L'immortalità dell'anima
Se la disciplina ha un suo dove essere e può essere soltanto in un soggetto vivente, se inoltre la disciplina è per sempre, ed anche il soggetto, in cui qualche cosa è per sempre, è indefettibile, il soggetto, in cui disciplina esiste, vive per sempre.
Egualmente, se siamo noi che formuliamo ragionamenti, cioè il nostro essere pensante, e non può formularli secondo logicità senza la disciplina, se inoltre non si concepisce essere pensante se non mediante la disciplina, considerazione a parte per quello in cui non v'è disciplina, esiste nello spirito dell'uomo la disciplina.
Dunque la disciplina ha un suo dove essere.
È reale infatti ed è impossibile che un essere reale non abbia un suo dove essere.
Allo stesso modo la disciplina può essere soltanto in un soggetto vivente.
È assurdo infatti che chi non vive apprenda a conoscere e la disciplina non può essere in chi non apprende a conoscere.
Allo stesso modo la disciplina è per sempre.
È infatti necessario che un esistente che non soggiace al divenire sia per sempre ed è innegabile che esista la disciplina.
Chi ammette appunto l'impossibilità che il diametro non sia la linea più lunga di tutte le altre che non passano per il centro della circonferenza e riconosce che questo enunciato appartiene ad una determinata disciplina, non può negare la non soggezione al divenire della disciplina.
Allo stesso modo è impossibile che un soggetto, in cui qualche cosa esiste per sempre, possa cessare.
È assurdo infatti che un essere che è per sempre si separi dal soggetto in cui esiste per sempre.
Quando noi formuliamo ragionamenti, è il nostro spirito che li formula.
E può farlo soltanto l'essere che è capace di pensiero.
L'essere sensibile dunque non pensa e non pensa il soggetto pensante per la mediazione del sensibile, poiché quando tende all'atto del pensiero trascende il sensibile.
Infatti l'oggetto del pensiero è sempre il medesimo; al contrario non v'è cosa del mondo sensibile che sia sempre la medesima.
Quindi non può aiutare lo spirito nel suo muoversi all'atto del pensiero.
È già molto che non lo impedisca.
Allo stesso modo non si possono formulare ragionamenti secondo logicità se non mediante la disciplina.
Il ragionamento è appunto atto del pensiero che da conoscenze oggettive tende all'esame di conoscenze non oggettive.
Ora per il soggetto pensante non c'è oggettività del non pensato.
Ma il soggetto pensante ha in sé l'oggetto di puro pensiero e il puro pensiero non ha altro oggetto da quello che è di competenza di qualche disciplina.
Disciplina è appunto pensiero puro di determinati oggetti.
Quindi lo spirito umano vive per sempre.
Il pensiero è certamente lo spirito stesso ovvero è nello spirito.
Ora ha più essere il nostro pensiero che il nostro corpo.
Ma il nostro corpo è un determinato essere permanente ed è meglio esser tale che non essere.
Quindi il nostro pensiero non è un non essere.
Ancora, qualsivoglia sia l'armonia del corpo, è necessario che risieda inseparabilmente nel corpo come soggetto; e non si deve ritenere che in tale armonia vi sia qualche elemento che non sia necessariamente nel corpo come soggetto, anzi l'armonia stessa vi risiederebbe inseparabilmente.
Ora il corpo umano soggiace al meccanismo, il pensiero non vi soggiace.
Soggiace infatti a divenire l'essere che non è sempre il medesimo.
Ma "due e quattro fanno sei" è sempre il medesimo ed egualmente "il quattro contiene due e due e non li contiene il due, quindi il due non è il quattro".
Questo è un pensiero che non soggiace al divenire: dunque il pensiero ha un suo essere.
Ma se il soggetto soggiace al meccanismo, necessariamente soggiace al divenire ciò che è in esso inseparabilmente.
Quindi lo spirito non è armonia del corpo.
E la morte non può sopraggiungere ad esseri non soggetti al meccanismo.
Pertanto lo spirito vive per sempre, sia esso il pensiero o sia in esso inseparabilmente il pensiero.
C'è una certa forza d'attuazione dell'essere in riposo e l'essere nel riposo non è nel divenire.
Inoltre la forza d'attuazione è in potenza ad attuare, ma quando non attua non cessa d'essere forza d'attuazione.
Ora l'attuazione implica l'esser mossi e il muovere.
Quindi non ogni essere mosso e, a più forte ragione, non ogni essere movente è nel divenire.
Soltanto l'essere che è mosso da un altro e non muove se stesso è mortale.
E non è mortale l'essere che non è nel divenire.
Quindi con certezza e senza possibilità dell'altra parte di contraddizione si conclude che non ogni essere che muove è nel divenire.
Ma non c'è movimento senza l'essere permanente ed esso o è vivente o non è vivente.
Ma l'essere che non vive è privo di anima e non si dà forza d'attuazione senza l'anima.
Quindi l'essere che muove senza porsi nel meccanismo non può essere che viva esseità permanente.
Ed è lei che, senza divisioni, muove il corpo alle singole gradazioni di vita.
Quindi non ogni essere che muove il corpo soggiace al meccanismo.
Inoltre il corpo è mosso soltanto secondo tempo.
Si tratta infatti di esser mossi in successioni più lente o più celeri.
Ne consegue che v'è un essere che muove col tempo, ma non si pone nel divenire.
E l'essere che muove il corpo col tempo, sebbene tenda ad unico fine, non può tuttavia produrre una molteplicità d'effetti contemporaneamente e deve produrre una molteplicità d'effetti.
Il corpo infatti, da qualsivoglia forza sia mosso, non può essere completamente uno perché può essere diviso in parti ed è assurdo un corpo senza parti.
D'altra parte non si dà tempo senza distinzioni di momenti.
Anche se si profferisce una sillaba brevissima, ne puoi udire la fine soltanto se non odi più l'inizio.
Ora per ogni atto che si compie nella successione si ha bisogno dell'attesa, perché esso si possa distendere, e della memoria perché si possa contrarre quanto è possibile.
L'attesa è degli avvenimenti futuri, la memoria dei passati.
Ma la coscienza d'agire è del presente.
In esso appunto il futuro diviene passato, sicché l'attesa del termine d'un attuale movimento del nostro essere fisico si congiunge ad un atto di memoria.
Non è infatti possibile attendere il termine se può sfuggire l'inizio e perfino la realtà del movimento stesso.
Allo stesso modo la coscienza dell'azione continuata che è presente è impossibile senza l'attesa del termine che è futuro.
Insomma è reale soltanto ciò che ancora non è reale ovvero non lo è più.
In un'azione quindi vi possono essere momenti appartenenti alle cose che ancora non si sono verificate.
In chi compie l'azione, al contrario, v'è simultaneamente la serie dei momenti sebbene essi non possano essere simultaneamente.
Possono essere dunque in chi muove, sebbene non possano essere in chi è mosso.
Ma tutte le cose, che non possono essere simultaneamente in un attimo di tempo e tuttavia sono trasmesse dal futuro al passato, sono di necessità nel divenire.
Ne deduciamo che non è assurdo che vi sia un essere il quale muove le cose poste nel divenire, ma non è posto nel divenire.
Difatti non è posta nel meccanismo, in chi muove, la coscienza di condurre al fine voluto l'essere sensibile che è mosso.
Inoltre l'essere sensibile usato come mezzo è posto dal movimento nel meccanismo per momenti successivi ed è manifesto che la coscienza di produrre l'effetto rimane fuori del divenire nell'atto che muove le membra dell'artigiano, il legno o la pietra che egli ha sotto mano.
Non si può dunque dubitare che è logicamente conseguente quanto è stato detto.
Quindi non necessariamente la soggezione al meccanismo nei corpi prodotta dallo spirito, anche se esso ne è cosciente, ne comporta la soggezione al meccanismo per cui si debba ritenere che anche esso soggiaccia a morte.
Esso infatti congiunge all'attuale coscienza la memoria del passato e l'attesa del futuro.
E questi momenti non si concepiscono senza la vita.
E sebbene non si dia corruzione senza il meccanismo né meccanismo senza il movimento, tuttavia non necessariamente il meccanismo causa la corruzione né il movimento il meccanismo.
Non è assurdo infatti pensare che il nostro corpo è mosso continuamente da agenti esterni e che diviene attraverso l'età, ma non per questo che è già morto, cioè privo di vita.
È possibile quindi pensare che lo spirito non viene perdendo vita nella successione, sebbene soggiaccia a una certa forma di divenire mediante il movimento.
Se nello spirito v'è qualche cosa che non soggiace al divenire e suppone la vita, ne consegue necessariamente che nello spirito la vita sia indeficiente.
L'argomento è tale che, posta la validità della premessa, è valida anche la conclusione.
Ora la premessa è valida.
È assurdo affermare infatti, per tacere di altri esempi, che il pensiero matematico è nel divenire, che qualsiasi arte liberale non è indefettibile in virtù del pensiero, che l'arte liberale non è nel dotto anche se non la esercita, che è sua indipendentemente dallo spirito, che possa esistere dove non c'è vita, che un essere non diveniente possa cessar d'esistere, che siano differenti l'arte liberale e il pensiero.
Infatti sebbene l'arte liberale sia definita come un sistema di vari pensieri, essa tuttavia si può definire con tutta verità e considerare come pensiero.
Ma sia che si interpreti nell'uno come nell'altro senso, se ne deduce egualmente che l'arte liberale non soggiace al meccanismo.
È egualmente manifesto non solo che l'arte liberale è nella coscienza del dotto, ma che è soltanto ed inseparabilmente nella coscienza del dotto.
Se infatti essa fosse separata dalla coscienza, o potrebbe esistere fuori della coscienza, o non esisterebbe in alcuna parte, o potrebbe per contatto passare da una coscienza ad un'altra.
Ma come l'arte liberale implica sempre la vita così la vita col pensiero è propria soltanto dell'anima umana.
Allo stesso modo è impossibile che un essere reale non sia in qualche parte e che ciò che non soggiace al meccanismo cessi in un determinato momento d'esistere.
Se poi l'arte liberale passasse di soggetto in soggetto per rimanere in uno abbandonando l'altro, non si può insegnare l'arte liberale se non perdendola ovvero non la si apprende se non per la dimenticanza o morte di un altro.
Ma se queste conclusioni sono assurde e false come lo sono, l'anima umana è immortale.
Ma supponiamo che l'arte liberale ora sia ed ora non sia in una coscienza.
È un fatto assai noto, dovuto alla dimenticanza o all'ignoranza.
Anche in tal caso non si può dedurre contro l'immortalità se si spiega la premessa nella seguente maniera.
O v'è qualche cosa nello spirito anche se non v'è nell'attuale stato di coscienza, ovvero in una mente colta non rimane la disciplina della musica nell'atto che si applica alla geometria.
Ma questa conclusione è falsa, quindi la prima è vera.
La mente non ha coscienza di possedere una nozione se questa non è rappresentata.
Vi può esser quindi nello spirito qualche cosa di cui esso non è cosciente.
Per quanto tempo vi rimanga non importa.
Poniamo dunque che un soggetto sia stato occupato in altre cose tanto a lungo che non gli è più possibile richiamare alla coscienza rappresentazioni anteriori.
Tale stato si chiama dimenticanza o ignoranza.
Ma quando noi scopriamo qualche verità riguardante le discipline liberali in una meditazione interiore ovvero in un dialogo condotto con buon metodo, la scopriamo soltanto nel nostro spirito.
E scoprire non è il medesimo che produrre o causare, altrimenti la mente causerebbe verità eterne con una scoperta operata nel tempo.
Talora infatti scopre verità eterne.
Nulla v'è infatti di più eterno che l'idea del circolo o altre nelle varie discipline.
È assurdo che esse non siano per sempre o che cessino d'essere.
Ed è anche evidente quindi che lo spirito umano è immortale e che le nozioni intelligibili esistono nella sua interiorità, sebbene possa sembrare che, o per non averle apprese o per averle dimenticate, non le abbia o le abbia perdute.
Ora esaminiamo in quali limiti si deve intendere il divenire dello spirito.
L'arte liberale suppone un soggetto.
Facciamo dunque l'ipotesi che lo spirito sia soggetto.
È impossibile in tale ipotesi che il soggetto soggiaccia al meccanismo senza il soggiacervi di ciò che è nel soggetto.
Non si può ritenere per apodissi che l'arte liberale e il pensiero non sono nel divenire se ci si obietta validamente che lo spirito, in cui essi esistono, è nel divenire.
Poi non v'è maggiore soggezione al divenire che il passaggio da un contrario all'altro.
Infine, per non parlare d'altro, non si può negare che lo spirito può trovarsi nell'ignoranza ovvero possedere scienza.
Esaminiamo prima di tutto in quanti modi s'intende il così detto divenire dell'anima.
I più noti soltanto ed evidenti per noi, a mio molo di vedere, sono due nel genere, molti nella specie.
Si dice che l'anima soggiace al meccanismo o secondo i perturbamenti fisici o secondo quelli propri: secondo i perturbamenti fisici, per esempio, a causa dell'età, delle malattie, dei dolori, della fatica, delle sventure, dei piaceri; secondo i propri, ad esempio, con i desideri, la gioia, il timore, l'affanno, l'applicazione, l'apprendimento.
Ma facciamo l'ipotesi che queste perturbazioni non costituiscano una dimostrazione valida per la mortalità dell'anima.
Prese separatamente intanto non sono certamente un'obiezione temibile.
Basta esaminare, perché non costituiscano obiezione al nostro assunto, che nel divenire del soggetto è implicito formalmente il divenire di ciò che è nel soggetto.
Dunque non costituiscono obiezione.
Si avrebbe infatti un divenire che comporterebbe la mutazione sostanziale del soggetto.
Ad esempio, se un pezzo di cera diviene da bianco nero, è egualmente cera.
Allo stesso modo se assume da quadrangolare figura circolare, da molle diviene dura, da calda fredda, queste proprietà sono nel soggetto e soggetto rimane la cera.
E rimane cera, non più o meno cera sebbene le proprietà siano nel divenire.
È possibile quindi un determinato divenire delle proprietà che sono nel soggetto senza che esso soggiaccia a mutazione nella sostanza e nel nome.
Ma facciamo il caso che avvenga una così profonda alterazione delle proprietà che sono nel soggetto da non poter denominare alla stessa maniera l'essere che era considerato come soggetto.
Ad esempio, la cera, quando col calore del fuoco si spande nell'aria, subisce un tale cangiamento da farci pensare che il soggetto sia mutato.
Era la cera, ma non è più la cera.
In tal caso, in nessun senso e per nessun ragionamento si può ritenere che rimanga qualche elemento delle proprietà che appunto erano in quel soggetto per il fatto che era quel soggetto.
Pertanto se l'anima è soggetto, come abbiamo già detto, e in essa il pensiero esiste inseparabilmente perché di assoluta necessità, i singoli pensieri implicano un soggetto; inoltre se è anima soltanto l'anima che ha vita e il pensiero che è in essa implica vita e il pensiero è immortale, l'anima è immortale.
È assurdo infatti che il pensiero non soggiaccia al meccanismo se il suo proprio soggetto cessa d'esistere.
E l'assurdo si verificherebbe se avvenisse una sostanziale mutazione dell'anima sicché il pensiero non ne rimanesse il costitutivo essenziale assicurandole immortalità.
Ora nessuna delle suddette perturbazioni che si producono o per influsso del corpo o dell'anima ha per effetto che l'anima non sia anima.
E c'è anche il non trascurabile problema se alcune avvengano per influsso dell'anima in maniera che essa ne sia la causa.
Comunque ormai non sono più temibili né in sé né alla nostra dimostrazione.
Osservo quindi che si deve attendere con ogni vigore dialettico per avere scienza del significato di pensiero e delle varie definizioni che se ne possono dare, affinché da ogni modo di definirlo si possa trarre certezza dell'immortalità.
Il pensiero è lo sguardo dello spirito per cui da sé e non mediante il sensibile ha intuizione dell'intelligibile, o anche la pura contemplazione dell'intelligibile, ovvero è lo stesso intelligibile che si contempla.
Nessuno può dubitare che esso, inteso nel primo senso, è nello spirito.
Sul secondo e terzo senso l'indagine è aperta.
Comunque anche nel secondo senso non è concepibile senza lo spirito.
Esiste una grande controversia nei confronti della terza accezione e cioè se l'intelligibile, di cui il soggetto pensante ha pura intuizione, sia in sé sussistente e fuori del soggetto pensante o possa concepirsi senza il soggetto pensante.
Ma comunque sia, il soggetto pensante non potrebbe conoscerlo analizzando se stesso, ma attraverso un particolare congiungimento con esso.
Infatti ogni oggetto che contempliamo o ci rappresentiamo, ce lo rappresentiamo o con il senso o con l'intelletto.
Ma gli oggetti che si percepiscono col senso sono percepiti come esterni a noi e posti in condizioni di spazio, sicché si deve ammettere che non se ne ha una rappresentazione universale.
Gli oggetti intelligibili al contrario sono conosciuti come non posti fuori in determinate condizioni, allo stesso modo appunto dello spirito che li conosce.
Difatti con atto medesimo si pensa che non sono in condizioni di spazio.
Quindi la sintesi del soggetto pensante e dell'intelligibile pensato o avviene in maniera che lo spirito è soggetto e l'intelligibile è nel soggetto, o al contrario l'intelligibile è il soggetto e lo spirito nel soggetto, o sono ambedue a sé stanti.
Nella prima ipotesi sono egualmente immortali lo spirito e il pensiero poiché il pensiero, in virtù della dimostrazione già esposta, può inerire soltanto a soggetto vivo.
La medesima logica conclusione si ha nella seconda ipotesi.
Infatti se l'intelligibile che si dice pensiero, nel suo esprimersi, non soggiace a divenire, non soggiace a divenire l'essere che è in esso come in soggetto.
Quindi ogni difficoltà rimane per la terza ipotesi.
Infatti se lo spirito è a sé stante, e l'essere a sé stante si congiunge col pensiero, si potrebbe pensare, senza cadere nell'assurdo, alla possibilità che lo spirito sia defettibile, pur rimanendo indefettibile il pensiero.
Ma è evidente che lo spirito, finché non si separa dal pensiero e ad esso inerisce, necessariamente persiste in vita.
Intanto da quale forza potrebbe esserne separato?
Da forza materiale, più debole nel potere, inferiore di origine e di ordine assai diverso?
Certamente no. Spirituale allora? Ma anche qui in qual maniera?
Anche uno spirito più puro, qualunque sia, non può forse attuare un puro pensiero senza allontanarne lo spirito inferiore?
Ma pur nell'ipotesi che tutti abbiamo pura intellezione, il pensiero non viene a mancare per ognuno che abbia pura intellezione.
Intanto non v'è essere che sia più in atto del pensiero, poiché è il meno soggetto al divenire.
Quindi in nessuna maniera lo spirito che ancora non è congiunto con il pensiero può essere più in atto di quello che v'è congiunto.
Rimane che il pensiero lo separi da sé o lo spirito stesso se ne separi.
Ma all'essere del pensiero non appartiene il cattivo volere che gli impedisca di offrirsi allo spirito.
Anzi quanto più ha essere tanto più comunica alla cosa, che gli si unisce, quell'essere il cui contrario è il perire.
Si potrebbe poi dire, non del tutto illogicamente, che il soggetto pensante si separa dal pensiero con la volontà, se si desse vicendevole separazione degli esseri che non sono nello spazio.
Il motivo si può applicare contro tutte le precedenti obiezioni, alle quali abbiamo opposto altrettante confutazioni.
E allora si deve già ammettere che lo spirito dell'uomo è immortale?
E potrebbe cessar d'essere anche se è impossibile che si separi?
Ma se il potere della ragione attua lo spirito in virtù del congiungimento, e necessariamente lo attua, lo attua certamente nel produrvi l'essere.
L'essere appartiene in grado sommo al pensiero che si concepisce come la forma più pura d'esenzione dal divenire.
Dunque costringe, in certo senso, all'essere le cose cui si partecipa.
Quindi lo spirito non può cessar d'essere se non separato dal pensiero.
Ma non può essere separato, come abbiamo già dimostrato; quindi non può perire.
Ma al contrario è impossibile che il separamento dal pensiero, il quale induce insipienza nella coscienza, avvenga senza un suo deperimento.
Essa infatti si accresce nell'essere quando si muove verso il pensiero e ad esso inerisce, poiché inerisce all'essere attuale che è verità, cioè totalità e principio dell'essere.
Per inverso, quando se ne allontana, ha meno essere che è appunto un deperire.
Ora il deperimento per sé tende alla nientificazione.
Non ci si dà con maggiore proprietà il concetto del perire che nell'essere il quale era qualche cosa e diviene nulla.
Tendere al nulla è appunto tendere al perire.
E non si può trovar motivo di dire che non si verifica nello spirito se in esso si verifica una dissoluzione.
Si concede tutto fuorché la conseguenza che perisce, cioè raggiunge il nulla, l'essere che vi tende.
Il motivo si può rilevare perfino nel corpo.
Ogni corpo è infatti parte del mondo sensibile e quanto ha più essere ed occupa più spazio, tanto più si avvicina al tutto; e quanto più vi si avvicina, tanto ha più essere.
Ma il tutto è maggiore della parte.
Per contrario è necessario che il corpo abbia meno essere quando è diminuito.
Ed è diminuito quando da esso si sottrae una parte mediante divisione.
Ne consegue che esso con tale detrazione tende alla nientificazione.
Ma qualsiasi divisione non riduce al nulla.
Infatti ogni parte che rimane è corpo, comunque sia la sua ubicazione, sia pure in porzione minima di spazio.
Non potrebbe se non avesse parti in cui esser diviso all'infinito.
Può quindi con divisioni all'infinito essere diminuito all'infinito e quindi subire decrementi e tendere al nulla sebbene non lo può raggiungere.
La medesima cosa si può dire dello spazio stesso e di qualsiasi lunghezza.
Infatti detraendo da determinate lunghezze, ad esempio, una metà e del restante sempre una metà, la lunghezza diminuisce e si avvicina al punto, al quale tuttavia non si giunge mai.
A più forte ragione l'annullamento non si deve temere per lo spirito.
Infatti ha più essere e vita del corpo il principio che gli dà vita.
Inoltre l'essenza del corpo non è nella quantità, ma nella forma.
Il motivo, può esser dimostrato con argomento irrefutabile.
Il corpo ha tanto più essere quanto più è perfetto e proporzionato, tanto ha meno essere quanto più è imperfetto e deforme.
Il dissolvimento non è dovuto alla divisione della quantità di cui è stato già detto sufficientemente, ma alla privazione di perfezione.
Sul problema si deve investigare con diligenza ed esaminarlo bene, perché non si affermi che per tale deperimento lo spirito cessi di essere.
Esso è certamente privo d'una sua perfezione mentre è nell'ignoranza; ma non si deve credere che tale privazione possa aumentare al punto da spogliare lo spirito d'ogni proprietà e che mediante tale deperimento lo induca al nulla e lo faccia cessar d'essere.
E se possiamo dimostrare che neanche il corpo può esser privo della forma per cui è corpo, a buon diritto forse renderemo evidente che a più forte ragione non si può sottrarre allo spirito ciò per cui è spirito.
Infatti chi sa ben guardare nella interiorità dovrà confessare che la coscienza, comunque sia, ha più valore di qualsiasi corpo.
Sia dunque premessa della nostra dimostrazione che qualsiasi essere non si produce o genera da sé, altrimenti sarebbe prima di essere.
Il secondo enunciato è assurdo: quindi il primo è vero.
Allo stesso modo l'essere che non è stato né prodotto né generato e tuttavia esiste è essenzialmente supertemporale.
Ed erra gravemente chi attribuisce tale natura ed eccellenza all'essere corporeo.
Ma perché polemizzare?.
A più forte ragione saremmo costretti ad attribuirle allo spirito.
Certamente se un qualche essere corporeo è supertemporale, qualsiasi essere spirituale è supertemporale, poiché qualsiasi essere spirituale ha più valore di qualsiasi essere corporeo e le cose supertemporali più valore delle cose che non lo sono.
Ma nell'ipotesi, la quale è vera, che il corpo sia stato prodotto, è prodotto da causa efficiente e ad esso non inferiore.
Altrimenti la causa efficiente sarebbe stata nell'impossibilità di dare all'essere prodotto ciò che esso è per esseità.
Ma neanche da causa agente di pari grado; è infatti necessario che essa abbia un potere efficiente superiore all'effetto prodotto.
Del generante infatti si dice non illogicamente che è della stessa natura dell'essere generato.
Il mondo è stato quindi prodotto da una causa generante più potente e più attuale e certamente non corporea.
Se corpo fosse prodotto da corpo, il mondo non avrebbe potuto esser stato prodotto.
È assolutamente vero l'enunciato che abbiamo posto come principio della presente dimostrazione, che, cioè, una cosa non può da sé prodursi.
La causa generante incorporea, produttrice del mondo sensibile, regge l'universo con potere sempre in atto.
Non ha prodotto per allontanarsi e abbandonare l'effetto.
L'essere che non è corpo non si muove nello spazio, per così dire, allo scopo di separarsi dall'essere che occupa lo spazio.
Inoltre come causa efficiente non può esser discontinua nel conservare il proprio prodotto e permettere così che esso rimanga privo della forma per cui esiste, nei limiti in cui esiste.
Infatti l'essere che non esiste da sé, se è abbandonato dall'essere per cui esiste, cesserà d'esistere.
E non possiamo affermare che il corpo, quando è stato prodotto, ha ricevuto il potere di essere autosufficiente qualora fosse abbandonato dalla causa produttrice.
Ma ammesso che così fosse, a più forte ragione avrebbe tale sufficienza lo spirito.
Esso infatti, com'è manifesto, ha più essere del corpo.
E nell'ipotesi che esso esista per sé, sarebbe con immediatezza dimostrato che è immortale.
È di metafisica necessità infatti che un essere tale sia incorruttibile e che quindi non possa perire perché nessun essere può abbandonare se stesso.
Al contrario la soggezione del corpo al divenire è d'immediata evidenza.
Lo dimostra l'universale movimento dell'universo sensibile.
Perciò da chi sa osservare con intelligenza, nei limiti con cui la natura può esser osservata, si scopre che l'esser diveniente diviene secondo una razionale legge del divenire.
Ma l'essere per sé non ha necessità di movimento, poiché esso è medesimo a sé in ogni atto del proprio essere.
Il movimento al contrario tende all'altro che è di necessità all'essere diveniente.
Dunque la forma inerisce all'universo sensibile per l'azione d'una causa generante superiore che è ragione sufficiente e conservatrice degli esseri prodotti.
Quindi la soggezione al divenire non sottrae al corpo di esser corpo, ma lo attua di perfezione in perfezione con movimento sommamente razionale.
Non si lascia dunque che una parte vada al nulla, poiché la sua causa efficiente tutto conchiude con potere che non si affatica e non si arresta.
Ed essa dà ad ogni essere da lei prodotto di esistere nelle condizioni in cui esiste.
Quindi non si deve essere così irragionevoli da dubitare che lo spirito valga di più del corpo ovvero, ciò concesso, da ritenere che il corpo non possa cessare d'esser corpo e che lo spirito possa cessare d'essere spirito.
Ma se non cessa di esserlo ed è spirito perché vive, certamente lo spirito giammai muore.
Ma qualcuno potrebbe pensare che per l'essere spirituale non si deve temere la corruzione per cui non è più qualche cosa che è stato, ma quella per cui diciamo morti gli esseri privi di vita.
Consideri allora che nessun essere subisce privazione di se stesso.
Ora l'anima è concetto di vita; si concepisce infatti come vivo l'essere animato e come morto, cioè privo di vita, l'essere inanime che può essere animato.
Quindi l'anima non può morire.
Se potesse subir privazione di vita, non sarebbe anima ma un essere animato.
E questo è assurdo.
Quindi a buona ragione il genere di morte, che non si deve temere per la vita, non si deve temere neanche per l'anima.
Sia infatti per ipotesi che l'anima muore quando se ne separa la vita.
Ma l'anima viene concepita con molta proprietà come la vita che se ne separerebbe.
L'anima in definitiva non è un soggetto da cui la vita si separerebbe, ma vita che si separerebbe da se stessa.
Infatti ogni essere che si dice morto perché separato dalla vita, s'intende separato dall'anima.
Allora la vita che si separa dagli esseri che muoiono è l'anima stessa che non si può separare da sé.
Quindi l'anima non muore.
Ci dobbiamo comunque porre l'obiezione che la vita sia, secondo l'opinione di alcuni, l'elemento organizzatore del corpo.
Ma costoro non avrebbero ritenuto tale opinione se avessero potuto intuire, con la propria medesima intelligenza totalmente elevata dall'esperienza sensibile, gli oggetti intelligibili che non divengono.
Chi infatti, essendo capace di riflettere nella propria interiorità, non ha sperimentato di avere avuto intellezione tanto più pura quanto più è riuscito a distogliere e liberare l'atto di coscienza dell'esperienza sensibile?
Non sarebbe potuto avvenire se l'anima fosse energia organizzatrice del corpo.
Un essere infatti che non avesse una propria natura e non fosse essere in sé ma inerisse inseparabilmente a sostanza corporea, come il colore e la figura, non potrebbe assolutamente tentare di conseguire autosufficienza dal corpo per avere conoscenza degli intelligibili e, in quanto lo può, averne pura intuizione e, mediante essa, ottenere dignità e valore.
Per fisica necessità la figura, il colore e la stessa struttura organica del corpo, che consiste in una determinata unione dei quattro elementi di cui il corpo medesimo è composto, non se ne possono separare.
Sono infatti inseparabilmente in esso come soggetto.
Inoltre gli oggetti, di cui lo spirito ha pura conoscenza quando si distacca dal sensibile, non sono certamente sensibili.
Tuttavia essi hanno l'essere e l'essere nel più alto grado, perché sono sempre i medesimi.
Niente si può dire di più assurdo che hanno l'essere gli oggetti visibili e che non hanno l'essere gli oggetti intelligibili.
È da insensati dubitare che l'intelligenza è incomparabilmente superiore alla vista.
Quando dunque lo spirito ha intellezione degli intelligibili, sempre medesimi a se stessi, manifesta sufficientemente che è ad essi congiunto in un ordine superiore, sempre il medesimo e sovrasensibile, cioè fuori dello spazio.
Ora o gli intelligibili sono nello spirito o esso è negli intelligibili.
Nell'una e nell'altra ipotesi, o sono l'uno all'altro come in soggetto ovvero sono ambedue sussistenti.
Se vale la prima ipotesi, lo spirito non è nel corpo come in soggetto allo stesso modo del colore e della figura.
Infatti o esso sussiste in sé o inerisce ad altro essere immateriale come in soggetto.
Se vale la seconda ipotesi, lo spirito non è nel corpo come in soggetto allo stesso modo del colore, perché sussiste in sé.
L'elemento organizzatore al contrario è nel corpo allo stesso modo del colore.
Quindi lo spirito non è struttura dell'organismo corporeo, ma è vita.
Ora non c'è essere che si separi da sé; perciò muore solo ciò che viene abbandonato dalla vita: quindi è impossibile che lo spirito muoia.
Ma torna una possibile difficoltà.
Essa consiste nel fatto che lo spirito venga a mancare, per dissolvimento, cioè venga privato della forma dell'esistere.
Sull'argomento, come penso, è stato detto abbastanza ed è stato dimostrato con sicuro argomento che l'eventualità è impossibile.
Tuttavia bisogna anche considerare che v'è un solo motivo di tale difficoltà.
Si deve ammettere infatti che la coscienza di chi non sa, si trova in uno stato di deperimento e quella di chi ha scienza in una esseità più perfetta e piena.
Ma la coscienza è sciente in grado sommo quando intuisce la verità a sé sempre medesima e vi aderisce immobile, congiunta di amore sovrasensibile.
Nessuno ne può dubitare.
Inoltre la verità di tutte le cose che hanno in qualche modo l'essere, ha l'essere nel grado più alto possibile.
Quindi lo spirito ha da essa l'essere in quanto tale o lo ha da sé.
Se lo ha da sé, poiché è a sé causa dell'esistere e giammai si abbandona, mai si corrompe, come abbiamo dimostrato dianzi.
Ma nell'ipotesi che lo abbia da quella esseità, bisogna indagare quale cosa sia tanto contraria allo spirito che gli tolga l'essere spirituale da quella partecipatogli.
Che cosa dunque? Forse la soggezione al sensibile perché quella è pura intelligibilità?.
È manifesto e di facile dimostrazione il limite entro cui essere nel sensibile può negare l'essere spirituale.
Può forse fare altro che porre nel sensibile? Intanto l'individuo vive soltanto se è nel sensibile.
Dunque l'essere nel sensibile non può far corrompere lo spirito.
Ma se l'essere nel sensibile, che è contrario all'essere intelligibile, non può togliere allo spirito di esser spirito perché gli è comunicato dall'essere intelligibile che assolutamente non può soccombere, che altro si può trovare che sottragga allo spirito l'esser spirito?
Nulla certamente, poiché non v'è contrario che sia più efficiente nel negare l'essere comunicato dal suo contrario.
Ma cerchiamo il contrario dell'essere intelligibile, non in quanto intelligibile ma in quanto essere trascendente e infinito.
Ovviamente esso è tale in quanto intelligibile, poiché intendiamo per l'essere intelligibile quello per cui tutte le cose sono intelligibili in quanto hanno l'essere ed hanno l'essere in quanto sono intelligibili.
Comunque non intendo passare sopra all'argomento perché mi favorisce.
Se nessuna esseità in quanto tale ha il suo contrario, a più forte ragione non ha il contrario la esseità che è l'essere intelligibile in quanto tale.
La premessa è vera. Infatti ogni esseità in tanto è esseità in quanto ha l'essere.
Ora l'essere ha per contrario il non essere; ne consegue che l'esseità non ha contrario.
Quindi è impossibile che vi sia una esseità contraria all'essere sussistente infinito e originario.
Ammettiamo dunque che lo spirito da esso partecipi ciò che è.
Infatti non potendo parteciparselo da sé, può parteciparlo soltanto da un essere che è in più alto grado dello spirito stesso.
Quindi non v'è esseità che glielo faccia perdere poiché non v'è esseità contraria a quella da cui partecipa.
Pertanto non può cessare d'esistere.
Certamente può perdere l'abito del filosofare perché derivandolo nel volgersi verso l'essere da cui ha l'essere, lo può perdere col volgersi in altro senso.
Implica appunto opposizione l'esser volto in una o nell'altra parte.
Ma non v'è causa per cui possa perdere l'esseità che partecipa dall'essere che non ha l'opposto.
Quindi non può cessar d'esistere.
A questo punto potrebbe sorgere un determinato problema: se, cioè, ammesso che lo spirito non perisca, possa essere alienato in una esseità inferiore.
Con i precedenti ragionamenti s'è dimostrato che lo spirito non può giungere fino al nulla, ma che potrebbe divenir corpo.
Qualcuno infatti potrebbe così opinare e non a torto.
Se lo spirito dal suo essere originario diventa corpo, certamente non avrà cessato di essere del tutto.
Si darebbe tale possibilità soltanto o per propria spontanea tendenza o per condizione estrinseca.
Ma non si dà alcuna ragione che esso diventi corpo tanto per tendenza quanto per costrizione.
È legittima conseguenza che se è corpo, vi tenda o ne sia condizionato, ma non è conseguente che se vi tende o ne è condizionato, diventi corpo.
Non può infatti averne tendenza.
Ogni sua tendenza al corpo consiste nell'usarne, nel dargli vita, nella varia produzione artificiale o nel provvedere comunque ad esso.
Ora nessuna di queste funzioni è possibile se l'anima non fosse di grado superiore al corpo.
Ma se fosse corpo, non sarebbe di grado superiore.
Quindi non può avere tendenza a divenire corpo.
Non v'è argomento più certo di tale verità che nell'atto con cui la coscienza è in colloquio con se stessa.
In esso può rendersi consapevole di non avere altre tendenze che di produrre, di avere scienza, di sentire, in una parola di vivere perché questa è la sua specifica funzione.
E supponiamo che subisca costrizione a divenire corpo.
E da chi la potrebbe subire? Ma da qualsiasi essere, purché di maggior potere causale.
Dunque non può subire costrizione da un essere corporeo.
Non v'è essere corporeo che sia di maggiore efficienza causale di qualsivoglia essere spirituale.
In quanto poi a un essere spirituale, anche se causalmente più efficiente, esercita la sua energia di costrizione soltanto sugli esseri che sono soggetti al suo potere.
Quindi soltanto per la mediazione delle passioni un essere spirituale può subire soggezione da un altro essere spirituale.
Dunque esso impone costrizione soltanto nei limiti che gli consentono le passioni del soggetto cui impone la costrizione.
Ma è stato già affermato che lo spirito non può avere una passione che lo faccia divenir corpo.
Ed è evidente che esso non può giungere all'appagamento della sua passione nell'atto che tutte le perde.
E le perde nell'atto che diviene corpo.
Quindi non può subire costrizione al divenire da un agente che non ha potere se non per la mediazione delle passioni del soggetto che subisce.
Infine è metafisicamente necessario che un essere spirituale, il quale ne ha in potere un altro, tenda ad avere in potere un essere spirituale e non un essere corporeo o per educarlo nella bontà o per renderlo schiavo con la malvagità.
Dunque non tenderà a farlo divenire essere corporeo.
Infine l'essere spirituale che impone la costrizione o ha corpo o non lo ha.
Se non lo ha, non è in questo mondo.
E nell'ipotesi è sommamente buono né può volere per un altro essere spirituale una tanto disonorante alienazione.
Nell'ipotesi poi che abbia corpo, o lo ha anche l'essere cui impone la costrizione o non lo ha.
Se non lo ha, non può subire costrizione dall'altro.
Chi è nel più alto grado dell'essere, non ha causa a sé superiore.
Se poi è nel corpo, subisce costrizione, da altro essere a sua volta corporeo, al vario meccanismo mediante strumento corporeo.
E chi potrebbe dubitare che non è possibile mediante essere corporeo imporre simile alienazione ad essere spirituale?
Potrebbe avvenire se l'essere corporeo avesse maggiore efficienza.
Ma ammettiamo pure che, qualunque sia il termine della costrizione, la subisca mediante il meccanismo corporeo.
Rimane che immediatamente la subisce a causa delle passioni e non del meccanismo corporeo.
Ne abbiamo già parlato abbastanza.
Per universale consenso Dio soltanto ha più essere dell'anima ragionevole.
Ed egli certamente provvede all'anima.
Quindi l'anima non può subire da lui costrizione a divenire corpo.
Se quindi l'essere spirituale non subisce alienazione né per tendenza propria né per costrizione estrinseca, donde la potrebbe subire?
Può costituire difficoltà il fatto che il sonno ci sorprende contro il nostro volere?
Per tale specie di dissolvimento l'essere spirituale può trasformarsi in corporeo?
L'obiezione potrebbe valere se dal momento che le nostre membra trovano quiete nel sonno, anche la coscienza subisse un qualche dissolvimento.
Essa nel sonno non percepisce soltanto gli oggetti sensibili, poiché la funzione che produce il sonno proviene dal corpo ed agisce sul corpo.
Sopisce gli organi del senso e, per così dire, li chiude in maniera che l'anima ceda con appagamento a tale alienazione fisiologica.
È appunto un'alienazione fisiologica naturale che ristora il corpo dall'affaticamento.
Tuttavia essa non toglie alla coscienza il potere di sentire e di pensare.
Ha infatti ha disposizione le immagini degli oggetti sensibili e con una rappresentazione di tanta simiglianza che nel momento non si possono distinguere dalle cose di cui sono immagini.
E se avesse un pensiero, esso è vero egualmente tanto se dorme come se è desta.
Facciamo un esempio.
Nel sonno essa immagina di ragionare e adducendo dimostrazioni vere raggiunge col ragionamento conclusioni scientifiche.
Quando si sveglia, esse rimangono immutabili, anche se sono semplici apparenze i termini del sogno e cioè il luogo e la persona con cui il ragionamento è stato immaginato e le parole stesse, in quanto suono, con cui immaginava di sognare, e altri particolari del genere.
Sono oggetti che si percepiscono e azioni che si compiono da chi è desto, ma sempre come apparenze e che quindi non posseggono l'eterna presenzialità delle verità ideali.
Ne consegue che per tale alienazione fisiologica, il sonno appunto, si diminuisce per l'anima l'uso del corpo, ma non la sua attualità.
Infine l'anima, fuori delle condizioni di spazio, è unita al corpo sebbene esso sia nelle condizioni di spazio.
Quindi l'anima, anteriormente al corpo, è sotto l'influsso delle ragioni ideali ed eterne che sono immuni dal divenire e fuori delle condizioni di spazio.
E non soltanto prima, ma più direttamente.
Infatti è tanto anteriore quanto è più vicina e per lo stesso motivo tanto più direttamente quanto è più perfetta del corpo.
La suddetta vicinanza è infatti intesa non secondo il luogo, ma secondo il grado di generazione.
E per questo grado s'intende che, per mezzo dell'anima, dalla somma esseità viene applicata una forma al corpo secondo il suo particolare modo d'essere.
Quindi il corpo sussiste per la mediazione dell'anima nell'atto stesso che viene animato sia in quanto universo come il mondo, sia in quanto singolo come qualsiasi essere animato nell'ambito del mondo.
Ne potrebbe quindi conseguire che un'anima, soltanto per la mediazione di un'altra anima e non altrimenti, possa divenir corpo.
Ma ciò non può avvenire.
Infatti l'anima rimane nella sua attualità di anima e il corpo ha sussistenza da lei che gli partecipa e non gli sottrae la forma; quindi l'anima non può essere alienata in corpo.
E nell'ipotesi che non comunicasse la forma che essa partecipa dal sommo bene, non è per la sua mediazione che si ha il corpo.
E se non si ha per tale mediazione, o non si ha affatto o deriva la forma da tanta vicinanza quanta è propria dell'anima.
Ma si ha il corpo e, se esso deriva la forma da eguale vicinanza, ha identità con l'anima.
Qui sta appunto la differenza.
E l'anima è tanto più perfetta quanto da maggiore vicinanza partecipa.
Anche il corpo parteciperebbe da eguale vicinanza se non partecipasse mediante l'anima.
Senza interposizione parteciperebbe appunto da eguale vicinanza.
Soltanto l'anima, la quale comunica la vita, si frappone fra la somma vita, che è anche mente e verità sovrasensibile, e l'essere infimo che è vivificato, il corpo appunto.
E se l'anima comunica al corpo la forma dell'essere corporeo in quanto tale, certamente nell'atto che comunica la forma non la sottrae.
Ma la sottrarrebbe se facesse alienare l'anima nel corpo.
Quindi l'anima non diviene corpo da sé perché è il corpo che diviene corpo dall'anima che permane; e non per la mediazione di un altro essere, perché soltanto con la partecipazione della forma mediante l'anima si ha il corpo e con la sottrazione della forma l'anima si trasformerebbe in corpo nell'ipotesi che lo potesse.
Il principio si può applicare all'anima o vita irrazionale nel senso che l'anima razionale non può trasformarsi in essa.
Anche essa infatti, se non fosse per grado inferiore soggetta all'anima razionale, parteciperebbe direttamente la propria forma specifica e sarebbe costituita nel medesimo ordine.
Comunicano quindi la forma specifica partecipata dalla Somma Armonia gli esseri più in atto, in ordine alla generazione, ai meno in atto.
E quando la comunicano, non la sottraggono.
E gli esseri meno in atto sono tali nella loro esseità perché è comunicata loro dai più in atto la forma per cui hanno l'essere.
Ovviamente gli esseri più in atto sono anche più perfetti.
Ed è proprio di tali esseri generanti avere maggior dinamismo, non per quantità maggiore su quantità minore, ma, senza maggiore estensione spaziale, essere, nell'ordine d'una medesima essenza, tanto più in atto quanto più perfetti.
Ed è proprio per tale ordine che l'anima è più perfetta e più in atto del corpo.
E poiché per sua mediazione, com'è stato detto, il corpo ha sussistenza, è assolutamente impossibile che essa sia trasformata in corpo.
Ogni corpo infatti riceve la forma soltanto mediante l'anima.
Sarebbe possibile che l'anima divenga corpo, non con la partecipazione ma con la cessazione della forma.
Ma per questo appunto è impossibile, a meno che l'anima non occupi uno spazio e spazialmente sia unita al corpo.
Nell'assurda ipotesi, sarebbe anche possibile che un corpo quantitativamente più esteso comunichi la propria forma più imperfetta ad essa che come forma è più perfetta.
Valga d'esempio una forte massa d'aria con un piccolo fuoco.
Ma non è così. Una determinata quantità infatti, nell'occupare lo spazio, non è tutta nelle singole parti ma nel tutto.
Quindi ogni sua parte ha diversa ubicazione.
L'anima al contrario è tutta simultaneamente presente non solo nella totale estensione del corpo, ma anche in ogni sua particella.
Infatti percepisce la modificazione sensibile di ogni parte del corpo ma non in tutto il corpo.
Se si ha un dolore al piede, lo avverte l'occhio, lo esprime la lingua, si muove la mano.
Non avverrebbe se la funzione dell'anima esistente in tali organi non avesse sensibilità nel piede, e non potrebbe avvertire la modificazione avvenutavi se fosse assente.
Non è concepibile che il fatto si verifichi in virtù d'un organo di trasmissione il quale non avvertisse ciò che trasmette.
La modificazione si trasmette nella continuità dell'estensione sicché non sfugge alle parti che hanno diversa posizione.
Tutta l'anima avverte l'alterazione avvenuta in una piccola parte del piede e l'avverte soltanto dove avviene.
È dunque tutta presente nelle singole parti perché è tutta a sentire nelle singole parti.
Tuttavia non è tutta presente allo stesso modo che la bianchezza, o altra proprietà sensibile, è tutta in ogni singola parte del corpo.
Infatti l'alterazione che avviene in una parte del corpo per il cambiamento di bianchezza può non riguardare la bianchezza che è in un'altra parte.
Quindi si deve ammettere che essa ha diverse posizioni secondo le diverse posizioni dell'estensione.
Ma è provato che così non avviene nell'anima in merito alla sensazione di cui è stato parlato.