sua attività. In altre parole, oltre a potersi definire un tecnico di prim'ordine, può anche vantarsi di essere uno specialista nell'organizzazione delle persone e nella conduzione dei rapporti interpersonali con i suoi operai. Arte difficile questa, alla quale si è esercitato nel corso degli anni. In questi giorni è in corso nello stabilimento l'assegnazione ai vari reparti del personale appartenente ad una piccola ditta che è stata assorbita. Ad Alfredo è appena stato comunicato che dovrà inserire nell'organico della sua realtà l'operaio Varni e che a quest'ultimo sono state date le indicazioni necessarie per raggiungerlo sul posto di lavoro. Alfredo non lo ha mai visto, dato che le assegnazioni sono state fatte " sulla carta " dal capo del personale per cui, mentre continua nella sua abituale attività, tiene d'occhio la porta d'ingresso del capannone in attesa di vederlo comparire. Finalmente si affaccia la figura di Varni. Alfredo lo osserva da lontano. La sua lunga esperienza come responsabile gli permette di notare subito alcuni dettagli che attirano la sua attenzione. Il modo di camminare un po' strascicato di Varni, il fatto che di tanto in tanto egli si fermi brevemente a guardare incuriosito gli altri operai che lavorano e, ancora, che passando sosti di fronte alla bacheca contenente gli ordini di servizio, fanno nascere in Alfredo il sospetto che Varni possa risultare un operaio poco collaborativo, forse un po' portato a fare di testa sua anziché seguire le direttive. Ne ha già conosciuti di tipi così nel suo passato di capo reparto e ne sono sempre venuti fuori dei grattacapi. Ma questa volta se ne è accorto in tempo e si propone di mettere le cose per il verso giusto fin dal primo momento. Bisognerà fargli capire subito che si è in fabbrica per lavorare, che non c'è tempo per andare in giro con il naso per aria, che occorre concentrarsi sulla produzione. Così facendo Alfredo vuole riuscire a correggere in partenza le cattive abitudini lavorative che intuisce nell'operaio. Di conseguenza la sua accoglienza è molto formale, il tono di voce fin dal primo saluto molto energico, le indicazioni precise ed essenziali. Chissà se riuscirà a fargli capire che non intende lasciare spazio a iniziative o a margini di approssimazione che non siano mirati direttamente al lavoro. Varni, per parte sua, è un buon operaio che ha sempre lavorato con diligenza. In questi ultimi tempi è un po' frastornato dai cambiamenti che lo costringono, ormai non più molto giovane, a ricominciare in un ambiente nuovo e con un lavoro che non conosce. Appena è entrato nel capannone, lui che è ha sempre lavorato in piccole aziende, è rimasto stupito dalle dimensioni, dalla quantità di macchinari e gli è sembrato di cogliere immediatamente l'idea di una diversa organizzazione del lavoro rispetto a quella da lui sin qui sperimentata. Ma ecco gli si presenta chi d'ora in poi sarà il suo capo. Ha l'aria decisa, di uno che sa ottenere quello che vuole: freddo, efficiente, finalizzato. Non è certo il capo di prima con il quale i rapporti erano basati sul dialogo ed una certa familiarità; ma bisogna pur capire: la grande industria è ben altra cosa rispetto alla piccola azienda da cui proviene. Così ha inizio il lavoro di Varni nel reparto di Alfredo. La fase di adattamento è meno complessa di quanto temesse: gli viene affidato un lavoro che impara senza troppe difficoltà e gli riesce di ambientarsi abbastanza facilmente con i compagni di lavoro. Unico neo: quel fare così freddo del capo reparto. Fa fatica a sottostare ai suoi modi fortemente direttivi, non ne vede il motivo, considerato il fatto che non gli si è mai dovuto rimproverare nulla. Sulle prime pensava che ciò poteva essere dovuto alle caratteristiche della grande industria, dove, a causa delle dimensioni, l'organizzazione può prendere il sopravvento sulle relazioni personali. A mano a mano che il tempo passa, gli sembra però di notare che il capo reparto abbia atteggiamenti più flessibili con i compagni di lavoro e di ciò ha avuto conferma parlando con qualcuno di loro con cui inizia ad entrare in confidenza. Gli descrivono Alfredo come un capo esigente ma anche comprensivo. Passata qualche settimana, Varni decide di cercare un chiarimento direttamente con il superiore. Alfredo, come ha sempre fatto con tutti i nuovi arrivati in officina, ha seguito l'inserimento lavorativo di Varni: è attento ai suoi progressi ed ai risultati che via via egli ottiene. Tutto sembra andare per il meglio ed Alfredo dice tra sé e sé che ha fatto molto bene a dare un'impostazione precisa fin dall'inizio. Patti chiari, amicizia lunga, recita il proverbio. Ed i risultati si vedono. Quelli come Varni hanno proprio bisogno di sentire sempre il polso del capo. Si è alla fine del turno di lavoro e Varni si avvicina chiedendo un colloquio. Dice che gli riesce difficile capire il motivo per cui viene trattato con modi così esigenti, che a lui sembra di aver sempre fatto il suo dovere, che, se c'è qualcosa da rimproverargli, gli venga detto espressamente. Queste parole suonano stonate ad Alfredo: gli sembrava di aver precisato fin dall'inizio che non intendeva lasciare spazi a forme di rivendicazione. Evidentemente non è stato abbastanza chiaro se oggi l'operaio esce con questi discorsi. Bisognerà essere ancora più espliciti, per cui nella sua replica Alfredo accentua la sua direttività. Si viene così a creare una situazione simile ai circoli viziosi relazionali già descritti in precedenza. Infatti, la direttività di Alfredo alimenta la reazione di Varni che, a sua volta, induce Alfredo ad accentuare ulteriormente il suo atteggiamento e così via, in una rincorsa senza fine. Con il tempo il rapporto tra i due si fa teso e la collaborazione dell'operaio ne risulta condizionata. Alfredo potrà un giorno dire di essere stato bravo a capire fin dal primo momento che con un tipo come Varni le cose malgrado tutto si sarebbero messe male. Il fatto è che, paradossalmente, è stata proprio la misura correttiva pensata da Alfredo a seguito della sua previsione iniziale a creare le premesse perché Varni fosse indotto a comportarsi nel modo problematico che Alfredo voleva evitare. Ma nessuno riuscirà mai a togliere dalla testa di Alfredo che era proprio destino che finisse nel modo che la sua esperienza ed il suo buon fiuto gli hanno subito fatto prevedere! Siamo tutti profeti Ecco due esempi di quelle che sono state chiamate " profezie che si realizzano da sé ", per sottolineare come talvolta nei nostri rapporti con gli altri la previsione ci suggerisce proprio quei comportamenti che finiscono per dar ragione alla previsione. La vita di tutti è costellata di situazioni analoghe: quella dell'insegnante che, prevedendo come quel certo allievo non riuscirà nella propria materia, utilizza un metodo di insegnamento così pressante da disamorare all'argomento l'allievo stesso, tanto che quest'ultimo, perdendo conseguentemente interesse allo studio, meriti voti scadenti che rappresentano la conferma della previsione iniziale dell'insegnante. O quella di una moglie che fin dall'inizio del matrimonio ha previsto che il marito potesse esserle infedele e che con le sue insistenze, con i suoi controlli, con la sua continua assillante richiesta di prove di affetto, finisce per stancarlo ed allontanarlo da sé e scoprirlo un giorno legato in un rapporto affettivo più rilassato e gradevole con un'altra donna, proprio come lei aveva subito capito che sarebbe andata a finire. Infine quella di un parroco che, prevedendo come i suoi fedeli si sarebbero allontanati dalla pratica religiosa, per evitare che ciò avvenga diventa molto pedante, monotono ed insistente nei suoi richiami domenicali ... e finisce per trovarsi con la chiesa vuota. Anche lui proprio come aveva già capito in anticipo! Tutti questi casi si assomigliano tra di loro - oltre che per la presenza di una previsione negativa e per il paradossale ricorso proprio a quei comportamenti che nelle intenzioni dovrebbero servire a evitare che si realizzi - per l'ostinazione con cui i protagonisti si incaponiscono a tentare di far cambiare i loro interlocutori. Rimandiamo il lettore all'ultimo capitolo dove troverà più diffusamente trattato quest'ultimo aspetto. Per riassumere Quando all'interno di un collegamento vitale ci si trova di fronte ad una richiesta, la cui soddisfazione esige comportamenti che producono di fatto e senza via di scampo la sua trasgressione, si è in presenza di un paradosso relazionale. Essere presi in un paradosso relazionale significa trovarsi disarmati e nell'impossibilità di attuare un qualsiasi comportamento efficace per uscirne. Porre qualcuno in un paradosso relazionale comporta creare con le nostre stesse mani le condizioni che lo mettono nell'impossibilità di soddisfare la nostra attesa, malgrado qualsiasi sforzo da parte sua. Introduzione Parte terza: È possibile stare bene con gli altri Essere protagonisti Sir Robert Baden Powell, l'ufficiale inglese che ideò a inizio novecento il metodo educativo dello scoutismo, suggeriva ai giovani - con il linguaggio un po' romantico tipico di quell'epoca - di guardare alla vita come ad un'avventura, ad una grande impresa. Diceva loro che, come per tutte le avventure o le imprese, anche nella vita bisogna essere preparati a fronteggiare la realtà, i fatti inattesi, le opportunità inaspettate, gli sviluppi sorprendenti, le difficoltà previste come quelle impreviste. Soggiungeva anche che il modo migliore per affrontare l'avventura della vita consiste nel " guidare da sé la propria canoa ", cioè nell'evitare di lasciarsi portare passivamente dal flusso degli avvenimenti, per cercare di essere, ciascuno nella sua condizione quotidiana, artefice e protagonista della propria esistenza. Si potrebbe pensare allo stesso modo riferendosi alla comunicazione. Possiamo infatti lasciarci portare dove il caso dell'intreccio delle nostre relazioni interpersonali ci conduce, subirne quasi fatalisticamente le conseguenze e prendere quindi eventualmente atto che con il proprio capo, con il proprio coniuge, con i propri genitori o con i propri figli, con quella persona che occupa un posto importante nella propria vita non ci si capisce, si stenta a trovare un modo soddisfacente di comunicare; mentre con altri tutto fila liscio, si sta bene insieme, ci si intende al volo. Come mai con alcuni le cose vadano per il meglio e con altri no, non si riesce a proprio a capire. Bisogna allora rassegnarsi ad un destino capriccioso che ci imprigiona di tanto in tanto in rapporti interpersonali insoddisfacenti e difficoltosi ... c'è la possibilità di applicare i suggerimenti di sir Baden Powell al mondo relazionale ed alla comunicazione che ne è l'ingrediente fondamentale? In effetti è possibile " guidare da sé la propria canoa " per star bene con gli altri, far sì cioè che quanto avviene tra noi ed i nostri interlocutori sia il frutto dell'essersi preparati all'avventura dell'incontro con l'altro. Se è vero infatti che con alcuni ed in alcuni momenti l'intesa sboccia da sola, senza sforzi e con soddisfazione per entrambi, con altri o in altri momenti possiamo diventare artefici, protagonisti che vogliono, mettendoci tutto l'impegno che serve, creare quelle condizioni di armonia e di accordo che da sole non si verificherebbero sempre. La fatica del volere Qualcuno potrà storcere il naso dicendo che ha senso coltivare una relazione interpersonale solo nella misura in cui essa è genuinamente e spontaneamente appagante. Questo è certamente vero, quando tutto fila liscio da se stesso. Ma quando ciò non si verifica? E se ciò riguarda una relazione per noi vitale? Consideriamo i nostri rapporti affettivi. Sono proprio queste le situazioni in cui più impellente sentiamo il bisogno della genuinità e della spontaneità. Proviamo allora a pensare ad una frase comune, che usiamo con le persone che amiamo. La frase è " ti voglio bene ". E una frase abituale, che nel momento in cui viene usata esprime sinceramente sentimenti e lo stato d'animo di chi la pronuncia. Forse però, un po' trasportati dall'emozione, non ci si accorge fino in fondo del significato e della portata delle parole che si pronunciano. L'attenzione viene senz'altro attratta dalla parola " bene ", che presuppone la promessa e la speranza di felicità per la persona amata. Anche la parola " ti " si segnala in quanto esprime il desiderio di essere artefici della sua felicità. La terza parola resta invece un po' nell'ombra, non sfavilla in tutti i colori, ma veste i panni di Cenerentola e, nel confronto, passa inosservata. Se per una volta però si prova a centrare l'interesse anche su di essa, ci si accorge, forse con sorpresa, che " voglio " è una voce del verbo volere, come ricordiamo dall'analisi grammaticale. " Ma ... - dirà qualcuno - cosa c'entra il volere con l'amore? La volontà presuppone impegno, spesso sforzo. Non roviniamo tutto, non mescoliamo insieme la fatica del volere con l'emozione prorompente dell'amare! ". Sarà allora frutto di uno spontaneo e traboccante moto dell'animo l'atto di una giovane madre che, svegliata in piena notte dal pianto di un figlio di pochi giorni di vita, la fa scendere dal letto per allattarlo? O quello di un padre di famiglia che prolunga tutti i giorni il proprio orario di lavoro per non far mancare nulla ai suoi cari grazie allo straordinario guadagnato? Non è forse il volerebene, a motivare questi comportamenti? I moti dell'animo, gli slanci enfatici, affascinanti e coinvolgenti, sono, quando la vita ce li regala, straordinarie esperienze che danno il colore alla nostra esistenza, come bagliori improvvisi, abbacinanti nel loro splendore. Abbiamo però bisogno del senso di solidità e di continuità proveniente da qualcosa che faccia luce e che accompagni i nostri passi di tutti i giorni, non solo nei giorni magici. E questo consiste nella ricerca, nella tensione, spesso nella fatica che è legata al continuare a " volere " bene, così come a " volere " far andare bene i nostri collegamenti vitali, anche quelli estranei alla sfera dei nostri affetti. I prossimi capitoli di questa terza parte sono dedicati proprio a coloro che non intendono come una stonatura del proprio vocabolario il verbo " volere " e che decidono quindi di " guidare da sé la propria canoa " della comunicazione, sentendo il bisogno di costruire il benessere relazionale proprio così come quello delle persone che amano o con le quali condividono significative esperienze della vita. La torre di Babele dei nostri tempi Capirsi è complicato " Andiamo a confondere la loro lingua: così non potranno più capirsi fra di loro ". Con queste parole, pronunciate agli albori dell'umanità, - dice la Bibbia - Dio mise fine al tentativo dell'uomo di innalzarsi al cielo. Questa sentenza uscita ormai dall'originario contesto religioso per entrare nel linguaggio comune, si serve di un modo figurato per spiegare l'esistenza delle diverse lingue con le difficoltà che ciò comporta per l'umanità: difficoltà di comprensione, di coesistenza, di collaborazione. Qualche volta nasce però il dubbio che quella della torre di Babele sia un'immagine adatta a rappresentare la difficoltà di comprendersi anche tra coloro che parlano la stessa lingua. Una seduta parlamentare, un dibattito televisivo, una discussione in famiglia, una riunione di condominio sono tutte situazioni in cui spesso scopriamo, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la difficoltà di capirsi e di farsi capire. Succede di avere addirittura l'impressione che i pensieri vengano travisati. Qualche volta, dopo molti inutili tentativi di spiegarci, sbottiamo in una specie di grido, tra l'esasperazione e l'implorazione: " Ma perché non cerchi di capirmi!? ". Lo stesso senso di confusione e di impotenza, se prendiamo alla lettera la metafora biblica, che deve aver assalito i nostri progenitori quando sperimentarono per la prima volta l'intenzione di comunicare senza che fosse loro possibile comprendersi. Alla base di tutto c'è un " dizionario mentale " Se la Bibbia ha dovuto a suo tempo ricorrere all'immaginazione per spiegare la complicazione nata tra i popoli con la diversificazione delle lingue, l'uomo d'oggi trova invece nell'intelligenza e nella scienza la possibilità concreta di individuare le fonti e le cause delle fatiche che sperimentiamo nel nostro quotidiano comunicare. Le ragioni all'origine ultima delle difficoltà di comunicazione e, conseguentemente, di convivenza, ci costringono a tornare agli inizi della storia personale di ciascun individuo. Dobbiamo infatti risalire alla condizione che abbiamo incontrato non appena abbiamo aperto gli occhi all'esistenza: un'esperienza per tutti ormai lontana, sepolta sotto lo strato di tantissimi altri ricordi. Per farcene un'idea, possiamo paragonarla alla condizione in cui si trova un astronauta appena messo piede su un mondo ignoto: in un caleidoscopio di novità e di stimoli sconosciuti ed a lui estranei, non è in grado di attribuire né nomi né significati a ciò che incontra. Nulla può fare se non osservare e registrare. A prima vista può sembrare strano, ma questa è proprio l'esperienza di ogni neonato, a suo tempo anche la nostra. Per esempio, nulla sapevamo allora di quel qualcosa, con caratteristiche che successivamente avremmo chiamato stato liquido, trasparente ed incolore, capace di dare piacevoli sensazioni qualora vi ci fossimo trovati immersi o l'avessimo ingerito nel nostro corpo. Solo più tardi avremmo imparato a chiamare " acqua " questa nostra scoperta personale. Nei primi attimi dopo la nostra nascita, nulla sapevamo del fatto che ci poteva essere qualcuno interessato a noi, disposto a dedicarci cure ed attenzioni: avremmo successivamente chiamato " madre " questo qualcuno e " amore " l'insieme delle cose che avremmo sperimentato da lei. E così via, in un susseguirsi di sempre nuove esperienze. Potremmo dire, con un'altra immagine, che ogni neonato porta con sé alla nascita il dizionario destinato a riportare nomi e significati, soprattutto, il senso delle cose. Questo dizionario contiene però solo pagine bianche, tutte da scrivere: sarà lui stesso a compilarle a mano a mano che la sua stessa vita gli farà fare esperienza di oggetti, persone, situazioni. Mentre progressivamente ciò avverrà, le pagine del dizionario si riempiranno e gli serviranno nelle successive esperienze per riconoscere gli stimoli come familiari e per attribuire loro un significato. Misuriamoci ora in un'ardua impresa: quella di immaginare di entrare nella testolina di un bimbo di poche settimane di vita per fare una specie di cronaca dei fenomeni di cui andiamo parlando, cercando di descriverli così come lui li vive. Possiamo pensare che inaspettatamente, in un certo momento, gli si presenti alla vista uno strano oggetto di forma allungata, trasparente e contenente un liquido bianco. " Non ho mai visto nulla del genere. Cosa sarà? Servirà a qualcosa? Farà star bene o farà star male? ". Qualcuno gli avvicina un'estremità di quell'oggetto alle labbra e, dopo qualche istante, egli avverte una sensazione piacevole: " Toh, non è per niente male: il gusto è buono, la temperatura gradevole. Dopo un po' si sente anche la pancia piena! Niente male davvero! E qualcosa di amico perché mi fa stare bene ". Mentre le labbra succhiano, nella testolina del nostro bimbo le cellule nervose stanno dandosi un gran da fare: stanno registrando il fatto che alla vista di un liquido bianco all'interno di un oggetto allungato e trasparente fanno seguito sensazioni piacevoli; c'è un legame fra le due cose. Le cellule nervose infatti sono incaricate di registrare le annotazioni sulle pagine bianche del suo dizionario. Dopo qualche tempo ricompare l'oggetto in questione. Le cellule nervose aprono il dizionario alla pagina dove hanno annotato il primo incontro con l'oggetto: " È di nuovo lui! Chissà se mi farà star bene come la volta passata? Sì, sì, succede la stessa cosa ". Passa qualche tempo ancora e il solito oggetto fa di nuovo la sua apparizione. Ancora una volta il dizionario viene consultato alla pagina originaria. " Ci siamo di nuovo! Ma cosa stanno facendo? Lo stanno riscaldando? Datevi da fare, ho fretta di provare quella bella sensazione di sazietà! Non vedete che sono agitato? Se non provvedete subito mi metto a strillare! ". Il biberon, un oggetto inizialmente ignoto per il nostro piccolo astronauta, ha acquisito un significato ed un senso attraverso lo stabilirsi di un legame mentale tra la sua presenza e le sensazioni che a lui ne derivano. Il suo cervello ha registrato questo legame e provocherà in lui la reazione appropriata in tutte le situazioni analoghe a venire. Per tornare al nostro linguaggio figurato, una pagina del dizionario è stata compilata per l'utilità della vita futura del nostro piccolo protagonista: d'ora in poi essa verrà consultata tutte le volte in cui si presenteranno stimoli sensoriali analoghi a quelli presentatisi nel momento della prima annotazione e attraverso questa consultazione l'interessato darà un senso alla sua esperienza. Decine, centinaia, migliaia di pagine del dizionario personale riferite ad altri oggetti e situazioni si andranno man mano analogamente compilando nel tempo. Per ciascuno di noi sono state compilate in questo modo le pagine della nostra esperienza, pagine che consultiamo nella vita di tutti i giorni e che ci suggeriscono come muoverci nelle differenti situazioni, per decidere, scegliere, cercare, allontanare, evitare ... Dizionari mentali a confronto Qualcuno si potrà chiedere a questo punto a che cosa serva risalire alle origini, così come abbiamo costretto il lettore, per spiegare le difficoltà di comunicazione e di comprensione tra le persone. Non è stata un'inutile digressione. Affermare, come nelle righe precedenti, che ciascuno attribuisce significato e senso a oggetti e situazioni avendo come unico riferimento le proprie esperienze individuali, comporta che quando si ha necessità o piacere di stabilire un collegamento vitale ( comunicare ) con altri, non possiamo che riferirci al nostro particolare " dizionario " e che i nostri interlocutori per cercare di capirci altra possibilità a loro volta non avranno se non quella di richiamarsi al loro particolare " dizionario ". Non potendo pensare all'esistenza di due persone in possesso di identiche esperienze, dobbiamo registrare uno scostamento inevitabile tra il senso che l'uno tenta di trasmettere ed il senso che l'altro coglie. Elvira e Angela sono due giovani colleghe di lavoro ed hanno deciso di fare le ferie insieme. É stato un anno piuttosto pesante per tutte due e non vedono l'ora di potersi concedere qualche settimana di svago. Hanno fatto molti progetti prima di scegliere la località e la sistemazione adatta. Più volte nei loro discorsi hanno usato la parola " divertirsi " ed entrambe si sono trovate d'accordo sul fatto che questa vacanza deve essere all'insegna del divertimento. Una volta arrivate nella località prescelta hanno cominciato a fare programmi su come impiegare il tempo. Ben presto però la loro aspettativa per un periodo di serenità e di relax si è dissolta di fronte alla difficoltà a mettersi d'accordo su che cosa fare. Infatti, per Elvira " divertirsi " significa cercare occasioni in cui stare insieme agli altri, per conoscere gente. Per Angela " divertirsi " vuol dire girare, muoversi, curiosare alla ricerca delle abitudini e del folklore locali. Hanno comunicato tra loro usando entrambe il suono " divertirsi " pensando al proprio modo di intendere il divertimento, nella convinzione che anche l'altra vi attribuisse lo stesso senso. Alla prova dei fatti verificano quanto illusoria fosse purtroppo tale convinzione. E nel dizionario di esperienze di Elvira che va ricercata l'origine del suo particolare modo di pensare a divertirsi e la stessa cosa vale per Angela. Guido e Lorena sono una coppia sulla quarantina. Da non molto hanno comperato l'alloggio in cui vivono con i figli e sono impegnati nel pagamento del mutuo, le cui rate si fanno sentire in modo gravoso sul bilancio familiare. Per di più qualche settimana fa Guido ha provocato per una sua disattenzione un incidente stradale in cui è andata praticamente distrutta la loro auto. Hanno dovuto acquistarne una nuova per il fatto che abitano in una zona periferica non servita da mezzi pubblici di trasporto. Dato il momento economicamente difficile, hanno deciso di comune accordo di limitare le spese a quelle veramente necessario, rimandando o rinunciando alle altre. Nonostante ciò il conto in banca è costantemente esangue. Si impone di fare il punto sulla situazione. Il confronto tra i due è piuttosto teso. Lei rimprovera a lui di non essere stato coerente con la decisione presa, avendo Guido continuato ad andare tutte le sere in palestra e dovendone naturalmente pagare la quota di partecipazione. Lui replica che si tratta di una spesa non solo necessaria, ma indispensabile, dato che altrimenti non saprebbe come liberarsi delle forti tensioni che accumula nell'ambiente di lavoro e che considera prioritario evitare di scaricare in famiglia. Lei, piuttosto, avrebbe fatto bene a smettere di invitare amici a cena, fatto questo che incide sensibilmente sulle spese di vitto. Lorena ribatte che no, a questo non si deve rinunciare, altrimenti finirebbero per isolarsi e ciò non farebbe certamente bene alla loro intesa di coppia. La discussione si accende, senza che nessuno dei due faccia un passo indietro rispetto alla sua valutazione. Entrambi ritengono di essere nel giusto rimanendo fermi sulla propria posizione e cercando di smuovere quella dell'altro. Si erano messi d'accordo usando le parole " spese veramente necessarie ", pensando ciascuno dei due che questa espressione avesse per l'altro lo stesso significato presente nel proprio dizionario mentale. Ambienti di lavoro e dizionari mentali Negli ambienti di lavoro industriali si usa con una certa frequenza la parola " sicurezza ", riferendola a tutto ciò che riguarda l'incolumità e la salute dei lavoratori. In alcune aziende si attuano vere e proprie campagne con lo scopo di sensibilizzare gli addetti al corretto impiego di quanto viene messo a disposizione per tutelare la loro integrità fisica. Malgrado molti sforzi spesso costosi, molti lavoratori usano poco e male questi sussidi, soprattutto quando si tratta di indumenti cosiddetti protettivi, come occhiali destinati a riparare gli occhi da schegge provocate dalle lavorazioni, guanti per difendere le mani da ferite derivanti dalla manipolazione di oggetti con bordi taglienti, scarpe con punta metallica per riparare il piede in caso di cadute di oggetti pesanti e con suola rinforzata per proteggere la pianta da trucioli metallici o chiodi che potrebbero perforare una suola indifesa. Le aziende si sforzano di comunicare con i lavoratori a proposito della loro sicurezza, ma, a giudicare dagli effetti, non si direbbe che raggiungano sempre adeguatamente l'obiettivo. Uno dei motivi, forse il principale, consiste nel fatto che si usa la parola " sicurezza " come se avesse lo stesso significato per tutti, come cioè se tutte le persone coinvolte la ritrovassero annotata nel loro dizionario mentale allo stesso modo. Sappiamo già che ciò non è possibile. Nel dizionario mentale di chi occupa i ruoli di massima responsabilità in un'azienda il termine sicurezza si associa facilmente all'idea dell'efficienza e dell'immagine che l'azienda da di se stessa: certo prima di tutto viene l'incolumità dei lavoratori ma non è da trascurarsi l'importanza di fare attenzione, per esempio, a non finire nella cronaca dei giornali per qualche grave infortunio. Se cerchiamo invece di entrare nel dizionario mentale di un capo direttamente responsabile di un gruppo di operai addetti ad un certo ciclo di lavoro, anche in questo caso troviamo il riferimento alla tutela dell'incolumità dei suoi collaboratori, ma probabilmente alla parola " sicurezza " troviamo significati collegabili a norme aziendali da far rispettare per evitare di ricevere rimproveri dall'alto o a disposizioni legislative che, in caso di inosservanza, lo possono portare in stato di inchiesta di fronte ad un pretore. Arrivati finalmente al dizionario mentale dell'operaio addetto alla produzione, in corrispondenza della parola " sicurezza " troviamo annotato il fastidio derivante dal camminare indossando scarpe protettive rigide, che impacciano nello spostarsi e che a causa del loro spessore provocano in molti calore e sudorazione innaturali, il disturbo legato all'uso degli occhiali di protezione per il fatto che è difficile tenerne pulite le lenti mentre si fa un lavoro manuale, la seccatura di dovere eseguire con le mani operazioni richiedenti precisione di movimenti ed averne impedita la necessaria sensibilità dalla presenza dei guanti. Immaginiamo di trovare un esponente di ciascuna di queste tre categorie di fronte ad un nuovo avviso in materia di sicurezza affisso nella bacheca dalla direzione. Per l'esponente del vertice aziendale rappresenta una prova in più dell'efficienza e della capacità dell'azienda nel migliorare la propria organizzazione, per il capo costituisce una normativa in più da far osservare, per l'operaio un fastidio in più nel lavorare. Non si fraintenda: non si vuole certo polemizzare su quanto meritoriamente viene fatto per salvaguardare la sicurezza dei lavoratori, né dipingere i superiori ai diversi livelli di responsabilità come insensibili ai riflessi umani legati ad un tema così delicato come l'integrità fisica di tanti padri e madri di famiglia che guadagnano di che vivere per sé e per i propri cari lavorando come operai. Si vuole piuttosto sottolineare l'importanza di non dare per scontata un'uguaglianza di significati che non esiste nei dizionari mentali, e che non può esistere, giusto il fatto che il significato è il frutto dell'esperienza individuale e che non esistono due individui che abbiano fatto identiche esperienze. Non tenerne conto ha come conseguenza inevitabile l'equivoco, l'incomprensione, in altre parole, l'inefficacia di tutto quanto si fa nel tentativo di comunicare. Non sfuggirà certo infatti come i significati attribuiti dai rispettivi dizionari mentali di ciascuno dei tre al termine " sicurezza " si traducono in tre differenti sensibilità, che a loro volta generano reazioni e comportamenti diversificati, mirati al conseguimento di scopi individuali discordanti se non addirittura contrastanti. Un piccolo esercizio Possiamo ora fare un esperimento coinvolgendo il lettore. Supponiamo di essere in una stazione ferroviaria e, nostro malgrado, di sentire le parole che uno sconosciuto dice ad un telefono pubblico situato dietro le nostre spalle: " ... e poi i compagni sono stati straordinari. Data l'urgenza, si sono mobilitati tutti, tutti si sono dati da fare per affiggere i manifesti in tempo utile per avvertire la popolazione. Il corteo ha avuto molta partecipazione ed alcuni momenti dell'assemblea sono stati particolarmente coinvolgenti ". Chi legge si fermi ora un attimo e, prima di continuare la lettura, si chieda quale possa essere l'identità di questo ignoto viaggiatore. Fatta questa operazione, si sappia che la maggior parte delle persone a cui è stato posto lo stesso quesito ha definito questo sconosciuto come appartenente a qualche organizzazione sindacale o politica di matrice progressista. La telefonata nel frattempo prosegue. " L'incidente mortale capitato a Vittorio è proprio stata una tragedia che ha colto tutti di sorpresa. Per fortuna che, come ti dicevo, si sono attivati i compagni di scuola dei figli di Vittorio, altrimenti non si sarebbe neppure potuto fare una degna cerimonia in chiesa data l'urgenza che hanno assunto gli avvenimenti ". Questa seconda parte della telefonata ci induce probabilmente a correggere la nostra valutazione iniziale, se essa fosse eventualmente coincisa con quella di coloro che sono stati da noi interpellati in precedenza. Viene da chiedersi come mai lo sconosciuto possa essere erroneamente identificato da molti come un sindacalista o un politico. Probabilmente ciò è avvenuto a causa della presenza nel primo frammento di colloquio telefonico di termini come " compagni ", " corteo ", " mobilitati ", " manifestazione ", " assemblea ", che nel nostro dizionario mentale possono facilmente essere associati al linguaggio di politici o di sindacalisti a causa dell'esperienza che ci ha molte volte proposto l'utilizzo di un analogo linguaggio da parte di appartenenti a questo genere di organizzazioni. Con un processo di associazione e di generalizzazione, abbiamo inglobato in queste precedenti esperienze anche l'ultimo episodio, travisando il significato di "compagni di scuola ", " corteo funebre ", " manifestazione di cordoglio ", " assemblea liturgica " presente nel dizionario mentale dell'utente telefonico, così come si capisce chiaramente nella seconda parte del colloquio. Si noti che, in una situazione reale, il nostro modo di comportarci, qualora avessimo dovuto avere a che fare con l'ignoto viaggiatore udita la prima parte di telefonata, sarebbe stato quello che il nostro dizionario mentale, in base alla nostra esperienza, ci suggerisce essere il-giusto-modo-di-comportarsi-con-un-politico-o-un-sindacalista, esponendoci al rischio di possibili equivoci. Prigionieri nei propri dizionari mentali Un suggestivo spot pubblicitario televisivo ha per protagonista un giovane uomo che, camminando tra la folla, guarda con simpatia i passanti che incrocia, saluta i vicini di viaggio sulla metropolitana, regala una piccola barca a vela ad un bambino sui bordi del laghetto nel parco. E interessante notare le reazioni degli altri personaggi. Prigionieri del loro dizionario mentale, dove è annotato che per la strada bisogna diffidare del pericolo potenziale rappresentato dagli sconosciuti, soprattutto quando, come in questo caso, si comportano in base ad un dizionario mentale stranamente improntato alla simpatia ed al desiderio di comunicare, lo guardano con stupore e con sospetto, scuotono il capo disapprovando, sono incuriositi ma allo stesso tempo non osano incrociare il suo sguardo, allungano il passo ... sino ad arrivare alla madre che si precipita a prendere per mano il bambino sul bordo del lago ed a trascinarlo lontano. Un buon esempio, oltre che della spersonalizzazione e dell'isolamento cui spesso costringe la vita nelle grandi città, anche dell'influenza dei personali dizionari mentali di ciascuno. La consapevolezza della presenza e della funzione dei dizionari mentali, nonché dell'originalità di ciascuna delle relative elaborazioni, costituisce il passo fondamentale su cui basare ogni serio tentativo di migliorare la qualità dei nostri modi comunicativi. Nei capitoli successivi si partirà proprio da questa consapevolezza, per delineare alcuni indirizzi di comportamento orientali ad un maggior benessere relazionale. Per riassumere Ogni persona attribuisce significato alle situazioni che incontra, in base a riferimenti personali che chiamiamo " dizionario mentale ". Il dizionario mentale di ciascun individuo, quasi privo di annotazioni alla nascita, si compila progressivamente con la registrazione delle sue esperienze e del significato che queste stesse esperienze hanno acquisito per lui in base agli effetti che ciascuna di esse ha prodotto sulla sua persona. Non esistendo due persone la cui vita abbia proposto le stesse esperienze, si deve prendere atto che il dizionario mentale di una persona è diverso da quello di tutte le altre. La diversità dei dizionari mentali comporta la conseguenza che due interlocutori, usando i rispettivi dizionari mentali per dare senso alla loro comunicazione, possano non trovarsi d'accordo sui significati. Al di la del torto e della ragione Il fastidio di sentirsi dare torto Vorremmo porre una domanda un po' infantile, forse tanto ingenua da arrivare ad infastidire. Perché quando qualcuno ci da torto, ci dispiace? Se si va al di là di risposte come " perché a nessuno piace essere contraddetto " o simili, rientranti in quella categoria di risposte che qualcuno ha definito " dormitive " per significare che non forniscono nessuna spiegazione ( come se si fosse fatta una bella dormita sul quesito, finita la quale l'interrogativo rimane nei termini iniziali ), ci si accorge che la domanda è meno oziosa di quanto appaia a prima vista e la risposta tutt'altro che scontata. Filippo e Marisa sono sposati da un paio di anni. Filippo è cresciuto in una famiglia in cui la madre rappresentava la figura dominante: tutto girava attorno a lei e, quando si trattava di prendere una decisione, era scontato che tutti aspettassero da lei i passi necessari. L'atteggiamento degli altri familiari poteva essere sintetizzato nella frase: " Fai tu, perché sappiamo che come decidi tu va bene ". E, per la verità, raramente la madre di Filippo ha preso decisioni sbagliate. Nella famiglia di origine di Marisa le cose andavano diversamente. Quando c'era da decidere, era abitudine ragionare insieme, consigliarsi, discutere, per arrivare ad una conclusione in un modo che potremmo definire assembleare. Qualche volta questo procedimento risultava un po' laborioso, ma offriva il vantaggio di analizzare le soluzioni da più punti di vista e di coinvolgere tutti. Marisa ricorda che, fin dalla prima adolescenza, l'avevano fatta partecipare attivamente a queste discussioni in famiglia. Anche l'attuale vita di coppia comporta la necessità di fare delle scelte. In queste circostanze, Filippo è portato a delegare a Marisa la presa di decisione, mentré quest'ultima si sforza di coinvolgere il marito. Insiste per avere da lui un parere, per capire quale sia il suo pensiero, ma lui taglia corto: " Fai tu. Stai tranquilla, come avrai deciso tu, andrà bene anche a me ". Questo atteggiamento qualche volta esaspera Marisa, che insiste nella sua richiesta di coinvolgimento. Ma queste insistenze indispettiscono Filippo, che non riesce a capire cosa voglia ancora sua moglie dopo che le ha dimostrato la massima fiducia dandole carta bianca su tutte le questioni. Se ci si sofferma sugli stili decisionali appena descritti, si può facilmente cogliere quanto essi dipendano dall'azione dei rispettivi dizionari mentali. Filippo trova annotato nel suo dizionario mentale, di fianco alla parola " decidere ", il concetto " delegare "; Marisa il concetto " discutere ". Ci sono stati qualche volta momenti di tensione tra i due, proprio a questo proposito. Lui dice che lei ha torto a fare di ogni decisione una questione di stato, da sviscerare fin nei dettagli; lei a sua volta da torto a lui perché non si coinvolge. Entrambi vivono male il momento in cui si sentono dare torto. Dire a Filippo che ha torto a lasciar decidere sempre la moglie, corrisponde a dirgli che quanto il suo dizionario mentale riporta in corrispondenza a situazioni in cui bisogna decidere è insensato. In altre parole, che la sua esperienza di vita a proposito del decidere è inadatta, incapace di portare frutto. Filippo non ci sta a sentirsi negare l'utilità di ciò che ha sperimentato in tutto questo tempo in un modo così sistematico da farlo diventare il suo-atteggiamento-personale-di-fronte-alle-decisioni-da-prendere e non vede perché non si possa applicarlo anche alle situazioni presentì, visto che ha sempre funzionato. Dargli torto significa dirgli che una parte della sua vita è sbagliata: un discorso che nessuno lascia passare senza farci caso! Altrettanto per Marisa. Anch'essa non è disposta a rinunciare al modo di prendere decisioni consigliato dal suo dizionario mentale: ciò equivarrebbe a negare l'utilità del suo originale, unico ed irripetibile modo attraverso il quale ha fatto esperienza della vita. Si tratta di qualcosa di troppo prezioso per essere disposti facilmente a farne a meno. Il disagio sperimentato quando ci si sente dare torto dipende quindi dal sentir mettere in discussione, insieme ad un particolare del presente, tutto quanto questo particolare richiama della vita passata, nonché quanto da essa si è imparato attraverso le annotazioni nel proprio dizionario mentale. A questo punto non stupisce più tanto il quesito da cui si è partiti, a proposito dei motivi per cui dispiace sentirsi dare torto. Ha veramente senso parlare di torti e di ragioni? Queste considerazioni portano però ancora più lontano. Se si riconosce infatti che ognuno ha buoni motivi per comportarsi in quel certo modo e che questi buoni motivi dipendono da quello che la sua vita gli ha insegnato, diventa difficile stabilire torti e ragioni. Sergio è un uomo laborioso: il lavoro e gli affetti sono le sue uniche ragioni di vita. Già fin dall'inizio Nora, una donna sensata e senza grilli per il capo, è rimasta ammirata da tanta serietà e dedizione. Si è detta che sposare un uomo così avrebbe rappresentato una sicurezza per il suo futuro ed un buon esempio per i figli che sarebbero venuti. Nora da sempre si è pensata realizzata nel ruolo di madre e si è data un programma di vita che, in prospettiva, mette al primo posto proprio la dedizione ai figli, ai quali - dice -, se si mettono al mondo, non bisogna far mancare nulla, in particolare l'attenzione e l'affetto che serve perché crescano sereni. Una coppia dalle premesse solide, non c'è che dire. Quanto buon senso e quanto spirito di responsabilità! Tutto lascia presagire un'intesa di coppia senza scosse, forse senza tanta fantasia, ma senz'altro fondata su basi salde. I due si sono sposati e, con il tempo, sono nati i figli. Entrambi sono rimasti fedeli alle premesse da cui sono partiti: Sergio continua ad essere un gran lavoratore, Nora è una madre degna di ogni elogio. Il ménage familiare fila liscio. In casa regna la serenità e non potrebbe essere altrimenti considerata la maturità dimostrata da entrambi. Un giorno però qualcosa si incrina: lo si nota da certi piccoli gesti di insofferenza di lei, da qualche segno di nervosismo in più di lui. In un primo momento incolpano la stanchezza: in fin dei conti nessuno dei due si risparmia! La tensione con il tempo aumenta sino a diventare palpabile, finché ad un certo punto Nora sbotta: " Sei sempre preso dal tuo lavoro! Ricordati che i tuoi figli hanno bisogno di un padre e non di un estraneo ". Sergio cade dalle nuvole: " Ma come? Io mi ammazzo di lavoro dalla mattina alla sera per non farvi mancare nulla e tu hai il coraggio di dire che non sono un buon padre? ". " Cosa se ne fanno di tutto il tuo lavoro se quando ti cercano non ci sei mai? Tutto cade sulle mie spalle! " replica lei. E lui: " Vorrei vederti se non ci fossero tutti i soldi che guadagno. Ma poi, sei tu che sei fissata con tutte queste storie con i figli ". É possibile dire a Nora che ha torto nel dare importanza al rapporto educativo tra padre e figli? Si può dire a Sergio che è sbagliato essere dediti al lavoro per offrirne i frutti ai propri familiari? Agostino è un operaio trasferito da sei mesi in un nuovo reparto. É abituato a curare con la massima attenzione la qualità del lavoro e ciò che esce dalle sue mani soddisfa sempre in pieno i parametri di precisione richiesti. Naturalmente questa accuratezza richiede il suo tempo. Con il recente trasferimento, Agostino ha cambiato anche capo. In questo momento i suoi due capi, quello precedente e quello di adesso, si sono incontrati per discutere la valutazione complessiva del lavoro dell'operaio nell'arco dell'ultimo anno. Uno dei due afferma che il lavoro di Agostino deve essere premiato per la sua qualità, l'altro non è d'accordo sottolineando la lentezza operativa dell'operaio. Una volta ancora incontriamo i dizionari mentali: quello del primo capo riporta accanto a " buon operaio " il concetto di lavoro fatto bene a tutti i costi, in quello del secondo l'idea di un utilizzo efficiente del tempo. Possiamo dire al primo che ha torto nel valorizzare la qualità del lavoro di Agostino? Come fare a dar torto al secondo quando da importanza ai tempi di esecuzione? Nel corso della lettura degli esempi proposti è probabile aver sentito più opportuna l'una o l'altra tra le posizioni dei protagonisti, rischiando così di entrare, anche dall'esterno, nel gioco dei torti e delle ragioni. Se ciò è avvenuto, dipende esclusivamente dal fatto che, casualmente, il dizionario mentale del lettore assomiglia, per l'aspetto specifico considerato, a quello di uno dei due interlocutori: prova ne sia il fatto che, per quante persone si possano trovare che danno ragione all'uno, se ne trovano almeno altrettante che concordano con la posizione dell'altro. La ricerca dei torti e delle ragioni è una rincorsa senza fine e non serve a nulla insistere pervicacemente con l'intenzione di far prevalere la propria tesi. Al contrario, si finisce spesso per esasperare ed esasperarsi, intercalando battute come: " Possibile che tu non capisca? " che, a pensarci bene, equivale a dire: " E così chiaro! Una persona normale capirebbe, ma tu non ci riesci " e si attribuisce così una patente di stupidità all'interlocutore. Oppure l'altra: " Ma perché non vuoi capirmi? ", dove l'uso del verbo volere sta a significare: " L'ho capito, sai, che fai apposta ad impuntarti per non darmi ragione! ", che è un altro modo per dire: " Sei in mala fede ". E poi ci si vuole stupire quando questo scherzare con il fuoco porta a conseguenze indesiderate? Il fatto è che ragioni e torti non esistono, ma esistono persone di buon senso ( tutte lo sono, nella misura in cui non decidano lucidamente e deliberatamente di autodanneggiarsi ) le quali, partendo da ciò che la personale vicenda su questa terra ha mostrato loro ed è quindi riportato nel loro dizionario mentale, danno un senso agli avvenimenti: questo è il loro giusto modo di dare senso e significato a ciò che loro succede. L'errore consiste nel considerare " giusto modo " equivalente di " unico modo ". Non esiste infatti un " unico e giusto modo " di interpretare le cose che sia oggettivo, che valga per tutti, ma esiste quel modo che è giusto nella misura in cui è coerente con i riferimenti personali di ciascuno. Non si tratta di far diventare tutto relativo Qualcuno può interpretare queste affermazioni come un'adesione alla corrente di pensiero largamente diffusa in questi anni rappresentata dal relativismo, pensiero che rivendica il primato della coscienza, il diritto del singolo ad autodeterminarsi, l'eliminazione di qualsiasi riferimento generale, valido e vincolante in assoluto, per rendere tutto, appunto, relativo. Si noti una differenza - forse non così immediatamente percepibile, ma di sostanziale rilevanza - che distingue in modo netto ed inconfutabile l'approccio qui presentato rispetto al relativismo. Il relativismo è una corrente filosofica, cioè un modo di andare alla ricerca della verità, che arriva paradossalmente alla conclusione che la verità consiste nel fatto che non esiste una verità. Per fare ciò si preoccupa del contenuto dei pensieri, cioè degli elementi che entrano a far parte dei ragionamenti per arrivare a questa conclusione. Le idee sviluppate in questo capitolo si muovono su un piano logico completamente diverso: tentano di spiegare come mai sia così difficile far convivere le numerose ed evidenti differenze tra le persone. Il relativismo, in quanto corrente filosofica indica un obiettivo esistenziale, il presente approccio, in quanto riflessione psicologica, cerca gli strumenti comportamentali da mettere al servizio dell'obiettivo esistenziale stesso, sia esso ispirato al relativismo come a qualsiasi altra corrente filosofica, ideologica o religiosa. Ricorrendo ad una metafora, mentre i nostri ragionamenti si preoccupano di capire come si guida un'automobile, il relativismo indica uno tra i tanti possibili viaggi che si possono fare servendosi di un'automobile. Quello che più interessa ( e che qualifica il nostro approccio ) è notare come il sistema di guida di un'automobile sia sempre lo stesso, sia valido in generale e sia indipendente dalla destinazione scelta. I dizionari mentali si possono modificare Per quanto ovvio, va precisato che i dizionari mentali non sono scritti con un inchiostro indelebile. Al contrario, ogni esperienza successiva a quella iniziale è occasione per precisare, aggiornare, affinare quanto annotato, in modo che, all'utilizzo successivo, se ne possa ricavare il massimo dell'efficacia. Questa proprietà dei dizionari mentali lascia inoltre spazio alla possibile decisione di volerli cambiare sottoponendosi ad adeguate esperienze, come quelle necessarie per apprendere, o permettendo alle sollecitazioni e ai consigli d'altri di integrarsi con quanto registrato in precedenza attraverso l'accettazione della loro guida o della loro correzione. Una ricchezza dalle molte complicazioni Un'ulteriore conseguenza di tutto rilievo derivante dalla presenza dei dizionari mentali consiste in una rinnovata consapevolezza delle diversità esistenti tra le persone nel momento in cui ci incontriamo con loro. Non si dice nulla di nuovo affermando che ciascun uomo o donna è un prototipo, un pezzo unico: non è esistito, non ne esiste e non ne esisterà mai uno o una uguale. La diversità è un grande serbatoio di ricchezza per l'umanità: interessi diversi, abilità diverse, risorse diverse, sensibilità diver se ... Da questa grande varietà l'umanità ha attinto ed attinge a piene mani per alimentare la marcia verso il progresso. E però sotto gli occhi di tutti come la diversità sia anche una grande complicazione. Difficoltà di coppia, problemi con i figli, con i genitori, tra colleghi, con i superiori, con i parenti, con i vicini, in famiglia, sul lavoro, nelle associazioni, nelle Chiese, negli Stati ... sono il rovescio della medaglia che presenta l'essere differenti. " Tante teste, tante idee ", recita la saggezza popolare! Tu sbagli! Quando la differenziazione è limitata, o riguarda un rapporto o un argomento cui non si da molta importanza, di solito si riesce a superare tutto senza grandi scossoni. Le complicazioni aumentano nella misura in cui la diversità tra interlocutori è accentuata e quanto più essi sono interessati alla relazione esistente tra di loro: l'importanza che attribuiscono al rapporto li lega, mentre le rispettive diversità li allontanano. L'impulso immediato che scatta non appena, attraverso la percezione di parole, gesti o comportamenti, ci si rende conto di avere a che fare con qualcuno che ha modi diversi dai propri di attribuire senso e significati, è quello di dire che sbaglia. E se sbaglia, va corretto. Per amore di quello che si pensa essere l'unico giusto modo, ci si sente in dovere di costringerlo all'interno del proprio dizionario mentale. C'è una violenza, una costrizione sulla libertà dell'altro quando si cerca di convincere. Gli si vuole dimostrare, qualche volta con le buone, altre volte con le cattive, che il suo dizionario mentale è sbagliato, che a proposito di quel certo particolare la sua vita è sbagliata, che deve riconoscerne l'inadeguatezza per abbracciare finalmente il giusto modo di pensare in una specie di conversione mentale. E, se non riconosce la sua inadeguatezza e quindi non ci sta, ecco il ricorso alla pressione, al ricatto psicologico, ecco spuntare l'intolleranza, il razzismo culturale, la guerra. Non si pensi che ciò riguardi solamente i conflitti internazionali, etnici o razziali: queste sono osservazioni che valgono anche per le migliori famiglie. Diversità di dizionari mentali all'interno della coppia ... Come fare a convivere con la differenziazione dei dizionari mentali, senza rinunciare al proprio ma anche senza assolutizzarlo? In casa Valpetri è abitudine cenare alle venti. È una specie di rito, quello della cena. Nel tempo è diventato il simbolo del ritrovarsi dopo una giornata trascorsa ciascuno impegnato nelle proprie responsabilità. I due coniugi considerano la puntualità a questo appuntamento quotidiano come un segno di rispetto reciproco. Può capitare che il marito eccezionalmente ritardi e che, per una serie di circostanze sfavorevoli, non gli riesca di telefonare. Nel dizionario mentale di lei non c'è posto per l'imprevisto, per cui - passata l'ora solita - scatta il risentimento. Al suo arrivo, a nulla servono le spiegazioni di lui, cui non viene dato peso, per arrivare al commento finale da parte di lei : " In ogni caso, se ci tenessi veramente, troveresti il modo di essere puntuale ". Nessuno spazio da parte della signora Valpetri per il dizionario mentale del marito: non le è passato nemmeno per la mente il pensiero che il ritardo possa essere giustificato semplicemente da una valutazione di priorità portata da una causa di forza maggiore o da un'urgenza. Come dire: " Di valido, c'è solo il mio dizionario mentale ". In molte coppie viene lasciato poco spazio, in qualche caso nessuno, per l'espressione dell'originalità e della libertà: l'unica libertà che viene concessa - si fa per dire - è quella di aderire alle attese ( dizionario mentale ) del partner. E come se esistesse una regia vincolante volta a rendere accettabili i comportamenti di entrambi esclusivamente per il fatto di corrispondere al dizionario mentale dell'altro. Ci si sente in questo modo rassicurati, in quanto si riscontra corrispondenza tra il modo con cui il partner agisce e le proprie attese ( previsioni ). Esattamente il contrario, verrebbe da dire, rispetto ai concetti di generosità, altruismo, dedizione che si è soliti associare all'amore coniugale. Il fatto è che, in qualche caso, ciascuno lascia libero l'altro di essere generoso, altruista ed amorevole nei modi " giusti " previsti - una volta di più - dal proprio dizionario mentale! É una specie di meccanismo che ci vincola, per il quale, a qualsiasi livello del ragionamento e a riguardo di qualsiasi argomento, siamo obbligati a servirci dell'unico strumento a nostra disposizione per capirne qualcosa, rappresentato dal nostro dizionario mentale che è diverso, ahimè, da quello di chiunque altro, nostra moglie o nostro marito compresi. Detto così, si è presi da un senso di sconforto, di pessimismo. Possibile, dirà qualcuno scandalizzato da queste riflessioni, che un rapporto di coppia si regga sulla tendenza sostanziale a riferirsi più a se stessi che alla persona amata? Non si può far altro che ammettere che le cose stanno il più delle volte proprio in questo modo. Quando tutto fila liscio, di questo non ci si accorge, perché a ciascuno dei due risulta facile rispettare il dizionario mentale del partner, trovandolo molto simile al suo, per cui, mentre rispetta quello del partner, rispetta il proprio ( o viceversa? ). Diversamente, per costruire e far andare avanti un rapporto di coppia non c'è altra scelta che volere dare dignità al dizionario mentale del nostro interlocutore affettivo. In altre parole, si tratta di far entrare nel nostro dizionario mentale, oltre al fatto che esso è giusto, che è giusto anche il suo e che, sempre volendolo, è possibile permettere che si influenzino reciprocamente; quindi parte dell'uno troverà accoglienza nell'altro e viceversa, arrivando, per così dire, ad un dizionario mentale di coppia diverso dai due di partenza. Quanta fatica per esprimere quello che abitualmente si dice con tre parole: intesa di coppia! ... in vista del matrimonio ... Esistono però dizionari mentali dai contenuti così differenti da essere tra di loro incompatibili e quindi da rendere arduo, se non impossibile, il procedimento di rispettivo adattamento. Nel caso della coppia, è compito della ricerca di conoscenza che si sviluppa prima della scelta matrimoniale valutare il grado di compatibilità e la capacità reciproca di convivere, rispettandolo, con il dizionario mentale dell'altro. E quello che un tempo si chiamava fidanzamento. Due giovani escono insieme ormai da quattro anni, si vogliono bene, lavorano entrambi: parenti ed amici, tutti si aspettano ormai la data delle loro nozze. In effetti ci pensano anche loro. In particolare la ragazza spesso riflette tra sé e sé: " Sono proprio innamorata di Simone. Stiamo bene insieme, abbiamo gusti simili, in linea di massima sappiamo andare d'accordo. C'è però un neo nella nostra intesa di coppia. C'è un comportamento di Simone che non riesco proprio ad accettare: quando si è in compagnia, si lascia condizionare dagli amici e molto spesso esagera nel bere. Quando succede, non ce la faccio, è più forte di me: sento un senso di repulsione, quasi di ribrezzo nei suoi confronti! D'altra parte ci vogliamo davvero bene, ormai tutti si aspettano che ci sposiamo. Facciamo così: io lo sposo, ma dopo sposati saprò pur trovare il modo di fargli perdere queste abitudini! ". Come reagirà Simone dopo sposato ai tentativi di entrare nel suo dizionario mentale per modificarlo? Si può facilmente prevedere di non trovarlo d'accordo; dirà probabilmente che quello è il suo modo di far festa con gli amici. Basterà l'amore e la magia dei primi tempi di matrimonio per fargli cambiare idea? O non pecca forse di ingenuità la futura sposina sperando che basti la frase: " Se mi vuoi bene non devi più fare così " o quella: " Lo dico per il tuo bene " per ritrovarsi vicino un uomo sempre sobrio e controllato? Non sarebbe meglio stare attenta a non sottovalutare la difficoltà, considerandola con tutta la necessaria attenzione ancor prima di decidere di sposarsi e non fingere con se stessa di averla risolta ricorrendo ad una specie di fuga in avanti che la costringerà a maneggiare questa castagna bollente dopo le nozze? Quando un ragazzo e una ragazza cominciano a uscire insieme, in molte regioni d'Italia si dice che quei due " si parlano ". Parlarsi, comunicare, è l'aspetto più evidente, forse più ovvio, agli occhi di chi osserva una coppia all'inizio di un rapporto sentimentale. I due infatti si cercano, sono interessati, curiosi l'uno dell'altra: si raccontano, vogliono sapere. È un modo spontaneo, quasi istintivo, per riuscire a intuire i rispettivi dizionari mentali, per verificare se essi sono compatibili, per provare ad armonizzarli tra di loro, per vedere, in altre parole, se riescono ad andare d'accordo. Le coppie che trascurano o sottovalutano questa iniziale verifica, spesso perché abbagliate dall'attrazione portata dall'innamoramento, corrono un maggior rischio di dover in seguito fare i conti con conseguenze inattese e talvolta sorprendenti. In questi casi non avviene la trasformazione dell'innamoramento nell'amore. Non si vuoi certo togliere nulla all'innamoramento. E troppo bello essere innamorati! L'innamoramento è dominato dalle emozioni, piacevolissime: ci si presenta nella veste migliore al fine di sedurre, si vede del partner solo l'aspetto più accattivante, ci si convince di aver trovato qualcuno senza difetti e si tenta di presentarsi senza difetti. E così che agli occhi dell'innamorato appaiono " vivaci e pieni di iniziativa " i modi di una donna invadente e pettegola, mentre l'innamorata descrive come " molto serio e riflessivo " il proprio ragazzo talmente chiuso e taciturno da non riuscire a cavargli una parola nemmeno a cannonate. Senza nulla togliere al suo fascino, l'innamoramento è un'esperienza per così dire " drogata ", nel senso che rischia di dare della realtà una visione illusoria, sognante e, a conti fatti, ingannevole. Il momento della verità, in cui si torna con i piedi per terra, è il momento in cui si vede finalmente l'innamorato come una persona con le sue qualità e con i suoi limiti, così come tutti gli altri. E anche il momento in cui ci si accorge che nel suo dizionario mentale ci sono annotazioni differenti, spesso inattese - talvolta piacevolmente inattese, altre volte meno - e si comincia a cercare i modi per farle andare d'accordo con le proprie, piuttosto che cercare di combatterle o di reprimerle. Se si riuscirà in ciò, alle attrattive dell'innamoramento si aggiungerà la saldezza ed il senso di fiducia dell'amore. Il caso contrario fa venire in mente l'immagine della costruzione di una casa sulla sabbia, con tutta la precarietà e le incertezze che questo può comportare. Sono complicazioni che si incontrano con tutti Riflettendo sul tema delle diversità esistenti tra i dizionari mentali e sull'attentato alla libertà che si può porre in atto quando non si riconosce diritto di vita e di rispetto a quelli degli altri, ci si è a lungo soffermati sul tema della coppia. Ciò non sta a significare che le osservazioni riportate valgano esclusivamente all'interno di un contesto affettivo: i medesimi meccanismi agiscono allo stesso modo in qualsiasi tipo di relazione, pur se con modi e gradi di intensità differenti. Valgono per il caso di un figlio che, finita la scuola media, vuole intraprendere un corso di studi giudicato non opportuno dai genitori, per quello di un lavoratore che organizzerebbe diversamente il lavoro rispetto a come gli viene richiesto dal suo capo, per quello di un genitore che si aspetta un certo atteggiamento educativo da un professore verso suo figlio, per quello di un assistente contestato da un ragazzo di un gruppo giovanile parrocchiale, e così via, in un elenco tanto lungo da comprendere tutti possibili collegamenti vitali. Per riassumere Il fatto che ogni individuo possa servirsi solamente del proprio dizionario mentale, frutto della sua personale esperienza di vita, come unico riferimento per interpretare le situazioni che incontra, rende priva di senso la ricerca di chi abbia torto o di chi abbia ragione in caso di difficoltà all'interno dei collegamenti vitali. L'armonia delle relazioni, lo stare bene con gli altri, passa attraverso lo sforzo di armonizzare il nostro dizionario mentale con quello degli altri, piuttosto che nel combattere le differenze che si presentano. Tenere conto dei diversi piani di ragionamento Cecità improvvise Esaminiamo la seguente affermazione: " CUESTA FRASE CONTIENE 3 ERORI ". Balza immediatamente all'occhio come l'affermazione sia sbagliata. Di errori infatti ce ne sono solamente 2, contenuti rispettivamente nella parola " cuesta " e nella parola " erori ". In effetti però, ad un più attento esame, ci si accorge dell'esistenza di un terzo errore: quello che indica in " 3 " e non in 2 il numero degli errori. Valutato da quest'ultima prospettiva, il contenuto della frase è corretto. Nel primo caso si è partiti dalla grammatica e si è arrivati ad una conclusione: l'affermazione è sbagliata; nel secondo caso si è usato un criterio logico più generale e si è arrivati alla conclusione opposta: l'affermazione è giusta ( 2 errori di logica grammaticale + 1 errore di logica generale ). Questa apparente incongruenza è dovuta al fatto che di primo acchito ci si è posti su un piano di ragionamento circoscritto ( quello della logica grammaticale ) e ciò ha provocato una vera e propria cecità quanto agli elementi appartenenti ad un piano logico più generale. Da questa cecità è derivato un ragionamento incompleto, che a sua volta ha portato ad una conclusione sbagliata. Non si pensi che queste forme di cecità rimangano circoscritte esclusivamente nell'ambito di domande-tranello costruite per gli appassionati di enigmistica. Esse spesso si insinuano nei ragionamenti che guidano i nostri collegamenti vitali, portandoli all'interno di vicoli senza uscita. Nascono a seguito di confusioni prodotte dalla presenza di più logiche, di più piani di complessità di ragionamento, quando la mente viene abbagliata da quello più semplice e di conseguenza è accecata nel cogliere quelli più complessi o più generali. Nei rapporti tra le persone, si notano tre categorie di possibili confusioni: quelle tra sintomo e problema, quelle tra mezzo e fine, e quelle tra singolo episodio e regola generale. 1. Confusioni tra sintomo e problema ( ovvero: quando si sbaglia bersaglio ) L'esempio più semplice per evidenziare questo genere di differenze è rappresentato dalla febbre. Chi ha la febbre infatti chiama il medico perché ha il problema della febbre. Quest'ultimo è abituato a ragionare in modo diverso ed a considerare la febbre come un sintomo, cioè come un segnale dell'esistenza di una malattia che provoca la febbre. Di conseguenza, la sua preoccupazione principale è quella di capire qual è il problema in modo da trovare la cura più adatta, non per far passare la febbre, ma per eliminare il problema stesso e guarire la persona. Se così non facesse, nel caso di una peritonite, il medico sfebbrerebbe il malato ( scambiando il sintomo con il problema ) e, giudicando così risolto il problema, lo lascerebbe in preda ad un'affezione ( che è il vero problema ) dalle conseguenze fatali. Come si presentano queste confusioni nelle relazioni interpersonali? Nell'educazione Daniel è un bambino di 7 anni, simpatico, socievole, obbediente, ma che da circa un anno ormai ha un'antipatica abitudine: quella di dire spesso bugie. Inizialmente, quando se ne sono accorti, i genitori non vi hanno dato molto peso. Si trattava di cose piccole. Pensavano ad un periodo transitorio, che sarebbe stato superato con la crescita. Si sono allora limitati al rimprovero, ma senza esito. Con il passare del tempo e con il progressivo aumento dell'importanza del contenuto delle bugie, dal rimprovero sono passati alla minaccia di punizioni; ultimamente sono arrivati ai castighi. Tutto ciò senza ottenere nessun risultato, se non quello di esasperare il rapporto educativo. Il problema di questi genitori è quello di avere un figlio che dice le bugie. Tutte le loro energie, tutta la loro attenzione, tutti i loro sforzi sono concentrati sul problema delle bugie. La nascita di Daniel è stata aspettata a lungo. Per molti anni sembrava che i genitori non potessero avere figli e, soffrendone molto, guardavano alle altre coppie che man mano diventavano papa e mamme con senso di inferiorità, quasi con invidia. Indicibile la felicità quando si accorsero dell'attesa di Daniel. Quanto più a lungo si aspetta l'avverarsi di un sogno, tanto maggiore è la gratificazione quando finalmente si realizza. Scattò in loro un meccanismo mentale inconscio che faceva loro pensare fosse venuto anche il momento per ripagarsi dell' avvilimento vissuto quando si sentivano perdenti nel confronto con le altre coppie. Da questa paternità e maternità si aspettavano e si aspettano quindi molte gratificazioni e, naturalmente, tanto maggiori saranno queste soddisfazioni, quanto maggiori saranno le qualità, le doti ed i risultati che Daniel sarà capace di esprimere. In altre parole, si è sviluppato nei riguardi di questo bambino un livello di aspettative molto elevato. Da parte sua, egli si sforza di mostrarsi all'altezza, ma non riesce sempre a soddisfare le attese dei genitori, sentendole superiori alle sue capacità. In questi casi, la sua mente inconscia gli suggerisce di inventare una bugia dietro alla quale nascondere la sua incapacità, sperando così di ottenere anche l'effetto di evitare una delusione ai genitori. E ovvio che, in questo caso, Daniel smetterà con le bugie ( non avrà più bisogno di dirne ) solamente quando i genitori si accontenteranno di avere un bambino normale e non superlativo. I tentativi fatti sino ad ora dai genitori per eliminare il comportamento indesiderato non hanno dato frutto perché hanno visto nelle sue bugie il problema, anziché considerarle un sintomo del vero problema rappresentato dal loro bisogno di scaricare sul figlio le passate frustrazioni. Di qui il suggerimento a preoccuparsi prima di tutto dei propri atteggiamenti, modificati i quali, si modificheranno quelli di Daniel. Sul lavoro Dire bugie non è un modo per cercare di trarsi d'impaccio caratteristico solamente dell'infanzia: molti adulti vi fanno ricorso e, in alcune organizzazioni sociali, è un accorgimento molto utilizzato. Quegli uffici o quelle officine i cui responsabili sono molto severi, facili al rimprovero ed alla punizione, sono in effetti gli ambienti in cui si ricorre con maggiore frequenza alle bugie ed ai silenzi dissimulatori. Spesso, quando questi atteggiamenti vengono a galla, ci si lamenta della slealtà dei sottoposti e del difetto di trasparenza delle loro comunicazioni interne. Si tenta di migliorare questo stato di cose censurando e punendo o cercando di convincere ad una maggiore sincerità. Nella maggior parte dei casi tutto ciò senza alcun effetto o con risultati temporanei. Una volta di più si confonde il sintomo con la causa. Non ci si chiede infatti come mai degli adulti sentano il bisogno di ricorrere in modo sistematico alla bugia o alla dissimulazione. Ebbene, si tratta del bisogno di difendersi, temendo di dover sottostare alle reazioni punitive e fortemente penalizzanti sistematicamente attivate dai capi in caso di inconvenienti o errori. Si cerca di nascondere per evitare di finire sulla gogna. E inutile rammaricarsi di questo stato di cose deplorando il ricorso ad atteggiamenti immaturi da parte di adulti che non si assumono le proprie responsabilità: da che mondo è mondo, qualsiasi essere vivente che si sente attaccato o in pericolo si difende nel modo che gli riesce più agevole, anche con la fuga nel silenzio o nella menzogna, come in questi casi. Analizzata in questo modo la situazione, si arriva ad una diversa conclusione: l'assenza di trasparenza è un sintomo, che denota l'esistenza del vero problema, costituito dal clima inquisitorio e sanzionatorio dei superiori. Se si ritiene inaccettabile questo stato di cose, è sul problema rappresentato dall'inadeguatezza dello stile gestionale dei capi che bisogna intervenire e non sul sintomo rappresentato dalle strategie difensive dei sottoposti. Si noti quanto pericoloso sia per un'organizzazione non riuscire ad affrontare correttamente questo genere di situazioni. Nelle condizioni appena descritte, i livelli decisionali della struttura organizzativa si trovano ad essere disinformati su molte disfunzioni, taciute per paura; questa disinformazione si riflette inevitabilmente sulla qualità delle decisioni che vengono prese presupponendo un quadro di realtà non corrispondente al vero. Il ricorso a tanta severità con lo scopo di ottenere il massimo di efficienza finisce per essere il punto di maggiore debolezza e fragilità del sistema organizzativo, un vero e proprio tallone d'Achille. Nelle difficoltà sessuali Alcune coppie incontrano difficoltà che si possono manifestare in uno o in entrambi i partners e che influiscono negativamente sulla serenità della loro vita intima e sulla soddisfazione che ne ricavano. Ciò è spesso motivo di crisi ed induce i due a cercare di fare di tutto per risolvere al più presto l'inconveniente. Si sforzano quindi di capire cosa ci sia che non va nel loro modo di avvicinarsi, di valutare con attenzione le loro abitudini sessuali, di suggerire o esigere dal partner nuovi comportamenti per migliorare la loro intimità. Qualche volta queste analisi vengono fatte dialogando insieme, nella maggior parte dei casi sono elaborazioni individuali fatte per conto proprio. Il risultato è comunque quello di trasformare il rapporto intimo in una situazione in cui si tenta di fare all'amore solo con la volontà e con il cervello, come se si trattasse di un compito scolastico in cui essere valutati. Ne consegue per gli interessati la frequente esperienza di blocchi emotivi, che li paralizzano nell'assecondare lo svolgimento del rapporto, con il risultato di un ulteriore scadimento nella qualità della vita intima portato proprio dalla tensione del " fare le cose bene ". Se si escludono le disfunzioni legate a cause di natura fisica ( malformazioni degli organi genitali, malattie, o uso di farmaci inibenti il desiderio sessuale ) che costituiscono comunque una esigua minoranza statistica, l'origine della difficoltà, il vero problema, va ricercato al di fuori della sfera sessuale. La prova si ha nel fatto che le terapie più efficaci prevedono il coinvolgimento di entrambi i membri della coppia, non solamente di quello attraverso il quale si manifesta la difficoltà. Tramite questo coinvolgimento, emergono in modo sistematico elementi relativi al rapporto di coppia inteso nella sua globalità che si insinuano e condizionano la vita intima. Gli esempi possono essere molti e diversificati: si va dalle coppie in cui uno dei due interiorizza o colpevolizza l'altro nei più svariati campi e quest'ultimo, sentendosi sotto esame anche nell'intimità, ne risulta inibito a quelle in cui si registrano forti e persistenti tensioni di coppia che si trasferiscono anche nel modo di rapportarsi a livello sessuale, a quelle ancora che non trovano un accordo sui metodi da applicare per una procreazione responsabile lasciando in tal modo campo aperto alla presenza di ansie ( più probabilmente da parte femminile ) legate all'eventualità di una maternità indesiderata, a quelle infine in cui, dopo la nascita di un figlio, non si riesce a far convivere il ruolo di madre con quello di moglie o quello di padre con quello di marito, finendo per privilegiare le responsabilità genitoriali a scapito della vita intima. In tutti questi esempi, che sono i più frequenti tra quelli riscontrabili nella realtà, è evidente come la disfunzione sessuale non rappresenti il problema, ma il sintomo attraverso il quale si manifesta il vero problema rappresentato dalle inadeguatezze presenti nello stile di vita della coppia inteso nel suo insieme. Se si vuole risolvere l'inconveniente, bisogna indirizzare l'attenzione non a quello che succede nell'intimità, ma a ciò che avviene in tutte le manifestazioni della vita dei due. Ci sono casi in cui l'origine di una disfunzione sessuale va ricercata nel dizionario mentale, cioè nelle esperienze vissute e registrate in tempi e luoghi lontani dal presente, con persone diverse rispetto al partner attuale. Si tratta dei casi di violenze subite, di informazioni sbagliate avute a riguardo della sessualità, di esempi traumatici raccolti in ambiente familiare nel corso dell'infanzia o dell'adolescenza ... Anche in questi casi risulta evidente come la disfunzione sessuale non rappresenti il problema, ma il sintomo che segnala l'esistenza del vero problema, rappresentato dalla natura dei contenuti registrati nel dizionario mentale. Ed è a questi contenuti che va orientato il tentativo di una soluzione. Nei casi di anoressia I casi di anoressia ( la grave malattia psichica che colpisce prevalentemente le femmine nel periodo adolescenziale e immediatamente successivo e che si manifesta con un rifiuto psicologico del cibo, sino - nei casi più gravi - alla morte per denutrizione ) rappresentano un altro campo in cui si assiste frequentemente a confusioni tra sintomo e problema. E del tutto logico infatti che, nel momento in cui una ragazza inizia a limitarsi in modo esagerato nel mangiare, i familiari si preoccupino e che la preoccupazione aumenti qualora ciò comporti una forte diminuzione di peso; ancor più quando il dimagrimento diventi evidente nell'aspetto esteriore. Del tutto comprensibili quindi le pressioni che essi fanno per consigliare, per convincere, per indurre al ritorno alla normalità nell'alimentazione. Qualche volta provano a prendere la ragazza con le buone, altre volte possono ricorrere all'autoritarismo. L'unico effetto che ne ricavano è quello di trasformare tutto ciò che ha a che fare con il cibo, ed i momenti dei pasti in particolare, in una specie di incubo carico di nervosismo e di tensione. Ogni pasto è preceduto dalla speranza ansiosa di un minimo cambiamento, è accompagnato da un attenta osservazione di tutto ciò che viene o non viene mangiato e seguito dalla delusione. Tutte queste tensioni, di cui l'anoressica viene fatta oggetto, aumentano inevitabilmente la sua ansia e vanno paradossalmente a rinforzare proprio le sensazioni di ripulsa legate al blocco psicologico verso il cibo. In altre parole, tutto ciò che i familiari tentano per aiutarla a venir fuori dalla difficoltà, rappresenta un ostacolo in vista di un ritorno alla normalità. Si ricorrerà anche alle cure mediche, spesso alla definizione di un piano alimentare minimo, con una volta in più l'effetto di caricare ulteriormente di ansietà il cibo insieme a tutto ciò che ad esso si collega. Il punto è che l'anoressia, secondo l'esperienza scientifica più recente ed accreditata, non è il vero problema, ma il sintomo del fatto che la ragazza si percepisce come inadeguata per rapporto agli altri. Essa rappresenta anche il drammatico tentativo di rendere accettabile la percezione di sé attraverso il controllo dell'alimentazione. Partendo da queste premesse, risulta evidente come interventi mirati ad eliminare direttamente il sintomo ( il non-mangiare ) siano destinati a risultare inefficaci: è il problema di accettarsi e di convivere con la percezione della propria persona che va affrontato. Con questo non si vuole affermare l'inutilità di interventi sintomatici, ad esempio quelli di natura medica, per garantire nei casi più seri il minimo vitale di alimentazione; si vuole però sottolineare che non ci sarà soluzione se non attraverso una corretta distinzione tra sintomo e problema, che permetta di orientare gli sforzi nella giusta direzione. Tutti gli esempi riportati consigliano quindi di chiedersi, in caso di difficoltà nelle relazioni con gli altri, quali siano i sintomi e quale sia il problema. Sembra risultare chiaro che intraprendere azioni correttive basandosi esclusivamente sull'evidenza dei sintomi, ha determinato in tutti i casi citati una specie di miopia che è stata di ostacolo nel cogliere aspetti significativi della situazione ad un livello di ragionamento più generale o più complesso. La conseguenza costante di questa miopia è stato l'indirizzo delle energie in una direzione inadatta ad eliminare le cause da cui originano i sintomi e quindi per ricuperare il benessere. 2. Confusioni tra mezzo e fine ( ovvero: quando il rimedio è peggiore del male ) Verso la metà dell'Ottocento, in una cittadina piemontese dell'allora Regno di Sardegna si sparse la voce che di lì a qualche tempo vi si sarebbe fermato ospite per una notte re Vittorio Emahuele II. La cittadinanza, sindaco e notabili in testa, si mobilitò con molto anticipo nei preparativi per garantire all'augusto ospite un soggiorno che, nelle loro dichiarate intenzioni, avrebbe dovuto essere tanto confortevole da renderglielo indimenticabile; con questo intendimento, tutto fu studiato e previsto fin nei più minuti dettagli. E venne finalmente il gran giorno. Tra due ali di folla plaudente il corteo regale percorse le strade imbandierate per raggiungere la piazza principale, dove il sindaco diede il benvenuto a nome della città ed il re, a sua volta, ebbe parole di saluto e di apprezzamento per l'accoglienza ricevuta. La cena di gala, alla quale erano stati invitati tutti i cittadini influenti, era un secondo momento molto atteso. Sua Maestà aveva fama di buongustaio, per cui ci tenevano a fare bella figura. Il menu era stato scelto dopo che una delegazione si era recata a Torino per informarsi direttamente a Corte dei gusti gastronomici del re. Tanta attenzione venne premiata dal compiacimento del sovrano e del suo seguito. Venuto il momento di accompagnare Vittorio Emanuele II a riposare, la preoccupazione fu quella che nel corso della notte non avesse a soffrire il freddo, dato che la cittadina in questione si trovava ai piedi delle montagne e la stagione non era più tanto favorevole. Le cose erano andate così bene fino a quel momento che sarebbe stato veramente un peccato rovinare tutto all'ultimo per aver trascurato qualche particolare. Si decise allora che, non appena il sovrano si fosse ritirato, un messo comunale avrebbe stazionato nel corridoio davanti alla stanza regale con alcune coperte con il compito, tutte le ore, di bussare alla porta per chiedere al re se avesse freddo e, qualora la risposta fosse stata affermativa, di fornire le coperte aggiuntive. Assicuratesi che il messo avesse capito bene le istruzioni ricevute e dopo avergli severamente raccomandato di rispettarle alla lettera, il sindaco si congedò. Ed il messo, diligentemente, si comportò nel corso della notte secondo le disposizioni ricevute. Più attenti ed ospitali di così! Quale altra cittadina sarebbe stata capace di vegliare con maggiore premura sul sonno dell'augusto ospite? E molto probabile che per il re quella sia stata veramente una notte indimenticabile ... non proprio nel senso che si ripromettevano i suoi sudditi, però. Assicurarsi della bontà del sonno del re era l'accorgimento previsto per raggiungere lo scopo. All'accorgimento venne però attribuita una funzione così predominante da far sì che il vero obiettivo ne fosse scavalcato: quanto fece il messo comunale nel corso della notte finì per soddisfare il piano operativo individuato, ma impedì di raggiungere il risultato voluto. Un aneddoto che esemplifica quali misfatti si verifichino quando nella mente delle persone le strategie di comportamento si confondono con i loro obiettivi, sostituendosi ad essi. Con gli anziani Il signor Ernesto è un vecchietto ottantacinquenne. Rimasto vedovo, decise qualche anno fa di ritornare nella sua terra di origine dove ora vive da solo, essendo i figli residenti lontano. Ha avuto qualche preoccupante acciacco negli anni passati, che però ha superato grazie alle cure appropriate ed alla sua forte fibra. All'epoca si era lasciato convincere a trasferirsi temporaneamente presso i figli, in modo da poter essere più facilmente assistito, ma appena ristabilito, è ritornato senza indugi a casa sua. In quell'occasione i medici gli prescrissero alcune importanti medicine, indispensabili per scongiurare il rischio di una ricaduta dall'esito quasi certamente fatale, raccomandandogli di prenderle ogni giorno. Ma ormai la memoria è diventata piuttosto labile e sono più numerosi i giorni in cui, vivendo da solo, si dimentica di prenderle, di quelli in cui si ricorda. La memoria gli gioca spesso anche altri tiri mancini: parecchie volte ha dovuto chiamare i vigili del fuoco per farsi aprire la porta di casa, avendo dimenticato le chiavi all'interno, tre o quattro volte ha avuto delle vere e proprie amnesie che lo hanno messo in difficoltà facendogli perdere l'orientamento per le strade del paese. Fortuna che è conosciuto da tutti ed è stato aiutato a ritrovare la via di casa. E ancora: gli capita di perdere documenti, denaro. Ciò che però preoccupa particolarmente i figli è il ricordo di due suoi precedenti malori, quando perse conoscenza e, a causa della solitudine, fu soccorso proprio per caso, grazie a coincidenze che hanno quasi del miracoloso. Pensano necessario fare in modo che si curi regolarmente, che non corra dei rischi, che sia protetto dai capricci della sua memoria ormai inaffidabile. In altre parole, vorrebbero garantirgli condizioni di vita adatte per la miglior conservazione della sua salute. Si fa strada l'idea di ospitarlo in un pensionato per anziani, visto che non vuole lasciare la sua terra di origine. Ne trovano uno che presenta tutti i requisiti del caso. Ne parlano al signor Ernesto, ma egli va su tutte le furie: non ha nessuna intenzione di cambiar vita, di rinunciare alla sua indipendenza ed alla sua autonomia. Il rifiuto è categorico. I figli stanno pensando come fare per cercare di convincerlo. Anche in questo caso è in agguato il paradosso rappresentato dall'eccessiva concentrazione sull'idea trovata per far stare bene il signor Ernesto, al punto da farla diventare la preoccupazione principale e da distogliere l'attenzione dal raggiungimento della vera finalità. Infatti, i modi pensati dai figli per farlo stare bene comportano, dal suo punto di vista, una limitazione dell'autonomia, una specie di prigione sicura e dorata; dorata certo, ma sempre prigione. Sicuramente assumerà tutte le medicine, in caso di bisogno sarà tempestivamente soccorso, non si chiuderà più fuori dall'alloggio né si perderà più per le strade. Probabilmente vivrà più a lungo ... ma in cuor suo sentirà di vivere peggio. Tutto ciò che i figli stanno progettando per farlo star bene avrà come effetto quello di farlo stare male. Comincerà a dire che i figli non gli vogliono bene, e non sarà solo l'espressione dei capricci di un vecchietto. Quanti sguardi, quanti visi di anziani, ospiti di pensionati anche prestigiosi, lasciano trasparire tanta tristezza e tanta insoddisfazione! Questo dovrebbe far sorgere il dubbio sull'idoneità di certe scelte per farli stare bene. Prima del matrimonio Anche nel periodo precedente il matrimonio si riscontra con una certa frequenza una confusione tra strategie di comportamento e finalità cui queste stesse strategie sono indirizzate. Questa fase ha lo scopo principale di permettere ad entrambi di arrivare in modo responsabile alla promessa matrimoniale, attraverso la verifica della compatibilità dei rispettivi dizionari mentali, delle proprie personalità, dei propri gusti e dei propri indirizzi di vita. Se così non fosse, una volta avvenuto l'incontro e preso atto dell'attrattiva reciproca, non resterebbe che accasarsi subito. Si sa che quando due giovani si amano, stanno bene insieme ed ogni occasione è favorevole per cullarsi nel benessere provato. Per di più, il fatto di essere coppia apre molteplici possibilità da sfruttare da soli o insieme ad altre coppie di amici. Tutto è così attraente e coinvolgente! I due rischiano allora di cercarsi con l'unico scopo di star bene insieme, perdendo di vista il vero obiettivo che è quello di conoscersi meglio, in qualche modo anche per mettere alla prova un'intesa a due che sta muovendo i primi passi. Un tempo dedicato all'impostazione ed alla costruzione di un rapporto affettivo destinato a durare, si può trasformare in un tempo in cui ci si limita a fruire delle opportunità immediate offerte dal fatto di avere il ragazzo o la ragazza. Viene da chiedersi: in base a che cosa i due giovani potranno considerarsi adatti l'uno per l'altra, al punto da promettersi una vita in comune? Ci si potrà anche chiedere se il motivo del numero sempre crescente di matrimoni che entrano irrimediabilmente in crisi fin dai primi anni ( o fin dai primi mesi ) non possa essere fatto risalire proprio ad un equivoco tra mezzo e finalità, per cui il mezzo si trova a prevaricare lo scopo di quello che fino a non molto tempo fa veniva chiamato fidanzamento. Già!, ora non si chiama più così, anzi ora nel linguaggio corrente non ha più nemmeno un nome. Il che fa sospettare il rischio che se ne vada perdendo anche la funzione. Nell'educazione La famiglia Crabbini è, da generazioni, una famiglia di intellettuali. Il padre è docente universitario, la madre lavora come curatrice di alcune collane di narrativa per un noto editore. Inutile dire che la loro è una casa in cui si respira cultura: libri e ri viste dappertutto, qualcuno intento nella lettura in ogni momento. La nascita del figlio Jacopo rappresentò a suo tempo l'aprirsi della prospettiva di trasmettere alla generazione successiva quanto per loro c'era di più prezioso: l'amore per lo studio e per la cultura. Jacopo, in realtà, ha sempre dimostrato fin da piccolo di preferire i giochi di costruzione e di movimento ai pastelli per colorare ed ai libri per l'infanzia. Quando iniziò la scuola, il suo primo impatto con i quaderni e con la scrittura non fu certo un amore a prima vista. Gli costava molta fatica distogliersi dagli altri interessi per fare i compiti e, successivamente, quando ebbe un po' più di dimestichezza con la lettura, non si dedicava come esigevano i genitori a leggere i tanti bei libri che aveva. I signori Crabbini erano naturalmente convinti che bisognasse sviluppare nel figlio l'interesse per la lettura, affinché la sua mente si aprisse. Poco alla volta si venne ad instaurare una specie di braccio di ferro tra i frequenti inviti dei genitori e gli altrettanto frequenti rifiuti del figlio. Numerosi libri per ragazzi, procurati nel tentativo di interessare Jacopo, giacevano dimenticati in un angolo della sua cameretta. Si imponeva a questo punto un'azione più incisiva. I genitori iniziarono allora a essere più sistematici nei loro inviti. In presenza di richieste del figlio, condizionarono sempre più spesso il loro consenso al fatto che dedicasse qualche tempo a leggere. Chiesero anche alle insegnanti a scuola di cercare di convincerlo. Con l'andare del tempo, la tensione familiare legata al rapporto di Jacopo con i libri divenne sempre più accentuata, al punto da influire negativamente sul suo rendimento scolastico, portandolo a terminare le medie con il giudizio minimo. I genitori, che avevano sempre pensato ovvia per un figlio la frequenza del liceo classico, ora si chiedono quale orientamento dare ai suoi studi. Tanto hanno fatto senza raccogliere nulla. Lo schema dei comportamenti mirati ad interessare Jacopo alla lettura è diventato così importante e vincolante da impedire di accorgersi che è proprio esso ad impedire il raggiungimento dell'obiettivo, producendo addirittura l'effetto di rendergli antipatici i libri. Azioni educative impostate secondo questo metodo e con i medesimi indesiderati risultati si riscontrano spesso quando i genitori ci tengono troppo a che i figli condividano qualche loro indirizzo. Quanto più gli adulti attribuiscono importanza ad una certa passione o convinzione, da volerla a tutti i costi trasmettere ai figli, tanto più aumenta il rischio che i loro tentativi di condizionamento ottengano una reazione di rifiuto. Si può citare quel padre che per far innamorare il figlio della montagna lo fa faticare al punto da fargliela odiare. O quella madre che, ricorrendo ad asfissianti insistenze o a raggiri, orditi con le migliori intenzioni per far in modo che il figlio vada a messa, ottiene il risultato di allontanarlo sempre più dalla pratica religiosa. Nella cura della salute La nottata appena trascorsa da Vittorio in una corsia d'ospedale è stata molto difficile: il dolore dovuto alla malattia, il caldo afoso del periodo estivo, il continuo lamento di un vicino di letto appena operato ed il relativo andirivieni degli infermieri, gli hanno impedito di chiudere occhio. Star sveglio nel letto ha acuito la sua sofferenza. Brutti pensieri si sono affollati nella sua mente in relazione all'incertezza di un quadro di malattia che i medici stentano a capire. Per il momento, in attesa di completare le analisi, essi si limitano a somministragli dei sonniferi e dei farmaci per aiutarlo a controllare la sua attuale incontenibile apprensione per quello che gli sta capitando. Questa notte però le medicine non gli hanno portato beneficio. Ormai verso l'albeggiare, forse grazie a quel po' di frescura che si fa sentire verso quell'ora, Vittorio è finalmente riuscito a prendere il tanto sospirato sonno. Alle sei, con professionale, ammirevole ed inflessibile puntualità, l'infermiera si avvicina al letto di Vittorio dormiente e lo sveglia per fargli prendere la prima dose del farmaco che gli è stato prescritto per aiutarlo a dar quiete alle sue emozioni. Una volta di più il mezzo la vince sull'obiettivo e ne impedisce il conseguimento! Quando stava bene grazie al sonno egli è stato svegliato con lo scopo di fare il necessario per farlo stare bene. Appena sveglio infatti le sue ansie si sono di nuovo immediatamente scatenate. In tutti questi casi si potrebbe dire che il rimedio è stato peggiore del male. Molte volte ci si preoccupa prevalentemente che le decisioni e le azioni siano appropriate alla metodologia che si è decisa, alle regole che ci si è dati, piuttosto che valutarne l'effettiva utilità per il raggiungimento dei risultati voluti. E opportuno non perdere mai di vista questi risultati, al fine di controllare che le strade scelte per il loro conseguimento siano sempre adatte. 3. Confusioni tra caso singolo e regola generale ( ovvero: quando una parte vale per il tutto ) La distinzione tra caso e regola ci riporta al cuore stesso del funzionamento dei dizionari mentali. Si è detto che il meccanismo per la loro formazione e per il loro continuo aggiornamento si basa sull'estensione a nuove situazioni - cioè a nuovi insiemi di informazioni sul mondo esterno, raccolte di volta in volta dai nostri cinque sensi - dei significati emersi in precedenti analoghe circostanze, quando si stabilì un collegamento tra quel certo quadro sensoriale e le reazioni da esso suscitate al nostro interno. Si tratta di un continuo lavoro di confronto tra presente e passato che il cervello attua incessantemente, il più delle volte senza che ne siamo consapevoli, per permetterci di capire quello che succede in noi ed intorno a noi e quindi per metterci in condizione di comportarci nel modo più appropriato. La nostra mente è però talmente abituata a servirsi di questo meccanismo da essere qualche volta portata ad abusarne. Ciò avviene, ad esempio, quando non ammettiamo eccezioni a quanto registrato nel nostro dizionario mentale e lo riteniamo infallibile: si tratta dei nostri pregiudizi, cioè di quelle idee che ci inducono a interpretare fatti o a giudicare persone sulla base di pochi elementi che si impongono a prima vista per la loro evidenza. Luoghi comuni legati all'aspetto esteriore Molti luoghi comuni riguardano l'aspetto fisico delle persone. Ci si aspetta ad esempio che ad una corporatura rotondetta si accompagni un carattere gioviale, mentre alla magrezza corrisponda una personalità seria e riservata. Si lega il possesso di una capigliatura rossa ad un carattere ribelle; fatto questo che presupporrebbe addirittura un legame a livello genetico tra le due caratteristiche. Il modo di vestirsi, il modo di acconciarsi i capelli e di truccarsi sono altri elementi che spesso ci inducono a giudicare basandoci su pregiudizi. Come ci presentiamo nel nostro aspetto esteriore e nel nostro abbigliamento comporta, piaccia o no, un nostro quasi automatico incasellamento da parte di chi incontriamo ( particolarmente se non ci conosce o ci conosce poco ) all'interno di una specifica categoria di esseri umani con la quale, secondo il suo dizionario mentale, dobbiamo per forza avere in comune certe caratteristiche. E come si trattasse di una specie di " divisa " che si vorrebbe adatta a distinguerci gli uni dagli altri: così come vedendo andare allo stadio qualcuno con la maglia di un certo colore si ha la certezza della sua appartenenza ad una certa tifoseria, cosi si vorrebbe attribuire tutta una serie di caratteristiche psicologiche partendo esclusivamente dall'aspetto esteriore rispetto al quale nulla hanno a che fare. Esercizio piuttosto pericoloso questo, tant'è che la saggezza popolare ci mette in guardia sottolineando come l'abito non faccia il monaco. Ne può sapere qualcosa qualche ragazza adolescente che, alle prese con un corpo che si va modellando giorno dopo giorno, si serva in modo marcato del trucco o indossi abiti che ne sottolineino spiccatamente la femminilità; si tratta certamente di ragazze serie che peraltro, ricorrendo a questo stile per curare il proprio aspetto esteriore, cadono più facilmente e senza rendersene conto nel gioco dei pregiudizi altrui, rischiando di finire nella categoria di " quelle che ci stanno ", con conseguenze certamente poco piacevoli se dovessero mai imbattersi in qualche giovanotto esaltato. I razzismi Un'altra fertile area di pregiudizi è rappresentata dalle provenienze regionali e, da qualche tempo a questa parte, anche da quelle etniche. Sovviene alla memoria il noto film " Indovina chi viene a cena ", che descrive la difficoltà per una coppia di giovani, lui afro-americano, lei di razza bianca, di convincere le rispettive famiglie, entrambe ottime, ad acconsentire alle loro nozze. Se il lettore ritenesse oziose queste considerazioni e pensasse che, sì, i pregiudizi esistono, ma sono cose da sempliciotti e chi è un po' accorto ed intelligente sa come difendersene, immagini - quanto più realisticamente gli riesce - di sentire suonare il campanello alla porta di casa, di lasciare il libro, alzarsi, andare ad aprire, trovarsi di fronte un extracomunitario ( albanese, o medio-orientale, o africano, o slavo, o altro ) che, fatto entrare, gli dichiara l'intenzione di sposare la figlia ( o la sorella, o la nipote ). Pensi alle proprie reazioni emotive e le raffronti a quelle che proverebbe se il giovanotto fosse italiano: la differenza qualitativa tra le due eventualità è l'indice dell'azione dei suoi pregiudizi razziali o etnici. A proposito, come mai non l'ha neppure sfiorato l'idea che si tratti di un ricercatore universitario, in Italia per portare avanti sofisticate sperimentazioni scientifiche? Come mai il lettore ha scelto proprio quell'interlocutore avente quella specifica origine nazionale o etnica, tra quelle proposte per questo episodio immaginario? Non pensa che anche questa scelta risenta di qualche elemento collegabile ai suoi pregiudizi? É normale avere dei pregiudizi: essi sono, per cosi dire, il sottoprodotto derivante dal funzionamento del nostro dizionario mentale quando si dimentica di ammettere l'esistenza di eccezioni. Avviene allora che la regola generale faccia violenza sul caso singolo ad un punto tale da negare l'eventualità di una sua esistenza. Esserne consapevoli serve prima di tutto a mettere in guardia circa la costante presenza dei pregiudizi e secondariamente a suggerire di andare al di là delle apparenze e della prima impressione. Le generalizzazioni Un'altra forma di possibile confusione tra caso singolo e regola generale si verifica quando, fatta un'esperienza relazionale, ci si aspetta che si ripeta in futuro esattamente alla stesso modo, secondo un copione che, una volta stabilito, non possa se non essere replicato pari pari. Ivan è ancora fresco di patente e non ha ancora una propria auto. Rendendosi conto di essere alle prime armi, è prudente e non si lascia prendere dalla smania della velocità. É sabato ed ha chiesto al padre l'uso dell'auto di famiglia per la sera, ottenendone l'assenso. Giunta l'ora, caricati gli amici, parte per andare al concerto di un cantautore famoso. C'è una gran ressa, il parcheggio è quasi esaurito ma con qualche fatica riesce trovare un posticino in cui la macchina entra di misura. Alla fine del concerto, un po' preoccupato di guidare in mezzo a tanta confusione, aspetta che la maggior parte della gente sfolli, in modo da correre meno rischi. Quando si avvicina alla macchina, la sorpresa: qualcuno ha urtato lo specchietto esterno danneggiandolo in modo vistoso. Tutta la soddisfazione per la piacevole serata trascorsa sino a quel momento si dissolve in un attimo per lasciar posto alla preoccupazione delle reazioni paterne. Dice però tra sé e sé che l'accaduto è del tutto casuale: come avrebbe potuto immaginare una cosa del genere? Chiunque al posto suo non potrebbe far null'altro se non dispiacersi per l'accaduto. D'altra parte, non era certamente il caso di rimanere lì tutta la sera a fare la guardia. L'indomani mattina, da un lato esitante, dall'altro con la sensazione di avere la coscienza a posto, informa il genitore dell'accaduto. " Lo sapevo! Di tè non ci si può fidare. Per una volta che ti lascio la macchina me la riporti indietro danneggiata. Da ora in poi non se ne paria più " è la replica severa del padre. Reagendo in questo modo, il padre ha trasformato un episodio, spiacevole fin che si vuole, in una regola. Ciò lo indurrà a ragionare sul presupposto che tutte le volte future in cui dovesse concedere al figlio l'uso della macchina, gli verrebbe restituita danneggiata. E possibile che, sbollita la reazione a caldo, egli ritorni su questa decisione. Tuttavia, quando nelle prossime settimane Ivan avrà a disposizione l'auto, il padre non sarà tranquillo, nella prospettiva di vedere confermata la regola ricavata dall'esito del primo episodio. Olga è stata molto preoccupata nel corso dei primi anni di vita della figlia Lorella a causa di una polmonite di cui la bimba soffrì quando aveva poco più di un anno. Era stata una forma virale piuttosto seria, che si era manifestata dapprima con una tosse insistente, poi con la febbre. Si dovette ricorrere al ricovero in ospedale. Le cure furono molto efficaci, l'organismo di Lorella reagì molto bene e, alle visite di controllo cui venne sottoposta periodicamente negli anni successivi, il pediatra segnalò la sua completa guarigione, negando la necessità di cautele o prudenze particolari. Olga però ha sempre tenuto in casa medicine per la cura dell'apparato respiratorio e, al minimo accenno di tosse, le somministra a Lorella. Si può ben capire, con tutto quello che avevano passato quando era più piccola! Meglio prevenire che dover poi curare. Ora Lorella è cresciuta, ha otto anni, e chiede insistentemente di partecipare con le amiche ad un corso di nuoto. Olga è preoccupata: è inverno e l'idea che, finita la lezione, la figlia passi dal caldo della piscina al freddo esterno, forse senza essere riuscita ad asciugare come si deve i suoi lunghi capelli, la indurrebbe a rifiutare il permesso alla figlia nel timore di vederla cadere ammalata. Olga ha ragione ad immaginare che la figlia possa ammalarsi se non fa attenzione a ripararsi adeguatamente dal freddo dopo l'ora in piscina. E l'idea che Lorella corra più rischi delle sue coetanee e che quindi nel suo caso sia necessario negare ciò che alle compagne è normale accordare che va messa in discussione. L'errore, che rischia di limitare le opportunità per la bambina di fare esperienze sportive e relazionali, nasce dalla trasformazione in regola di un episodio singolo ( la polmonite ) che ne rende agli occhi della madre inevitabile la replica se solo si cali per un attimo la guardia. Effetto alone Analoghe forme di trasformazione in regola generale di episodi singoli si riscontrano in ambito scolastico. Una considerazione molto diffusa tra universitari rileva come, se i primi voti registrati sul libretto sono buoni, sarà più facile continuare ad averne di buoni anche negli esami successivi. E probabile che ciò avvenga perché chi sa applicarsi ed ha i mezzi intellettivi per superare con successo un primo esame potrà usare queste sue risorse per ottenere una buona votazione anche in quelli successivi. D'altra parte, non stupirebbe se l'esaminatore, consultato il libretto dello studente ancor prima di averlo interrogato e preso atto della votazione registrata dai colleghi di altre discipline, ne ricavasse la previsione di una analoga buona preparazione. Questa previsione potrebbe influire sia sulla scelta del grado di difficoltà dei quesiti che verranno posti, sia sulla valutazione complessiva. Certamente questo meccanismo non permette ad uno studente impreparato di superare un esame, ma di spuntare qualche trentesimo in più, forse sì. Analogamente, sempre in ambito scolastico e con riferimento alle medie ed alle superiori, la votazione ottenuta da uno studente nella prima prova di verifica o nella prima interrogazione quando incontra una nuova materia o un nuovo professore ha qualche possibilità di influire, positivamente o negativamente a seconda dei casi, sulle votazioni ottenute in successive occasioni. Anche in questi casi, il singolo episodio può essere interpretato come regola e influire al di là della sua specifica portata. Dal generale al particolare Alfredo e Caterina dopo otto anni di matrimonio si sono separati. Ultimamente la loro convivenza era diventata veramente pesante: lunghi mutismi, provocazioni, ripicche. É stato duro per entrambi arrivare alla decisione di separarsi. Sembrava impossibile che il loro progetto matrimoniale dovesse andare in fumo: ci avevano creduto entrambi. Gli inizi erano anche stati promettenti e sembravano confermare tutte le loro speranze. Poi con il passare del tempo, non si capisce bene come - forse la stanchezza, forse la routine - ad un certo punto si sono trovati lontani ed è diventato sempre più difficile ricucire un'intesa. Preso atto che non volevano più sopportare questo matrimonio diventato per loro una fatica, sono andati dall'avvocato ed hanno fatto quanto serve nella circostanza. Dalle loro incomprensioni, stranamente e fortunatamente, era rimasto estraneo il loro figlio Enzo di sei anni, per il quale entrambi nutrono un grande amore. Certo, egli ha assistito alle scenate ed ai bisticci; ma questi non hanno mai avuto spunto da qualcosa che lo riguardasse e non vi è quindi mai stato coinvolto. Con la separazione di solito si spera di far finire la guerra, ma in alcuni casi la guerra continua anche dopo. Quello di Alfredo e Caterina è un caso di questi. Prima di separarsi avevano finito per giudicarsi rispettivamente un pessimo marito ed una pessima moglie, ma avevano sempre pensato che ciascuno dei due fosse un buon genitore. Enzo è stato affidato alla madre, con la clausola di poter incontrare il padre due volte alla settimana e per la durata del week-end ogni quindici giorni. Forse anche a causa dei conti rimasti aperti sul piano psicologico, si è insinuato in entrambi i genitori il dubbio sulla adeguatezza dei sistemi educativi dell'altro. Non avendo più nulla di condiviso su cui scontrarsi, rimane loro una sola possibilità: combattersi attraverso l'unica realtà che hanno ancora in comune, cioè il figlio. In questa prospettiva, un buon modo può essere quello di tentare di accaparrarsi Enzo per un tempo maggiore ed assumere così un ruolo educativo più influente. Ed ecco che cominciano a giocare sugli orari: Alfredo cerca di anticiparne l'inizio e ritardarne la fine; Caterina trova sempre qualche buon motivo per telefonare all'ultimo momento che c'è qualche imprevisto e non potrà essere puntuale. Lui ancora cerca di ricuperare chiedendo delle eccezioni per tenere il figlio anche in momenti non previsti dagli accordi; lei tiene duro ... Si instaura in questo modo un clima di tensione e di sospetto, fatto di telefonate, discussioni, rivendicazioni e ritorsioni, che ha come unico risultato ... quello di mettere in difficoltà Enzo, il quale, volendo bene ad entrambi i genitori, si sente stiracchiato da una parte e dall'altra. E come se implicitamente ciascuno dei due gli chiedesse di dargli il primo posto nel suo cuore e ciò lo fa stare male perché lui, come ogni bambino, ha bisogno di mantenere uno spazio per tutti e due. Ecco poste le premesse perché queste tre persone vivano male i loro collegamenti vitali per i prossimi anni, almeno sino a quando Enzo sarà abbastanza grande per poter avere più iniziativa nell'organizzare il suo rapporto con ciascun genitore. In questo modo, lasciandola fare quasi si trattasse di una piovra, si permette ad una regola generale ( " non siamo capaci ad andare d'accordo " ), di inglobare nei suoi tentacoli un'area ( quella educativa ) che sino ad un certo punto veniva organizzata secondo una diversa impostazione ed era rimasta proprio per questo fortunatamente salvaguardata. Come dire: " Visto che hai dimostrato di non saper essere un buon coniuge, non puoi essere neppure un buon genitore ". A proposito di confusioni, se ne riscontra frequentemente una proprio nei casi di separazione coniugale di coppie con figli. Si sa che il provvedimento di separazione in queste occasioni prevede tempi e modi di affidamento dei figli all'uno e all'altro genitore. Questi spazi di tempo sono spesso interpretati e vissuti dall'adulto come un suo diritto a godere della vicinanza dei figli. Il concetto di diritto comporta l'idea di qualcosa da godere a proprio vantaggio cosicché uno dei due si sente privilegiato quando ne fruisce e ritiene privilegiato l'altro quando è lui a beneficiarne. E così che prende corpo la possibilità di cercare di danneggiare l'ex partner, con l'intenzione forse di sistemare vecchi conti in sospeso, proprio mettendolo in difficoltà nel godere del privilegio di avere con sé i figli in determinati momenti. Di qui il possibile ricorso a tutta una serie di azioni di sabotaggio, come ritardi, contrattempi costruiti ad arte, malattie dei bambini inventate ... sino a giungere ad una vera e propria pressione psicologica sui figli per demolire al loro cospetto la figura dell'altro genitore, affinché creino essi stessi problemi nel momento in cui devono incontrarlo. La confusione risiede nel fatto che i periodi di affidamento rispettivamente a padre e madre non sono loro diritti, ma sono diritti dei bambini: sono infatti tempi che devono servire ai figli per usufruire di un rapporto educativo con entrambi i genitori, anche se separati. La legge pensa in questo caso a tutelare il bisogno dei più piccoli di avere un papa ed una mamma, anche se a tempo parziale, affinché da ciascuno dei due abbiano l'appoggio affettivo e psicologico necessario per crescere. Non c'è esitazione a definire irresponsabile chi, ricorrendo a espedienti pretestuosi, cerca di sottrarre un genitore ad un bambino ( e non, al contrario, un bambino ad un genitore ) che ha bisogno di sentirlo presente nella sua vita, stargli insieme, rispettarlo, obbedirlo, andarne fiero, amarlo. Le lotte tra adulti, i dispetti che si fanno tra di loro strumentalizzando i figli, mentre secondo le loro intenzioni creano problemi all'ex coniuge, danneggiano sempre i bambini, che si trovano a fare le spese di incomprensibili beghe tra grandi. Si dia allora a Cesare quel che è di Cesare: prima viene il diritto di un figlio a godere del rapporto educativo con entrambi i genitori, poi eventualmente la gratificazione dell'adulto quando ha con sé il figlio. I comportamenti non sono le persone Il più diffuso modo di confondere il particolare con il generale nelle relazioni tra le persone consiste nel considerare un comportamento osservato in un individuo e su questa base cucirgli addosso un certo quadro di caratteristiche personali. Incontriamo per la strada una coppia di amici con la loro figlioletta, una bambina di tre anni. É una bambina buona e obbediente, ma in questo momento sta facendo, e con molto impegno è il caso di dire, uno dei suoi rari capricci. Il commento che facciamo dopo esserci congedati e mentre continuiamo per la nostra strada è: " Però, come è capricciosa questa bambina! ". Si noti, diciamo che la bambina " e capricciosa ", non che la bambina " in questo momento sta facendo un capriccio ". Qualcuno potrà dire che si tratta di un gioco di parole che non modifica la sostanza. La sostanza ne è modificata, e come! Dicendo infatti che una bambina capricciosa, si definisce una sua caratteristica e ciò fa supporre, qualora la si incontri in altri momenti, di continuare a vederla pestare i piedi. Diversamente, dire che una bambina sta facendo i capricci, si limita a descrivere una circostanza momentanea, che lascia libera la nostra mente - e soprattutto la bambina - da previsioni comportamentali. Si noti che questa differenza condiziona i nostri futuri modi di rapportarci con la bambina. Secondo la prima modalità, potremmo evitare di invitarla a giocare con i nostri figli, affinché essi non imparino a fare i capricci; nel secondo caso saremmo liberi di decidere di farli divertire con lei. É grande la differenza esistente tra qualificare qualcuno con un aggettivo e, diversamente, descrivere un suo comportamento. Un comportamento si può cambiare, una caratteristica personale no! Eppure tutte le volte in cui usiamo un aggettivo cadiamo in questo tranello in cui restano imprigionati i nostri interlocutori e noi con essi. Quel certo parente è " ingrato ", quel marito è " disattento ", quel figlio è " ribelle ", quel collega è " incompetente ", quel professore è " incomprensibile ", quell'amico è " piacevole " e così via: in questo modo andiamo costruendoci un mondo statico, prevedibile, fatto di persone che portano cucite addosso queste caratteristiche e rispetto alle quali ci comportiamo in modo immutabile, in coerenza con ciò che le contraddistingue. Così eviteremo il parente " ingrato "; non chiederemo nessun aiuto, pur avendone bisogno, da un marito che sappiamo " disattento "; ci premuniremo nel caso dovessimo discutere con un figlio " ribelle "; anche se subissati di lavoro eviteremo di cercare collaborazione da un collega " incompetente "; non presteremo attenzione ad un professore " incomprensibile "; organizzeremo il nostro tempo libero con l'amico " piacevole ". Soprattutto quando nascono difficoltà, questi aggettivi si irrigidiscono e finiscono per escludere la flessibilità necessaria a trovare le vie d'uscita. Essere un tipo Laura è la seconda di tre sorelle. É sempre stata considerata la saggia di famiglia. Fin da piccola ha saputo far fronte alle situazioni con molta efficacia. La madre, una donna semplice e piena di problemi, non sempre riusciva ad affrontare gli imprevisti, ed allora si rivolgeva a Laura e Laura trovava il modo di sistemare tutto. D'estate, ad esempio, le tre sorelle venivano mandate insieme in una colonia estiva al mare ed era a Laura che veniva affidata la gestione del trio, anche della sorella maggiore di due anni. A tutti i bambini, quando sono lontani dal loro ambiente, viene la nostalgia, ma Laura doveva scacciarla in fretta, perché doveva consolare le sorelle. Qualche volta arrivava a rinunciare al gelato perché non mancasse alle altre. Non c'è che dire, una vera donnina saggia e responsabile. Inizia per Laura l'adolescenza ed è per lei un momento molto difficile: piange spesso, è depressa, passa molto tempo chiusa nella sua stanza. Sente che sta lasciando l'infanzia, che quelle coccole della madre, da lei sempre sperate e ricevute distrattamente e con il contagocce, ormai non verranno più e non sa rassegnarsi. I genitori e le sorelle non possono capire questo cambiamento di Laura e continuano ad aspettarsi da lei l'efficienza abituale. Più la ragazza è depressa, più i familiari la sollecitano con richieste di servizi che riesce a soddisfare con sempre maggiore fatica. I risultati scolastici, sino a quel momento eccellenti, scadono vistosamente. Anche i nonni e gli zii sono stupiti. Da lei non se lo sarebbero mai aspettato. Quante volte l'avevano lodata senza riserve! Questa non è la Laura che conoscono e apprezzano: Laura la saggia, Laura l'efficiente. Laura è rimasta prigioniera delle caratteristiche che le sono state attribuite in famiglia e nessuno si sogna che una ragazzina dimostratasi sempre matura e con i piedi per terra si perda dietro al bisogno di un po' di calore, di qualche carezza e di comprensione che la aiutino ad uscire dalle sue difficoltà e ritrovare il suo sorriso. I comportamenti saggi, maturi, efficienti di Laura sono stati confusi con Laura. Le etichettature L'effetto negativo derivante dalla confusione tra comportamenti e caratteristiche delle persone si amplifica notevolmente quando è uno specialista, una autorità in materia, a pronunciarsi: in questi casi l'etichetta attribuita rimane incollata addosso alle persone, talvolta a dispetto di qualsiasi evidenza contraria. Circa otto anni fa, Claudio, nel corso del suo servizio militare, venne assalito da strani disturbi che lo allarmarono molto. Gli capitava improvvisamente di sentirsi mancare, di avvertire sudori freddi, formicolio alle mani ed il cuore che batteva all'impazzata. La prima volta si era spaventato, ma pensava si trattasse di un episodio isolato, forse attribuibile a difficoltà di digestione. Invece la cosa si ripeté più volte e ciò lo indusse a richiedere l'intervento dell'ufficiale medico che lo inviò all'ospedale militare. Dopo essere stato visitato dagli specialisti, gli venne detto che risultava perfettamente sano e che il suo disturbo era di origine nervosa. Gli fu comunicata in quell'occasione la diagnosi di nevrosi d'ansia e gli furono prescritte alcune medicine. Gli episodi problematici si diradarono, senza però scomparire del tutto. Tornato alla vita civile, Claudio volle informarsi sulla natura della sua difficoltà che di tanto in tanto continuava a rifarsi viva ed il medico di famiglia gli spiegò che si trattava di una specie di fragilità del suo sistema nervoso, che aveva più probabilità di presentarsi in occasioni stressanti. Forte di questa spiegazione, Claudio cercò di organizzare la sua vita in modo da contenere nei limiti del possibile le tensioni ( senza peraltro che ciò comportasse grandi rinunce ) e, dopo qualche anno, l'incidenza delle sue crisi si era ridotta ad una ogni sette o otto mesi. Nel frattempo si è sposato ed ha avuto una figlia. A Claudio è stata offerta in questi giorni una favorevole occasione lavorativa, che gli permetterebbe di migliorare professionalmente e di ricoprire un ruolo di maggiore responsabilità. È intenzionato ad accettare, ma la moglie insiste per cercare di dissuaderlo, in questo appoggiata anche dai suoceri, in quanto pensa che il nuovo ruolo comporti maggiori preoccupazioni e che queste non siano tollerabili dalla nevrosi d'ansia del marito. Conclude dicendogli di decidere pure come meglio ritiene, ma, se decidesse affermativamente, sappia che a lei la vita futura risulterebbe difficile perché non si sentirebbe mai tranquilla. Otto anni sono passati dalla diagnosi. Da allora la vita di Claudio è stata del tutto normale. Da molto tempo non assume più farmaci. Ha superato senza problemi lo stress di adattamento iniziale alla vita matrimoniale e si è lasciato dietro le spalle senza grandi affanni anche il difficile periodo passato alla nascita della figlia per le sue problematiche condizioni di salute, poi fortunatamente risolte. In sostanza, pur in presenza di situazioni comportanti tensione, l'incidenza del suo disturbo è stata trascurabile. Eppure, malgrado tutto, quella diagnosi è ancora fonte di inquietudine e rischia di condizionare la serenità della sua famiglia e dei suoi collegamenti vitali. La diagnosi sembra non doverlo più abbandonare ed ha finito per essere più forte dei fatti e dei dati dell'esperienza. Si potrebbe suggerire, quando ci si trova in una situazione relazionale che crei qualche difficoltà, di provare a rivolgersi ai propri interlocutori badando esclusivamente a come ce li troviamo di fronte in quel momento, cercando di lasciar da parte gli aggettivi che abitualmente usiamo per descriverli e che rischiarne di appiccicare loro addosso. Far uso di questo accorgimento ci offre molte più scelte nell'organizzare i nostri collegamenti vitali che si liberano in questo modo dalla rigidità di valutazioni scorrettamente definitive sulle persone. Per riassumere É necessario tenere conto dei molti livelli di complessità che presenta ciascun collegamento vitale. Non considerare questa complessità può portare a conclusioni sbagliate che a loro volta comportano decisioni sbagliate. Ci si può preoccupare esclusivamente di un sintomo che segnala l'esistenza di un problema e perdere di vista il problema stesso. Ci si preoccupa così solamente di eliminare il fastidio rappresentato dal sintomo senza accorgersi del persistere del problema. Ci si può concentrare sul metodo pensato per raggiungere uno scopo e, nel corso della sua applicazione, farne una questione di coerenza al punto da non accorgersi quando non da i risultati voluti e continuare così ad usarlo indipendentemente dalla sua utilità. Tenere sotto continuo controllo i mezzi usati per raggiungere lo scopo di un collegamento vitale permette di decidere di cambiarli quando essi non si dimostrino efficaci. Ci si può lasciar impressionare da una singola caratteristica di una persona o di una situazione e fare coincidere questa stessa caratteristica con la nostra considerazione di quella situazione o di quella persona intese nella loro globalità. Si tratta di tenere sotto controllo i propri pregiudizi e soprattutto di evitare di imprigionare chi incontriamo negli aggettivi che usiamo per descrivere i suoi comportamenti. Ascoltare Sentire e ascoltare Nel linguaggio corrente esistono due verbi che vengono spesso usati come sinonimi: il verbo " sentire " ed il verbo " ascoltare ". A ben considerare però, sentire consiste nel lasciare che le onde sonore prodotte da suoni o parole colpiscano l'apparato uditivo indipendentemente dalla volontà; ascoltare presuppone invece l'intenzione di far caso a certe onde sonore perché si è interessati ad esse e si vuole cogliere il loro significato. Sentire può essere indipendente dalla volontà, ascoltare è sempre intenzionale. In molte discussioni, lezioni, riunioni si sta a sentire, eventualmente con la mente occupata nei propri pensieri, e non si ascolta: non ci si sente motivati a fare lo sforzo di capire ciò che è oggetto della comunicazione. D'altra parte ascoltare non sempre ci viene immediatamente spontaneo. Quando ad esempio si pone il problema di dover incontrare qualcuno che conosciamo poco e temiamo possa crearsi qualche imbarazzo sull'argomento della conversazione, ci chiediamo: chissà di che cosa potrò parlargli! Non ci sfiora neppure l'idea che la conversazione possa consistere nell'ascolto da parte nostra di ciò che lui potrebbe avere da raccontarci. Pertanto, presi dalla preoccupazione di trovare qualche argomento interessante, rischiamo di non prendere neppure in considerazione questa seconda possibilità. I cosiddetti buoni conversatori sono considerati tali proprio perché sanno mostrare interesse per ciò che gli altri hanno da dire mettendoli così a proprio agio, prima ancora che per le loro abilità nell'argomentare. Si noti che, qualora non esistesse l'ascolto, non avrebbe nessun senso né la parola, né la comunicazione. A che cosa serve lo sforzo che facciamo per riflettere su ciò che vogliamo dire, per trovare le parole ed i modi appropriati per dirle, per essere logici e convincenti, quando tutto ciò si riduce ad una successione di onde sonore raccolte in modo distratto o addirittura indifferente da chi ci sta di fronte? " Ti conosco troppo bene " Non solo la distrazione e l'indifferenza sono nemiche dell'ascolto: anche la presunzione di capire al volo, ancor prima del tempo - giustificata dalla pretesa conoscenza approfondita di un interlocutore - può ostacolare o, addirittura, impedire l'ascolto durante un dialogo. Il marito che, mentre la moglie parla nel corso di una loro accesa discussione, capisce subito dove lei vuole arrivare, è un esempio comune. Gli sembra anche normale che sia così: la conosce ormai da tanto tempo! Tra fidanzamento e matrimonio sono passati più di vent'anni. E allora, chi mai può osare mettere in dubbio la sua capacità di cogliere a volo il nocciolo dei suoi ragionamenti? Stare ad ascoltare ciò che ha già capito diventa per lui un inutile spreco di tempo e di attenzione. E meglio usare quei momenti per cominciare a pensare a come potrà replicare per sostenere la sua idea e a studiare come rendere più stringenti le sue argomentazioni. Nel far ciò però, la voce della moglie disturba la sua concentrazione e decide allora di " spegnere l'audio " o, meglio, di abbassarlo solamente. Sì, perché dovrà accorgersi del momento in cui lei farà una breve pausa, fors'anche solo per prendere fiato, e inserirsi ad esporre quanto pensato mentre lei parlava. La moglie che, oltre a vantare una altrettanto lunga conoscenza di lui può anche far conto sul proprio intuito femminile, arriva a capire ancora più in fretta e, a sua volta, si regola nel medesimo modo. E vanno avanti così per un po'. Alla fine, constatata l'inutilità dei loro sforzi, desistono sospirando tra sé e sé: " Cosa bisognerà mai fare per riuscire a capirsi! ". Chissà che la risposta non consista proprio nel cercare di darsi ascolto l'un l'altra. Infatti, tutto quel rigore logico spesso accompagnato dalla rievocazione di fatti della loro vita a due ormai sepolti nel tempo ma che nei momenti critici si impongono alla mente facendoci scoprire dotati di una insospettata memoria da elefanti, tutto ciò non serve assolutainente a nulla. Non serve a nulla se chi è destinatario di così preziosi frutti della nostra intelligenza e della nostra capacità oratoria ha la mente troppo impegnata a partorire a sua volta altrettanta dovizia di saggezze. Un primo accorgimento pratico consiste quindi nel mettere l'intenzione di capire ciò che ci dicono gli interlocutori all'interno dei nostri collegamenti vitali. Non si può pensare di aver capito qualcuno se non dopo avergli dato modo di esprimersi in altre parole, dopo aver ascoltato non lui, ma quanto ha da dirci. Infatti, è sbagliato dire che si ascoltano le persone: è quanto hanno da comunicarci che va ascoltato. Pertanto, se eventualmente potremmo ritenere di aver ascoltato qualcuno una volta per tutte, non potremo mai pensare di aver ascoltato tutto quello che questa persona può dirci. Prima capire, poi agire Altre volte il nostro ascolto è ostacolato dai giudizi che a mano a mano si susseguono nella nostra mente in corrispondenza delle successive affermazioni di chi ci parla. Ognuno di questi giudizi sollecita in noi un moto di reazione e mentre la nostra mente è impegnata nella scelta della reazione più adatta non è in grado di fare spazio alla sollecitazione proveniente dall'affermazione che viene dopo e così via. È una rincorsa che può farci scegliere alla fine una reazione fra tutte basandoci solo su ciò cui siamo stati in grado di prestare attenzione e trascurando quanto è andato perso mentre di volta in volta cercavamo dentro di noi la risposta alla domanda: " Rispetto a quello che mi ha appena detto, che cosa faccio, come è giusto reagire? ". Il rischio è quindi quello di esprimere comportamenti di reazione sbagliati perché riferiti a informazioni parziali. Il signor Arturo ha scelto un cassetto del mobile ribaltina nell'ingresso per custodirvi i documenti importanti della famiglia. Nulla di particolarmente riservato ma, da persona pignola e precisa qual è, preferisce che tutto sia in ordine e pronto all'uso in caso di bisogno. In famiglia tutti sanno di questo cassetto e soprattutto del fatto che è vietato ai figli mettervi le mani: si sa, i bambini, anche senza volerlo, possono creare disordine e al momento opportuno si corre il rischio che tanta cura risulti vana. Uno dei figli del signor Arturo, Simone di sette anni, sta giocando a far fare dei gran rimbalzi sul pavimento a una pallina di gomma. Ad uno dei rimbalzi la pallina ricade proprio nel cassetto della ribaltina, stranamente aperto. Simone è imbarazzato, non sa come regolarsi. Sa del divieto ed immagina i rimproveri qualora venisse scoperto nell'atto di non rispettarlo; ma ha anche voglia di ricuperare la sua pallina. Si avvicina cautamente al mobile, allunga la mano e, in quel preciso istante, compare sulla porta il padre che, vedendo il figlio in quella posizione e nulla sapendo della traiettoria della pallina, lo apostrofa immediatamente: " Via le mani di lì! Lo sai che non voglio che tu apra quel cassetto! ". Simone cerca timidamente di replicare: " Ma papa ... " ma viene subito interrotto: " Ti ho detto di lasciar stare! " ed il figlio: " Vorrei solo ... " ed il padre, alzando la voce e con fare minaccioso, " Insisti! Chiudi subito il cassetto! ". Simone a questo punto chiude con aria rassegnata il cassetto contenente la sua preziosa pallina e mogio mogio si allontana. Avendo sentito la voce alterata del marito, la moglie interviene a rimproverarlo per quei suoi modi sempre così autoritari. Ne nasce una discussione che lascia entrambi risentiti e di cattivo umore. Dopo qualche ora si vede Simone osservare il padre a distanza, studiarne lo stato d'animo e, vedendolo tornato di buon umore, avvicinarsi finalmente e dirgli: " Scusa papa, a proposito del cassetto della ribaltina, volevo solo dirti che, mentre giocavo, ci è caduta dentro la mia pallina, perché qualcuno l'aveva lasciato aperto. Cercavo solo di riprendermela, non avevo nessuna intenzione di curiosare ". In quello stesso istante, come in un lampo, il signor Arturo si ricorda di una telefonata ricevuta in mattinata nel corso della quale ha avuto bisogno di comunicare alcuni dati, di averli cercati al loro posto, cioè nel cassetto, e poi di averlo lasciato aperto per dimenticanza. Si alza, apre il cassetto e vi trova la pallina del figlio. Un rimprovero inutile, una discussione con la moglie ed il relativo seguito di cattivo umore: tutto questo per non aver permesso al figlio di spiegarsi, ovvero per non aver voluto ascoltare. Nella carriera di ogni genitore si può trovare almeno un episodio di questo genere, che si concluse con la necessità di doversi rimangiare una sgridata immotivata. Cercare le colpe o cercare le cause? Un'altra sottolineatura cui può dare spunto la situazione appena descritta riguarda l'uso immediato, automatico e quasi scontato, di un atteggiamento accusatorio e colpevolizzante. In effetti, tra le diverse possibilità di spiegazione di un inconveniente ( negligenza, colpa, errore, fatalità ... ), siamo spesso portati a prenderne in considerazione solamente una: la colpa. Michele è commesso in un magazzino all'ingrosso di materiali elettrici già da qualche anno. Il suo incarico è quello di preparare i materiali riportati sugli ordini dei clienti in modo che quando questi arrivano per il ritiro trovino già tutto pronto. É un lavoro che gli piace e che fa molto volentieri. Qualche istante fa il capo magazziniere ha ricevuto una telefonata da un importante cliente che lamenta un errore in una consegna di qualche giorno prima: invece di un certo articolo ne è stato fornito un altro non richiesto. Il cliente è piuttosto risentito e insiste sul fatto che a questo punto dovrà distaccare un suo operaio dal lavoro per mandarlo a fare la sostituzione. Constatato attraverso la documentazione che la fornitura era stata preparata da Michele, il capo lo chiama da lontano mentre lavora tra gli scaffali. Michele alza lo sguardo: il tono di voce del capo non promette niente di buono. Sarà bene prepararsi ad una sfuriata! Ed infatti si sente dire con modi molto duri, quasi offensivi, che deve stare attento a quello fa, che a lavorare bisogna metterci la testa, che se ha altri pensieri li deve lasciare a casa, che l'azienda non può permettersi di perdere delle grosse forniture a causa dei suoi sbagli, che ci pensi su bene perché, se dovessero ripetersi degli errori, finirà a scaricare gli autocarri dei fornitori. Michele è sbalordito: cosa potrà aver fatto di così grave? Prova a chiederlo, ma viene zittito in modo perentorio. Finalmente, cogliendo un indizio qua ed uno là nel discorso del capo, capisce l'accaduto. Visto come si sono messe le cose è meglio non discutere, ammettere lo sbaglio, scusarsi garantendo una maggiore attenzione per il futuro e provvedere immediatamente a preparare il materiale per la sostituzione. A questo punto il capo si allontana consapevole di aver fatto quello che ogni buon responsabile deve fare: constatata una colpa, rimproverare il colpevole. Ma ragioniamo. Perché è necessario un rimprovero? Forse per colpevolizzare, o per punire, oppure per mortificare? Che cosa cambia una volta colpevolizzato, punito o mortificato un collaboratore? Sotto il profilo pratico nulla, se non una possibile alterazione del clima relazionale. La funzione di un rimprovero sembra piuttosto essere un'altra: quella di impedire il ripetersi di un inconveniente. Far si cioè che domani non ci si debba di nuovo trovare alle prese con lo stesso guaio. Ora, l'intervento del capo, partendo dal giudizio di fondo - senza possibilità di replica - che un errore non possa spiegarsi se non con una mancanza, quasi ci fosse una maliziosa volontà di creare grattacapi, ha raggiunto lo scopo? Per impedire veramente il ripetersi della cosa, egli si sarebbe dovuto chiedere anzitutto perché Michele aveva sbagliato. Avrebbe dovuto farsi spiegare come erano andate lo cose. Avrebbe dovuto quindi ascoltarlo. Non per giustificarlo a priori, né per sminuire la portata dell'errore, ma per cercare la causa e fare le correzioni del caso. Solo in questo modo, qualora si dovesse presentare in futuro una situazione analoga, si avrebbe la garanzia di evitarne la ripetizione. Se il capo di Michele avesse dedicato il tempo usato per colpevolizzarlo ad ascoltarlo, avrebbe potuto notare come la codificazione di magazzino dell'articolo erroneamente inserito nella fornitura è casualmente quasi uguale a quella di un altro articolo molto simile, ma con specifiche diverse. É vero che c'è stata una distrazione da parte di Michele, ma si può ben dire che è stata favorita da questa circostanza. Ciò che in un caso di questo genere serve effettivamente è modificare la codificazione di uno dei due articoli, in modo tale da rendere improbabile la confusione dei codici. La comunicazione non è fine a se stessa Queste ultime riflessioni richiamano le considerazioni fatte in un capitolo precedente a proposito della possibile confusione tra mezzi impiegati per raggiungere uno scopo e lo scopo stesso. Anche in questo caso, l'eccesso di peso attribuito al rimprovero finisce per far perdere di vista il vero obiettivo, che è quello di far andar bene le cose per il futuro. Anche l'atto del comunicare considerato in tutta la sua complessità corre il rischio di cadere in questo stesso genere di confusioni. Si perde infatti molto spesso di vista il fatto che comunicare ( dire, ascoltare, domandare, spiegare, ecc. ) è un mezzo, al servizio dei nostri obiettivi personali. E quanto segnalato già nel primo capitolo, che cioè comunicare serve per stabilire i nostri collegamenti vitali, in altre parole per creare le condizioni che rendono possibile la soddisfazione dei nostri bisogni. Occorre pertanto mantenere distinto ciò che è necessario per comunicare ( che è il mezzo per stabilire i nostri collegamenti vitali ) da ciò che di volta in volta bisogna fare in base ai contenuti della comunicazione per trovare la risposta alle nostre esigenze ( cioè per usufruire dei benefici ricavabili dai nostri collegamenti vitali ) . Questa importante distinzione può meglio cogliersi attraverso la fig. 1. fig. 1 Nella fig. 1 poniamo che A, per garantirsi un proprio collegamento vitale, abbia bisogno di comunicare a B un'informazione in suo possesso. Quest'informazione è rappresentata nella figura come un quadratino nero, presente nella mente di A. Comunicazione sarà tutto quanto A farà per trasmettere a B l'informazione e nella figura ciò è reso con la freccia tratteggiata che va dalla mente di A verso la mente di B. Quando si potrà dire che c'è stata comunicazione tra i due e che questa comunicazione è stata efficace? Esclusivamente nel momento in cui nella mente di B troveremo lo stesso identico quadratino nero presente nella mente di A. Se il quadratino non entra nella mente di B o ve lo troviamo di un altro colore o al suo posto arriva un triangolo o un cerchio, non c'è stata comunicazione o c'è stato un errore che ne ha compromesso l'efficacia. Altra cosa è ciò che farà B quando nella sua mente sarà entrato il quadratino nero di A, cioè l'uso che B farà dell'informazione ricevuta, le decisioni che prenderà o i comportamenti che sceglierà di adottare. Ovviamente, sulla base del quadratino nero reagirà in un certo modo, diverso da come reagirebbe se, ad esempio, avesse recepito un cerchietto blu. Non conta cosa è stato detto, ma ciò che è stato capito É interessante notare come le reazioni di B non sono determinate da ciò che ha comunicato A, ma da ciò che B ha capito della comunicazione di A. Infatti, se comunichiamo con qualcuno, significa che in quel momento lo riteniamo adatto a rispondere ad un nostro bisogno e pertanto tentiamo con lui un collegamento vitale. Metteremo tutta l'attenzione e la cura necessario nella formulazione dei nostri messaggi, ma ciò che conta veramente è quanto capisce il nostro interlocutore, nel senso che la sua decisione di aderire o meno al nostro invito dipenderà dalla sua interpretazione di quanto da noi comunicato. Se, ad esempio, nel corso di un lungo viaggio in treno ci rivolgiamo ad un passeggero del nostro stesso scompartimento con lo scopo di conversare ( cerchiamo cioè di stabilire un collegamento vitale finalizzato a renderci meno pesante la lunghezza del viaggio ) e quanto noi diciamo viene erroneamente interpretato, secondo il dizionario mentale del nostro interlocutore, come un'intromissione nelle sue cose private, il rifiuto di quest'ultimo non sarà conseguente a ciò che noi abbiamo detto, ma al significato che lui ne ha ricavato. Tutto quanto fa B per creare le condizioni affinché sia proprio lo stesso quadratino nero di A ad entrare nella sua mente è ciò che chiamiamo ascolto. Pertanto, se A sta trasmettendo il quadratino nero e B comincia a pensare se il quadratino gli piace, se è ben fatto, se gli è simpatico ( cioè confonde il mezzo con lo scopo ), la ricezione ne risulterà disturbata ed aumenterà il rischio di errore nella comunicazione. La prima preoccupazione di B deve essere quella di disporsi nell'atteggiamento più adatto a ricevere il quadratino nero; poi, quando sarà sicuro che si tratta proprio di un quadratino nero, deciderà che uso farne. La condizione fondamentale dell'ascolto consiste perciò nella sospensione del giudizio sui contenuti della comunicazione. Più praticamente, preoccuparsi di essere sicuri di aver capito prima di reagire. Una preziosa alleata: la riformulazione Ma neanche chi si preoccupa, come suggerito, di mettere nei suoi collegamenti vitali l'intenzione di ascoltare e di sospendere il giudizio interiore mentre essi si verificano, può stare tranquillo: tale è la complessità della comunicazione e delle variabili che la riguardano. Di tanta complessità si accorsero, a suo tempo, gli scienziati che si dedicarono negli anni '40 alla progettazione dei primi elaboratori, gli antenati dei nostri computers. All'epoca, la possibilità di utilizzare le proprietà del silicio non era ancora stata presa in considerazione, per cui i ricercatori ricorrevano a diodi dalle dimensioni alquanto ingombranti, considerato che ne servivano a migliaia. L'informatica ai suoi primi passi aveva bisogno, per offrire prestazioni in minima parte confrontabili con quelle ora fornite da un personal computer non più grosso di un libro, di apparecchiature che occupavano diversi piani per esservi ospitate! Purtroppo, a dispetto di tanta mobilitazione, nel corso delle prime applicazioni sperimentali gli errori erano frequenti. Il punto debole fu individuato nel dialogo tra l'uomo e la macchina, nel senso che l'elaboratore forniva risultati sbagliati perché nei suoi calcoli utilizzava dati registrati dall'operatore con qualche errore. Tanta profusione di mezzi e di tecnologie rischiava di scivolare su una buccia di banana. Individuato il problema, fu trovata anche la soluzione. Il funzionamento dell'elaboratore venne impostato in modo tale da costringere la macchina ad " ascoltare " con maggior cura i messaggi ricevuti dall'operatore. Questa specie di ascolto venne organizzato programmando le operazioni in modo da impedire l'immediata elaborazione di un dato non appena inviato dall'operatore. La fase di imputazione di un dato fu perciò separata dalla sua immissione in memoria, in precedenza automatica. Venne quindi prevista la necessità di un comando specifico alla macchina da parte dell'uomo quando egli avesse deciso che il dato già registrato andava inserito nella memoria per essere utilizzato nelle elaborazioni successive. Questo comando non aveva però ancora il potere di farsi obbedire: esso comportava la sola evidenziazione del dato in questione su un quadrante, con la richiesta implicita all'operatore di controllarlo e, se esatto, di confermare l'ordine di immissione. E come se l'elaboratore attraverso il quadrante si rivolgesse all'uomo dicendo: " Guarda, io ho capito così. Controlla se ho capito bene. Se ho capito bene, dammi una conferma, altrimenti correggi ". Da allora le tecnologie informatiche si sono straordinariamente evolute ma, ancor oggi, quasi tutti i programmi di funzionamento dei computers sono impostati tenendo conto di questo accorgimento. Ne facciamo esperienza tra l'altro tutte le volte in cui ci rivolgiamo ad uno sportello bancario automatico per ritirare del denaro: inseriamo la nostra tessera, digitiamo il codice segreto, indichiamo la cifra che ci serve, premiamo il tasto " prelievo ", ma il denaro non ci viene erogato. Prima sullo schermo compare la scritta " Prelievo L. ... Se esatto digita T ". Ci viene cioè chiesto se l'operazione, così come è stata registrata, corrisponde alla nostra volontà. Se c'è questa corrispondenza, a seguito del nostro successivo intervento di conferma, compare finalmente l'importo richiesto. Questo stesso accorgimento può essere utilmente sfruttato anche nella comunicazione tra le persone. Richiamando il presupposto che, data la complessità, non si può mai essere certi di aver correttamente recepito un'informazione, esso rappresenta un utile strumento di rinforzo alle nostre capacità di ascolto. Naturalmente, trattandosi di esseri umani, non ci si può certo servire di quadranti o di schermi. L'accorgimento consiste nel riformulare, cioè nel riproporre, nel corso della conversazione, brevi riassunti di ciò che abbiamo inteso: " Se non capisco male, mi stai dicendo che ... ", oppure: " Allora il tuo pensiero è ... ", o ancora: " Tu quindi ritieni che ... ", e così via. Non si tratta naturalmente di ripetere parola per parola ciò che ci viene detto, ma di condensare in brevi frasi l'essenza di ciò che abbiamo recepito. Bisognerà porre cura che queste formule verbali siano accompagnate da un tono di voce ed una mimica da cui traspaia un autentico desiderio di capire: una disattenzione sotto questo profilo può far facilmente interpretare queste espressioni come provocazioni polemiche. La riformulazione così intesa offre un grandissimo aiuto alle nostre capacità di ascolto. Infatti ricorrendo ad essa mettiamo il nostro interlocutore nella condizione di poter controllare se quanto da noi capito corrisponde alla sua intenzione. Se si troverà d'accordo non ci saranno difficoltà, se invece noterà delle differenze potrà immediatamente precisare meglio o correggere, evitando in questo modo sul nascere un incidente di comunicazione. Tornando alla fig. 1, una riformulazione di B potrebbe essere questa: " Mi pare di capire quindi che la questione consiste in un quadratino nero ". Rispetto a quest'affermazione, A non potrà che dimostrarsi d'accordo. Ma se la riformulazione di B fosse: " Capisco: mi stai dicendo che la questione è un triangolo giallo ", A capirebbe subito che quanto compreso da B è diverso da quanto ha appena tentato di comunicargli e ciò lo metterebbe in condizione di intervenire a sua volta per le opportune precisazioni. " Ascoltare con gli occhi " La riformulazione quindi, con il suo effetto di impegnare ed affinare le nostre capacità di ascolto, rappresenta un interessante meccanismo di controllo sul buon funzionamento della comunicazione. Disponiamo però anche di altri accorgimenti che ci possono aiutare sotto questo profilo. Usando un'espressione un po' pittoresca, questi meccanismi potrebbero essere qualificati come: ascoltare con gli occhi. In un intero capitolo precedente si è sottolineata l'esistenza, confermata dall'esperienza quotidiana, di modi di comunicare che accompagnano o sostituiscono le parole: toni, volume e inflessioni della voce, sguardi, mimica dei lineamenti del volto, gestualità ... ( per citare solo i più evidenti ). É ovvio che non è possibile immaginare di comunicare con qualcuno facendo tacere queste modalità: essendo noi fatti di carne ed ossa, sono parte della nostra stessa natura e non possono pertanto essere soppresse. Sfruttandone allora la continua ed inevitabile presenza, in noi come nel nostro interlocutore, possiamo dotarci di una specie di radar di grande aiuto per controllare il buon funzionamento della comunicazione. Infatti la loro presenza fa sì che, se in un certo momento stiamo dicendo qualcosa e chi è di fronte a noi non parla, possiamo dire che tace ... se ci riferiamo alle parole, c'è una grande loquacità se facciamo caso alla sua mimica ed alla sua gestualità che testimoniano del suo modo di entrare in contatto con le nostre parole. Tenuto conto di ciò, in qualsiasi situazione ci si trovi coinvolti con altri, nessuno starà mai veramente in silenzio: inevitabilmente ognuno avrà qualcosa da dire, se non con le parole, con messaggi non verbali. Si tratta di cogliere questi messaggi silenziosi attraverso l'osservazione dei nostri interlocutori ( " ascoltare con gli occhi " ). Poniamo di dover spiegare qualcosa di piuttosto complesso: noi ci sforziamo di essere logici, chiari e precisi, di usare termini alla portata di chi ci sta seguendo; ma, mentre forniamo le nostre spiegazioni, dobbiamo anche accorgerci di eventuali alterazioni della sua mimica facciale. Se, nel corso della nostra esposizione, i suoi occhi diventano progressivamente grandi come fanali di una locomotiva, deve nascere in noi il sospetto che ciò che stiamo dicendo generi incomprensione o stupore, che comunque non sia in corso un lineare processo di comprensione. Non farvi caso comporta inevitabilmente di illuderci che tutto stia filando liscio, quando il nostro interlocutore è in difficoltà. E così che un professore durante una lezione, un conferenziere nel suo discorso, un prete durante un omelia possono, anzi, devono accorgersi dei modi non verbali con cui, nel silenzio generale, i presenti " dicono " ... la loro noia o il loro disinteresse, oppure il loro consenso, o disaccordo, o gioia, ira, stupore, incertezza, preoccupazione, fiducia ... Sono tanti i messaggi che siamo in grado di cogliere ricorrendo all'osservazione. Uno stile di vita L'ascolto ha però anche una dimensione che va oltre questi pur indispensabili accorgimenti. L'ascolto è un atteggiamento mentale, uno stile di vita, una sensibilità particolare nel rapportarsi alla realtà. Luca è un bambino di 9 anni. É una bella giornata estiva e si è messo d'accordo con i compagni del cortile per andare nel pomeriggio a giocare nel parco cittadino. Chiede il permesso alla mamma, che lo accorda a patto che rientri alle cinque. Alle due Luca esce di casa pieno di aspettative per le ore che lo attendono. Il gruppetto si ritrova, si mettono a giocare e poco alla volta si crea tra di loro un clima bellissimo, quasi magico. Luca ne è completamente preso. Le loro fantasie costruiscono simulazioni in cui ognuno si immedesima con fervore: un tronco tagliato diventa un'astronave, un disco da freesby un volante con cui guidarla, le macchine che passano laggiù nella via le astronavi nemiche. E una giornata particolarmente calda e tutto questo movimento, questa gioiosa agitazione li fa sudare. Luca, ad esempio, per tergersi il sudore, si passa le mani sporche sulla fronte e ... vi lascia il segno. Ma sono così felici! Un gioco si sussegue all'altro in una sarabanda di stimoli e di emozioni. Ad un certo momento Luca si ricorda della raccomandazione di tornare per le cinque. Guarda l'orologio: mancano pochi minuti. Preso com'era dal divertimento non si è reso conto del trascorrere veloce del tempo. Luca è un bambino giudizioso e, per quanto a malincuore, saluta gli amici per tornare a casa. Nel suo cuore porta ancora la gioia dei giochi: il suo viso lascia trasparire tutta la sua contentezza. Lo si vede correre per la strada per non arrivare in ritardo: la maglietta fuori dai pantaloni, le ginocchia sporche di erba, i capelli spettinati. Finalmente arriva al portone di casa. Suona, fa di corsa le scale, mentre nei suoi occhi c'è tutta la luminosità che può esserci nello sguardo di un bambino felice. Entra in casa e con un balzo è di fronte alla madre ... la quale, senza neanche dargli il tempo di salutarla, guardandolo con disapprovazione esclama: " Guarda in che stato ti sei ridotto! ". Il cuore di Luca si gela. Avrebbe voluto raccontare a mamma le sue avventure, prolungare la sua gioia condividendola con lei, ma mamma non è contenta. Pazienza! La madre di Luca non vede lo sguardo del figlio, non si accorge nemmeno di cosa c'è nel suo cuore. É cieca ai suoi sentimenti ed alle sue emozioni. L'unica cosa che coglie è la prospettiva di un bucato in più. Non ha saputo " ascoltare " suo figlio, cioè dare importanza a lui ed al modo in cui lui sta vivendo questo momento. Ascoltare Luca non significa non fargli notare che, pur nel divertimento, si può avere un po' più di attenzione per l'ordine degli abiti e per la pulizia; significa fare ciò quando si è avuto prima cura di accogliere e valorizzare le sue emozioni. Altrettanto si può dire della madre di una quindicenne che da qualche tempo è preoccupata per i prolungati silenzi della figlia. Con l'adolescenza, il bel rapporto di confidenza che c'era tra loro due si è interrotto. Ora la madre è anche un po' preoccupata: le sembra di vedere qualche volta della tristezza nello sguardo della figlia. Prova a chiederne il motivo, ma la replica è sempre il silenzio o una breve frase per tagliar corto. Spesso si trova a rimpiangere i tempi in cui chiacchieravano tranquillamente e la figlia le raccontava fiduciosamente le sue cose. Oggi, mentre la madre sta lavando i piatti dopo il pranzo, si vede la ragazza che le si avvicina con fare esitante. Si ferma di fianco a lei, l'aiuta ad asciugare le stoviglie e comincia a raccontare con tono sconsolato: " Mamma, tu sai che Greta e Monica sono le mie migliori amiche. Ci diciamo sempre tutto, tra di noi non ci sono segreti. Io mi sono sempre fidata ed ho raccontato loro anche delle cose molto personali. Oggi, è come se mi fosse cascato il mondo addosso: mi sono accorta che sono andate a dire in giro le mie confidenze. Non hai idea di come ci sono rimasta male! ". E la madre, senza alzare lo sguardo dai piatti che sta lavando, commenta: " Tu non mi ascolti mai! Tè l'ho sempre detto di non fidarti di quelle due! ". Una figlia, delusa nelle sue amicizie, cerca consolazione e conforto nella madre e quest'ultima, dopo essersi spesso rammaricata per l'atteggiamento di chiusura della ragazza, nel momento in cui le sta riaprendo il cuore non trova di meglio che deprezzarne le scelte! E facile immaginare il seguito di questa scenetta: la figlia posa lo strofinaccio e va a chiudersi nella sua camera. La confidenza tra loro due stenterà un bel po' a ristabilirsi. Due esempi per rendere l'idea della portata, si potrebbe dire, esistenziale dell'atteggiamento di ascolto. Esso consiste essenzialmente nel fatto di spostare noi stessi dal centro dei nostri pensieri, delle nostre preoccupazioni, del nostro mondo, per lasciar spazio ai pensieri, alle preoccupazioni e al mondo dei nostri interlocutori. Significa ancora avere una considerazione rispettosa per la diversità degli altrui dizionari mentali ed una sensibilità attenta verso le loro intenzioni di coinvolgerci nei loro collegamenti vitali. Per riassumere La produzione di messaggi in una situazione di comunicazione non ha alcun senso se non si presuppone la disponibilità all'ascolto da parte di qualcuno. Ascoltare comporta di sospendere il giudizio su quanto ci viene detto in un certo momento, in modo da poterci concentrare sull'esigenza primaria di capirne il contenuto e di non distorcerne il significato. La nostra reazione ad un messaggio sarà certamente più producente se sarà riferita alle reali intenzioni del nostro interlocutore, cioè se, avendo correttamente ascoltato, avremo capito bene. La riformulazione da parte nostra dei messaggi ricevuti permette al nostro interlocutore di vetrificare la conformità della nostra comprensione rispetto alle sue intenzioni. Avere cura nell'ascoltare non è solamente un accorgimento per comunicare bene, ma è anche il modo che ci permette di sviluppare e di valorizzare pienamente i nostri collegamenti vitali. Stare dalla stessa parte del tavolo In caso di conflitto Sino a questo momento abbiamo presupposto che i possibili problemi, provocati dalla diversità dei dizionari mentali, si esauriscano nella difficoltà a comprendersi. L'esperienza ci insegna però che è facile passare dall'incomprensione al conflitto. Quando due persone sono vincolate in modo tale che possono cercare una risposta a determinati loro bisogni esclusivamente all'interno di un loro collegamento vitale, ma contemporaneamente i loro rispettivi modi di interpretare la realtà sono diversificati, al punto che il modo di cercare risposta al proprio bisogno da parte dell'una impedisce di soddisfare in tutto o in parte il bisogno dell'altra, nasce un conflitto. Prigioniero del proprio dizionario mentale, ciascuno dei due giudica sbagliato il ragionamento dell'altro e si impegna con tutte le sue forze a far prevalere la propria idea o la propria esigenza. Così facendo si ostacolano vicendevolmente, creando situazioni senza via d'uscita, accompagnate da disagio, tensione, talvolta aggressività. Sono le situazioni difficili della vita: conflitti tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli, tra colleghi, tra allievi ed insegnanti; e l'elenco potrebbe allungarsi. Vinca il più forte L'atteggiamento più frequentemente riscontrabile è quello appena citato di cercare di accaparrarsi la maggior parte di vantaggio l'uno a scapito dell'altro. Detto diversamente, quanta più ragione riesco a conquistarmi, tanto minore è la ragione dell'altro. É quanto succede nelle guerre tra gli stati: combattono per invadersi reciprocamente e, quanto più vasto è il territorio conquistato da uno, tanto maggiore è l'estensione di quello perso dall'altro. Questo è il meccanismo attraverso il quale nasce la competizione e non a caso si è fatto ricorso all'esempio della guerra. Quando c'è competizione, tutte le energie e le risorse dei contendenti sono impiegate nello sforzo di prevalere, di vincere, di sentirsi riconosciuta la ragione, di arrivare a far ammettere il torto all'altro. Presa da questo sforzo, è possibile che di tanto in tanto la mente dei concorrenti sposti la percezione del problema dalla difficoltà incontrata alla persona che è di intralcio. Nel caso di due genitori in conflitto tra di loro sul metodo educativo da usare con i figli può darsi che il problema da loro percepito non sia più quello di non riuscire a trovare il modo migliore per allevare i figli; ma diventi il proprio coniuge che la pensa in un modo diverso. Egli può diventare il " nemico " da battere: pertanto l'obiettivo cambia e il risultato cui sono destinati gli sforzi diviene quello di costringere l'altro a cambiare idea. Si noti che far cambiare idea all'altro non significa trovare la miglior soluzione al problema: significa solo averla vinta. La convinzione su cui si fondano questi tentativi consiste nel ritenere che per venire a capo di un conflitto bisogna per forza che ci sia un vincitore e un vinto, qualcuno a cui sia riconosciuta la ragione e qualcuno che ha torto. Tale convinzione, oltre ad essere profondamente sbagliata, rappresenta un grande ostacolo nella ricerca delle soluzioni. Il tentativo di entrambi di prevalere sull'altro li porta infatti il più delle volte a paralizzarsi reciprocamente - ad una situazione di stallo, direbbe l'appassionato di scacchi -, in cui nessuno riesce a fare un passo avanti ed in cui tutti finiscono per essere perdenti. Vincere in due Un'interessante possibilità per cercare di risolvere i conflitti consiste nel fare in modo che vincano entrambi gli interessati. A prima vista questa sembra una prospettiva ingenuamente illusoria. Può apparire meno irrealistica qualora si consideri che vincere non comporta necessariamente prevalere, guadagnare o surclassare. Possono vincere tutti e due se si accontentano di vincere meno. Questa impostazione presuppone di evitare di percepirsi come nemici o come antagonisti, ma di usare insieme le rispettive intelligenze, capacità ed esperienze della vita per guardare prima di tutto in faccia il vero nemico: quello reale, rappresentato dalla difficoltà che sta all'origine del conflitto, e per combatterlo con maggiori probabilità di successo potendo far conto sulle risorse di entrambi. Nel caso dei due genitori che sono in conflitto sul tipo di educazione da dare ai figli, il vero nemico non è il coniuge, ma il fatto che educare è difficile. In un conflitto di coppia, il vero nemico non è il consorte, ma forse il fatto che ci si vede poco e di corsa a causa degli orari, che non c'è tempo per dialogare e quando lo si trova si è così tesi e stanchi da far fatica a sopportarsi ... In un conflitto con un figlio sedicenne, il vero nemico non è lui, ma la sua adolescenza che scompagina le regole familiari che sono andate bene fino al giorno prima. Il suggerimento è quello di riunire, una volta capita qual è la difficoltà, tutte le risorse dell'uno e dell'altro alla ricerca della soluzione; che finirà per non essere né quella da cui è partito il primo né quella del secondo. É l'atteggiamento che, in modo figurato, nel titolo del capitolo indichiamo con l'espressione " sedersi dalla stessa parte del tavolo ". Quando si discute è facile immaginarci seduti l'uno di fronte all'altro, a cercare di far prevalere la nostra idea. Si potrebbe quasi pensare che il piano del tavolo rappresenti il campo della discussione e, simbolicamente, diventi lo spazio che ciascuno dei due cerca di conquistare a svantaggio dell'altro. Chi è seduto di fronte diventa la forza che ostacola queste mire espansionistiche e come tale diventa il nemico da battere. Se invece ci raffiguriamo seduti fianco a fianco dallo stesso lato del tavolo, cambia completamente la nostra prospettiva, non solo percettiva, ma anche psicologica. Ciò comporta infatti di collocare davanti ad entrambi, anziché l'interlocutore, il nemico reale, cioè il problema dal quale siamo attanagliati tutti e due, con tutte le complicazioni e tutti gli impedimenti che introduce nelle nostre vite, per trovare, come accennato più sopra, comportamenti alternativi rispetto a quelli abituali, mostratisi insoddisfacenti. Battere il nemico comune ... Ne " I promessi sposi ", Alessandro Manzoni ci offre un'arguta descrizione di una situazione che possiamo considerare indicativa di quanto può avvenire quando non si identifica il nemico comune e si finisce per combattersi l'un l'altro. Si tratta dell'episodio in cui si racconta di Renzo che cammina per le strade di Milano per andare a consultare l'avvocato Azzeccagarbugli. Come ricordiamo, egli reca con sé la parcella in natura destinata all'avvocato, rappresentata da quattro capponi. Ed ecco come Manzoni descrive e commenta la scena: " Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano di un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura ". Spesso le cose non vanno altrimenti nelle situazioni conflittuali che viviamo: ci si " becca " reciprocamente senza concludere nulla. ... in famiglia ... Giacomo e Adelina sono due giovani Sposi. Il loro bilancio familiare è piuttosto modesto. Lui, a causa dell'ancor giovane età, è ai primi passi nel lavoro e quindi la retribuzione non è granché. Lei sta cercando un'occupazione, ma non riesce a sistemarsi nonostante le decine di domande di lavoro e di colloqui di assunzione sostenuti. La conseguenza di questo stato di cose è che devono essere un po' accorti nelle loro spese. Siamo al venti del mese e, mettendo insieme tutte le loro disponibilità, arrivano appena appena a centomila lire. Si impone la necessità di fermarsi e di fare il punto sulla situazione. Ne nasce una discussione. Lei rimprovera a lui di essere andato tutte le domeniche alla partita, lui ribatte che è lei a non essere abbastanza attenta nelle compere e nell'amministrazione del bilancio domestico. Entrambi insistono nella loro convinzione. Intanto i giorni che separano dalla prossima busta paga continuano ad essere dieci e il denaro disponibile resta sempre centomila lire. Ciascuno dei due vede nell'altro la causa delle ristrettezze finanziarie, lo percepisce come il nemico che ha provocato la difficoltà e si adopera per sconfiggerlo. Il nemico reale però è un altro per entrambi: sono i dieci giorni che sono tanti perché le centomila lire di cui dispongono possano bastare. Se si sedessero dalla stessa parte del tavolo e guardassero in faccia quello che è il loro vero avversario del momento, potrebbero ingegnarsi a trovare il modo di venirne fuori, anziché perdere tempo in sterili accuse reciproche. ... nella scuola ... Ester e Nunzia insegnano entrambe in una quinta elementare. Ester ha la responsabilità del modulo di lingua e Nunzia di quello di aritmetica. Si è circa alla metà dell'anno scolastico: la fine del ciclo elementare è ormai imminente ed entrambe ritengono a questo punto necessario un consolidamento della preparazione degli alunni, tale da metterli nelle condizioni più favorevoli per iniziare le medie. Di conseguenza finiscono tutte e due per richiedere nello stesso momento un impegno più intenso del solito nei compiti a casa. A questa impegnativa richiesta di applicazione hanno saputo rispondere solo pochissimi bambini. Sempre più spesso infatti molti genitori giustificano i figli per non essere riusciti a fare l'uno o l'altro dei compiti assegnati. Questo rappresenta un intralcio per gli obiettivi didattici delle maestre. Dapprima se la prendono con i genitori che sono troppo protettivi. Poi si accorgono che effettivamente il carico di lavoro complessivamente richiesto non è da poco e decidono di affrontare il problema. Ester sottolinea l'esigenza che gli alunni facciano molti esercizi di grammatica, avendo notato che parecchi di essi denunciano incertezze e fanno spesso errori di ortografia. Non si può certo mandarli alle medie senza che sappiano scrivere come si deve e chiede pertanto, se si vuole ridurre i compiti, di non intervenire sulla sua area. Nunzia per parte sua nota la scarsa familiarità che molti alunni dimostrano con la tavola pitagorica. Alle medie, si sa, danno per scontate queste conoscenze, per cui bisogna sfruttare il tempo rimanente e colmare la lacuna. Ridurre l'impegno in quest'area sarebbe veramente controproducente. Due posizioni incompatibili, in cui Ester vede in Nunzia un ostacolo ai suoi programmi ed alla possibilità di far bene il proprio lavoro e viceversa. Ciascuna delle due insiste nella propria valutazione, sottolineando i buoni motivi a sostegno del proprio punto di vista. Quanto più va avanti la discussione, tanto più le posizioni si irrigidiscono. Anche in questo caso le due maestre sbagliano a fronteggiare la collega come se si trattasse di una concorrente in una competizione. Il loro avversario reale è un altro: consiste nelle limitate capacità di mantenere a lungo la concentrazione tipiche dei bambini di dieci anni. Il problema-nemico va allora diversamente formulato: come fare a ottenere il miglior risultato realisticamente possibile nel ricupero contemporaneo delle nozioni di lingua e di aritmetica, tenuto conto che gli alunni hanno dei limiti nelle loro risorse di applicazione allo studio? Chissà se le due insegnanti vorranno sedersi dalla stessa parte del tavolo e fare un uso congiunto delle rispettive professionalità per sconfiggere il nemico comune! ... nell'intimità della coppia Dopo i primi tempi di matrimonio, la vita intima di Toni e Franca ha cominciato ad essere insoddisfacente. Lui si aspetterebbe da lei più iniziativa, più fantasia e creatività. Lei pensa che Toni abbia sempre in mente " quello " e si sente usata. È difficile parlare di certi argomenti. Sulle prime tutti e due si sono tenuti dentro questa loro insoddisfazione, poi le loro reazioni nell'intimità sono state così evidenti da costringerli ad affrontare la situazione. Franca dice a Toni che lui non la rispetta, non le dimostra attenzioni, non la corteggia, per cui l'atto coniugale le è diventato qualcosa di dovuto, di concesso al desiderio del marito, e da cui ultimamente sempre più spesso non riesce a trarre appagamento. Lui replica che non si sente incoraggiato a coccolarla perché la vede fare le cose per forza, senza nessun trasporto ne partecipazione. Mai una volta che lei si lasci andare, per cui anche per lui le occasioni di intimità sono diventate un specie di faccenda da sbrigare senza entusiasmo e senza farsi troppe illusioni. Lei vede in lui il torto di non curarsi dei suoi sentimenti e delle sue emozioni; lui dice che è lei a sbagliare perché non risponde con naturalezza e con spontaneità quando lui si fa avanti. Il loro modo di porsi l'uno rispetto all'altra presuppone che o ha ragione Toni o ha ragione Franca; come sempre nel caso delle alternative, l'unico modo di uscirne consiste nel cercare di far pendere il piatto della bilancia dalla propria parte, piegando il comportamento dell'altro all'interno dei propri schemi. Naturalmente ciascuno dei due punta su questo obiettivo, con il risultato di ostacolarsi a vicenda e di continuare a vivere in modo scadente le loro occasioni di intimità. Sedersi dalla stessa parte del tavolo significa in questo caso sfuggire alla tirannide dell'alternativa: " o ha ragione l'uno o ha ragione l'altra ", per entrare nella diversa logica che: " e ha ragione l'uno e ha ragione l'altra ". Ha ragione Franca quando sente l'esigenza di essere corteggiata e ha ragione Toni ad aspettarsi una maggiore ricchezza di espressioni dalla loro intimità. Il vero nemico va allora individuato nella difficoltà a far convivere queste diverse esigenze, tutte e due degne di attenzione e di rispetto ed entrambe meritevoli di sforzo in vista della loro soddisfazione. L'ultimo caso citato aiuta a cogliere con chiarezza il meccanismo che permette di coordinare le risorse possedute dai due interlocutori in questione: passare dalla logica dell'alternativa tra le rispettive posizioni alla logica della loro conciliabilità, in altre parole da " o l'una o l'altra " a " e l'una e l'altra ". Conviene dare fiducia Si noti che non si sta suggerendo di mercanteggiare una possibile soluzione, cioè di arrivarvi attraverso reciproche concessioni, cedendo su qualcosa pur di ottenerne qualche altra in cambio, o di aprire un negoziato per raggiungere un compromesso. Questi accorgimenti hanno la caratteristica di continuare a vedere il proprio interlocutore come un contendente. Si tratta di una visione limitante. Negoziare e cercare il compromesso sono certamente atteggiamenti di utilità corrente e non si vuole metterli in discussione. Ma sedersi dalla stessa parte del tavolo comporta un'attitudine diversa. La sua originalità sta nel fatto che, così facendo, si riconosce a pieno titolo al proprio interlocutore la facoltà di aspettarsi qualcosa di diverso rispetto a ciò che rientra nella nostra prospettiva. Pertanto, egli perde ai nostri occhi l'immagine di chi non capisce ( e quindi sbaglia per ignoranza ), o di chi non è all'altezza ( e quindi sbaglia per incapacità o per negligenza ), o di chi si cura solo del proprio tornaconto ( e quindi sbaglia per egoismo se non addirittura per disonestà, tentando di strumentalizzarci e di asservirci ai suoi capricci ). Al contrario, gli riconosciamo di essere una persona intelligente, competente ed onesta che, partendo dal suo dizionario mentale, ha elaborato una giusta aspettativa, non immediatamente armonizzabile con la nostra aspettativa altrettanto giusta per intelligenza, competenza ed onestà, ma degna di essere perseguita. Essendo poi coinvolti nello stesso collegamento vitale, non possiamo risolvere la nostra esigenza se non risolvendo anche la sua. Così ragionando, conviene a tutti e due dare fiducia all'altro, cercando di aiutarlo nel dar risposta alla sua aspettativa per aspettarci a nostra volta una corrispondente prova di fiducia da parte sua nell'agevolare la soluzione al nostro bisogno. Come si nota, è una visione diametralmente opposta rispetto a quella di chi cerca puramente e semplicemente di massimizzare il proprio tornaconto con l'atteggiamento tipico di chi tira l'acqua al suo mulino. Saremmo ingenui idealisti, fors'anche un po' superficiali, se pensassimo in questo modo di aver trovato la chiave per risolvere tutti i conflitti, il rimedio per ogni male. Si è parlato di fiducia ( ci riferiamo a quella autentica, non a quella che sarebbe più opportuno chiamare ingenuo candore ) e ben sappiamo quanto delicato sia chiedere e concedere fiducia. Non si può perciò pensare di adoperare la strategia descritta sempre e con chiunque; possiamo tuttavia tenerla presente in un grande numero di casi come un'efficace ed interessante alternativa rispetto all'abituale modo di affrontare situazioni conflittuali. Per riassumere Quando ci si trova in una situazione di conflitto, è facile considerare chi ci sta di fronte come un avversario. Ne deriva la tendenza a rivaleggiare per ottenere il maggior vantaggio possibile. Essendo questo atteggiamento presente in entrambe le parti in gioco, spesso esse si paralizzano a vicenda e non riescono a venir fuori dal conflitto. E possibile guardare ad un conflitto come ad una situazione in cui c'è un nemico comune rappresentato dalle condizioni che ne rendono difficile la soluzione e delle vittime, cioè tutte le persone coinvolte che ne patiscono le conseguenze. Secondo questa prospettiva è possibile pensare di " sedersi dalla stessa parte del tavolo ", cioè di riunire le forze di tutti per creare cosi condizioni più favorevoli per abbattere il nemico comune. Far cambiare gli altri Gli altri non si lasciano cambiare Si rassicuri il lettore, non siamo stati presi da un improvviso delirio di onnipotenza, che ci ha rapiti alla realtà per portarci in un mondo nel quale si possa immaginare di trasformare le persone a misura dei nostri gusti e dei nostri bisogni. Ben sappiamo come, a dispetto dei nostri tentativi, gli altri non siano disposti a lasciarsi cambiare come a noi piacerebbe o servirebbe. Cambiare significa rivedere il proprio modo di essere, cambiare è complicato, cambiare è faticoso e nessuno mette mano ad un'impresa così impegnativa solo perché siamo noi a chiederlo. Potrà farlo, partendo forse anche da un nostro invito o sollecitazione, ma solo quando sarà lui stesso ad essersi preso la responsabilità di decidere in tal senso. Ed allora per parte nostra altro non possiamo fare se non attendere il verificarsi di questo cambiamento, scontrandoci al tempo stesso con la constatazione che, a dispetto di tutte le nostre aspettative, le cose continuano ad andare per il solito verso. Eppure non ci rassegniamo: come sarebbe tutto più facile se mia moglie ( mio marito ) la smettesse con certi suoi atteggiamenti; se mio figlio non si comportasse più in quel certo modo, se i miei genitori diventassero meno noiosi, se quella certa professoressa decidesse di essere meno esigente, se il capo ufficio non fosse così opprimente ... E le tentiamo tutte per riuscire a trasformare gli altri secondo le nostre necessità. Ci lamentiamo, ci arrabbiamo, chiediamo, supplichiamo, ricattiamo ... Usiamo tutto il repertorio delle nostre strategie. Il risultato è comunque il più delle volte deludente. Un'impresa impossibile? Dovremmo dunque concludere che non esiste un modo per costringere gli altri a cambiare? Inaspettatamente la risposta è che esiste un modo in grado di suscitare cambiamenti negli altri. Esso consiste nel cambiare noi stessi e quindi presentarci in un modo diverso all'incontro con i collegamenti vitali in cui siamo coinvolti. Cambiare noi stessi: esattamente il contrario di quanto ci viene spontaneo di fare. Insistere non serve Proviamo a pensare al nostro abituale modo di muoverci in queste circostanze. Può capitare di notare in qualcuno un aspetto dei suoi comportamenti che non giudichiamo adatto al buon funzionamento di un collegamento vitale e di decidere quindi di farglielo modificare. A questo scopo stabiliamo una strategia ( ad esempio, il rimprovero o la minaccia ) e proviamo ad utilizzarla nei suoi riguardi una prima volta: senza successo. Ma non molliamo e riproponiamo nuovamente quella stessa strategia in una seconda occasione, caso mai non avesse capito. Anche in questa circostanza non ne ricaviamo l'effetto voluto. Successivamente ancora, tutte le volte in cui se ne presenta l'opportunità, ritorniamo alla carica sempre con lo stesso sistema e sempre avendone il medesimo riscontro. E così via, in un rincorrersi di provocazioni basate su una sempre identica strategia da parte nostra, cui continua a non corrispondere il cambiamento atteso, quasi ci aspettassimo che quella strategia, dimostratasi inefficace in ormai decine di occasioni, diventi un giorno, per un qualche strano caso del destino, improvvisamente vincente. Non arrendersi all'evidenza: una bella ingenuità, non c'è che dire! Una legge generale Il fatto è che, nel campo dei comportamenti umani, vale una legge della fisica che si direbbe avere una portata universale. Tra le prime nozioni che abbiamo appreso nello studio della fisica sono senz'altro comprese quelle riguardanti le condizioni sperimentali. Ci fu allora insegnato che, data una certa situazione sperimentale e volendo correggerne gli effetti, è necessario apportare modificazioni alle variabili in gioco di cui è possibile il controllo da parte dello sperimentatore; diversamente, fintanto che le variabili intervenienti rimangono costanti, rimane invariato anche l'effetto. La validità di questa legge può essere applicata, esattamente come enunciata, anche ai comportamenti umani. Cambiare se stessi per cambiare gli altri In una situazione che ci vede coinvolti con qualcuno, volendo cambiare qualcosa che non ci soddisfa nei suoi comportamenti ( questo corrisponde all'effetto che si vuole modificare nell'esperimento ), dobbiamo apportare delle modifiche ai nostri comportamenti ( essi corrispondono alle variabili su cui bisogna intervenire nell'esperimento: sono infatti le uniche variabili che sono sotto il nostro controllo ). Fintanto che i nostri comportamenti sono ripetitivamente identici, non c'è motivo di sperare che cambi l'effetto rappresentato dai comportamenti altrui che intendiamo modificare. D'altra parte, non c'è nessuna massaia così ingenua da riconfezionare seguendo esattamente lo stesso procedimento una torta riuscita malamente in una precedente occasione: cambierà le dosi, o la temperatura del forno, o il tempo di cottura, nella consapevolezza che se si regolasse come la volta precedente otterrebbe il medesimo insoddisfacente risultato! Ci si può chiedere che cosa conferisca efficacia a questa strategia. Partiamo dal considerare la natura stessa dei collegamenti vitali. Essi appartengono alla categoria dei sistemi, fatto questo che comporta, tra l'altro, di collegare e di rendere interdipendenti le singole parti che vi appartengono, con la conseguenza che, all'eventualità di un cambiamento anche minimo nell'una, corrisponde necessariamente un cambiamento nell'altra. Immaginiamo un gioco di più specchi, orientati ognuno in modo da riflettersi negli altri: se, collocandolo vicino ad una fonte di calore durante la stagione invernale, ne facciamo appannare uno, questa modificazione non interessa solo lo specchio in questione, ma si riflette e comporta necessariamente una modificazione di tutti gli altri. Ad un intervento operato su un unico elemento del sistema è corrisposta automaticamente un'alterazione in tutti gli altri. Dato che i nostri collegamenti vitali sono appunto dei sistemi, avviene per essi la stessa cosa: se all'interno di un collegamento vitale operiamo un intervento su uno dei suoi singoli elementi - ad esempio decidiamo di modificare un nostro comportamento - produciamo necessariamente cambiamenti negli altri elementi del sistema stesso, cioè nei comportamenti dei nostri interlocutori. Non è detto che azzecchiamo al primo colpo il cambiamento da apportare a noi stessi: talvolta l'effetto desiderato è frutto di un perseverante susseguirsi di tentativi per prove ed errori, coronato solo alla fine dall'esito desiderato. Ma è comunque cambiando noi stessi che riusciamo a " costringere " gli altri elementi del sistema in cui siamo inseriti a cambiare. Un caso matrimoniale Il signor Sergio, più che cinquantenne e con i figli ormai adulti e sposati, è entrato in crisi con il suo matrimonio. Si è infatti accorto che gli riesce sempre più difficile sopportare gli atteggiamenti della moglie. La percepisce distaccata, sempre presa dalle sue faccende, sbrigativa, poco disponibile al dialogo. Il momento della giornata in cui avverte con maggiore intensità questo disagio è al suo rientro dal lavoro quando l'accoglienza è fredda, quasi distratta. Possibile che un uomo, dopo aver faticato tutto il giorno, venga accolto a casa con tanta indifferenza? E poi, ha senso stare insieme tanti anni per non avere più niente da dirsi e finire per desiderare di separarsi? Il signor Sergio non ci sta, vuole cercare una soluzione alla questione e si reca in un consultorio familiare. Gli viene chiesto di esporre la situazione, gli vengono domandate delle precisazioni, gli viene offerta la possibilità di riflettere servendosi di un aiuto esterno. Insiste a dire che ha già chiesto mille volte alla moglie di essere più affabile, di mostrare qualche premura per lui, ma senza risultato. A nulla sono valse le discussioni, i silenzi risentiti, le minacce di andarsene. Nel corso di una seduta, il signor Sergio viene invitato a soffermare la sua attenzione sul momento difficile del rientro serale dopo il lavoro. In particolare gli si chiede di immaginare questo momento - da quando scende dall'autobus in poi - come se fosse ripreso da una telecamera e di descriverlo. Inizia a dire che, sceso dal bus alla fermata sulla strada statale con l'aria serena e rilassata, si incammina per la stradina che porta alla sua villetta. A metà del cammino viene salutato dal vicino che sta lavorando nell'orto e si intrattiene amichevolmente qualche minuto con lui con fare cordiale. Prosegue quindi con passo tranquillo verso casa, la testa alta, lo sguardo disteso. Gli viene incontro il cane che gli saltella intorno festoso: il signor Sergio si ferma, si china ad accarezzarlo. Si avvicina alla porta di casa: a questo punto la sua andatura diventa più pesante, l'espressione del volto si rabbuia, le sue spalle si incurvano, il suo sguardo è rivolto a terra. Ancora qualche passo ed infila con fare irruente la chiave nella toppa, spalanca con impeto la porta mentre i lineamenti del suo volto diventano ancora più duri e tesi. Richiude di scatto la porta, appoggia malamente chiavi e giornale e si avvia con passi nervosi verso la cucina per salutare la moglie intenta a stirare. La sua faccia è sempre scura, il suo sguardo severo. Entra in cucina con fare quasi rabbioso, i muscoli sono tesi, i lineamenti irrigiditi e dalla sua bocca esce un suono roco con il quale saluta la moglie. Nel commento si rileva come, se quest'ultima avrà pure le sue responsabilità a riguardo dei modi con cui abitualmente accoglie il marito, d'altra parte è chiaro che con un'entrata in scena come quella descrittaci dal signor Sergio non vien certo voglia di gettargli le braccia al collo. Egli è un po' stupito dall'immagine di se stesso evocata ai suoi stessi occhi dal racconto e decide di stare più attento per cercare di rendere meno antipatici e scostanti i suoi modi. Con un po' di esercizio e non senza fatica il signor Sergio è riuscito piano piano a correggersi e da allora gli atteggiamenti della moglie hanno cominciato a cambiare, il clima in casa a farsi più disteso. Un caso aziendale Garassini è titolare di un'azienda di medie dimensioni. Tutto fila liscio, gli affari vanno bene. Ma a Garassini amministrare, far andare avanti la macchina organizzativa, costa una fatica incredibile. Si è scelto con cura i collaboratori più vicini, li conosce bene ed è sicuro della loro competenza e professionalità. Malgrado ciò, tutto finisce per cadere sempre sulle sue spalle. Continua a delegare le responsabilità, ma quando è il momento di decidere lo vengono sempre a cercare. Pensare che gli piacerebbe cosi tanto riservare a se stesso esclusivamente il ruolo di chi guida le cose dall'alto, prendendo le decisioni strategiche e lasciando ad altri la preoccupazione dell'ordinaria amministrazione. Ha ormai tentato di tutto: ha organizzato riunioni di definizione degli obiettivi per cercare di coinvolgere maggiormente il suo management nelle decisioni, ha costituito gruppi di studio sperando di ottenere quanto meno un'assunzione di responsabilità decisionale a livello collettivo. Niente da fare: al momento topico continuano a venire da lui. Ora, osserviamo Garassini al lavoro. È un uomo che si è fatto da sé, grazie all'impegno ed all'autodisciplina con cui ha sempre lavorato. Il suo motto è: " non si può chiedere rigore agli altri se non si è rigorosi con se stessi ". Coerente con questo motto, in azienda ha sempre preteso e dato molto, per cui è per lui ovvio fare altrettanto con i suoi collaboratori. Questo rigore riguarda non tanto l'intensità dell'impegno, quanto piuttosto la sua qualità. Egli infatti è un po' perfezionista e mal sopporta gli errori; i suoi non se ne parli, ma anche quelli dei collaboratori. Quando qualcuno sbaglia, le sue reazioni, anche se a fatica, sono molto controllate. Per scaricare il disappunto spesso ricorre all'ironia. Secondo lui, usare questo accorgimento gli permette di intervenire con tutti ed in tutte le situazioni, ad esempio anche di sottolineare l'errore di una persona di fronte ad altri, come può avvenire in una riunione. Chi mai potrà essere così sciocco da offendersi per una battuta di spirito? Purtroppo le occasioni per far uso di questo accorgimento non mancano, con suo grande disappunto. Questo modo di gestire l'errore, bonario ed elegante all'apparenza, nasconde una trappola. Chi tra i suoi collaboratori si è sorbito questo genere di battute si è sentito, a differenza di quanto immaginato da Garassini, fortemente imbarazzato. Trovarsi di fronte a questo principale fatto tutto d'un pezzo che ti spedisce addosso frecciate, eleganti e spiritose fin che si vuole nella forma ma graffianti nella sostanza, è molto penalizzante, perché con la sua ironia non ti da modo di spiegare, di replicare, di giustificare. Stai lì, ti senti paralizzato e finisci per fare di fronte a tutti la figura del fesso. E poi bisogna sopportare le immancabili battute dei colleghi, i sorrisini nei corridoi. Sotto la minaccia di questo genere di figuracce si è sviluppata in tutti la paura di sbagliare e, conseguentemente, la paura di decidere. Il nostro Garassini a questo punto è servito. Se vuole far cambiare i suoi collaboratori perché vuole diminuire il suo carico di responsabilità, è necessario che intervenga sui propri comportamenti, iniziando col trovare un diverso modo di regolarsi in presenza di errori. Quando il loro principale sarà cambiato, i collaboratori avranno meno paura delle conseguenze nell'eventualità di un errore; sarà a questo punto loro possibile cambiare il proprio atteggiamento di fronte alle responsabilità decisionali, essendo diventato per loro più accettabile assumersene il rischio. Garassini potrà insistere, minacciare, indire altre riunioni, formare chissà quanti gruppi di studio. Tutto ciò rappresenterà quasi certamente un'inutile perdita di tempo. E sulle variabili dei collegamenti vitali di sua esclusiva competenza, cioè sui suoi comportamenti relazionali, che è necessario intervenire affinché ne scaturisca in loro un cambiamento a livello sistemico. Ma non si illuda che basti cambiare un giorno reagendo diversamente dal solito per ottenere quasi magicamente le risposte attese. Probabilmente dopo la prima, anzi, le prime volte, non succederà proprio nulla. É questo il momento difficile in cui è necessario continuare ad avere fiducia nella linea adottata e non mollare. Successivamente, poco alla volta, cominceranno timidamente ad apparire le prime novità: saranno segnali deboli, ma rappresenteranno una conferma della bontà della strada intrapresa. Solo dopo qualche tempo, quando agli occhi dei collaboratori sarà chiaro che nel caso di un errore la reazione del principale non sarà più quella pesantemente penalizzante del passato, si presenteranno in modo chiaro e stabile i cambiamenti tanto attesi. Ed il signor Garassini potrà finalmente cominciare a fare il titolare come a lui piace, cioè senza sentire tutte le incombenze decisionali sulle sue spalle. Ci vuole costanza Ci siamo serviti dell'esempio di un collegamento vitale riguardante la coppia e di uno relativo all'ambiente di lavoro: sono solo due fra i tanti possibili. Numerose sono infatti le occasioni in cui roviniamo la nostra esistenza e quella degli altri per rimproverare, assillare, ricattare, minacciare i nostri partners perché non sono come dovrebbero essere, suscitando in tal modo verso di noi le stesse reazioni di rimprovero, assillo, ricatto o minaccia per costringerci a nostra volta a cambiare ed a non più ricorrere a questi stessi sistemi. É una specie di circolo vizioso che rischia di imprigionarci se non riusciamo a romperlo cambiando completamente la logica che lo alimenta: non più costringere gli altri a cambiare in modo che successivamente io ne tragga beneficio, ma comincio a cambiare io e so che, così facendo, cambieranno anche gli altri. L'avvertenza è quella di non avere fretta, di continuare a credere nell'efficacia di questo approccio soprattutto nei momenti iniziali nei quali lo sforzo richiesto per il nostro cambiamento è maggiore e non trova nessuna apparente corrispondenza nel comportamento del nostro interlocutore: è questo il momento di stringere i denti, di continuare a crederci a dispetto dell'evidenza. Chi saprà in questa fase mantenersi coerente, vedrà premiata la sua costanza. Sembra infatti che solo a questo punto i nostri interlocutori arrivino a pensare: " Ma allora ci crede veramente, non è un fuoco di paglia. Quindi, non ha più senso rispondere con un comportamento vecchio ad una sollecitazione nuova ". Ecco innescato il meccanismo del cambiamento. Stare bene con gli altri Cambiare se stessi per cambiare gli altri. A prima vista sembra una pia esortazione per persone indirizzate da un anelito interiore verso una generosa disponibilità nei riguardi del prossimo. Oppure può avere tutta l'aria di una sentenza morale, o di uno di quei pensieri che troviamo stampati sulla carta che avvolge i cioccolatini. Si tratta invece di un modo molto pratico ed efficace, anche se impegnativo, per muoverci all'interno dei nostri collegamenti vitali e migliorarne la qualità. Quando il saggio dice " se non ti piace come va il mondo, comincia con cambiare te stesso ", esprime la stessa logica: l'umanità è vista implicitamente come un sistema all'interno dei quale ogni singolo cambiamento diventa una leva su cui fa perno il cambiamento del tutto. D'altra parte, pensare di cambiare se stessi, riuscire a cambiare se stessi anche poco, anche solo per qualche piccolo aspetto, è il segno di quanto di autenticamente vivo vogliamo mettere nelle nostre cose di tutti i giorni. Infatti vivere comporta inevitabilmente cambiare: le pietre e le rocce che non sono mai state vive non cambiano, il legno secco che è stato vivo ma ora è morto non cambia più. Il cambiamento è invece una prerogativa che riguarda esclusivamente gli organismi viventi e fa sì che tutto quanto è vivo e cambi. l nostro stesso corpo, quando è sano, è in continuo cambiamento: si pensi ai ritmi alimentari in base ai quali subito dopo un pasto possediamo un eccesso di sostanze nutritizie che va poi man mano consumandosi sino ad un fugace istante di equilibrio tra bisogni energetici e risorse disponibili, passato il quale inizia una sempre più accentuata carenza di elementi nutritivi sino al pasto successivo, appena dopo il quale il ciclo si ripete da principio. La vita e la salute sono indissolubilmente legate alla capacità di cambiare. I dinosauri sembra siano scomparsi, a differenza di altre specie, proprio perché non sono stati capaci di adattarsi ( cioè di cambiare ) in occasione di grandi mutazioni climatiche della terra. Non cambiare ha voluto dire morire. Tutto questo vale anche per i nostri atteggiamenti e per i nostri comportamenti. Sta perciò a ciascuno di noi decidere se giocare le regole vincenti della vita chiedendo a noi stessi, forse anche con sforzo, di presentarci nei collegamenti vitali non nel nostro solito modo, quello immutabile di tante altre volte precedenti, ma nel modo che è più adatto a far star bene ed a " stare bene con gli altri ", quelli che amiamo, quelli con cui lavoriamo, quelli che incontriamo ... Per riassumere I collegamenti vitali in cui siamo coinvolti potrebbero essere in molti casi più soddisfacenti se i nostri interlocutori cambiassero i loro modi di essere ed i loro modi di fare. Quando proviamo a sollecitarli con nostri inviti o con nostre richieste, non sempre otteniamo il risultato voluto. Possiamo originare un loro cambiamento modificando i nostri stessi comportamenti. Per il fatto che sia noi come un certo nostro interlocutore facciamo parte del medesimo sistema rappresentato da un collegamento vitale, al nostro nuovo modo di presentarci corrisponde necessariamente un suo diverso modo di reagire. Si verifica cioè un suo cambiamento.