Il maestro interiore

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I segni e le cose

AG. - Hai ricordato abbastanza bene ciò che volevo e, lo confesso, queste distinzioni ora mi appaiono in modo molto più evidente di quando, cercando e discutendo, le tiravamo fuori da non so quale luogo nascosto.

Ma, al punto in cui siamo, è difficile a dirsi dove io cerchi di giungere insieme a te attraverso giri tanto tortuosi.

Tu forse credi che stiamo giocando e distogliendo lo spirito dalle cose serie con alcune questioncelle puerili o che stiamo trattando problemi di scarsa o limitata utilità; oppure, se prevedi che da questa discussione possa scaturire qualche cosa di importante, ormai desideri saperla subito o almeno vuoi sentirne parlare.

Vorrei piuttosto che credessi che con questo discorso non ho inteso dar luogo a giochetti di poco valore perché, anche se può darsi che stiamo giocando, tuttavia la cosa non va valutata in senso puerile; inoltre, non sto pensando a beni di piccola o mediocre qualità.

Pertanto, se ti dico che è proprio la vita beata e sempiterna la meta alla quale, con la guida di Dio, cioè della verità stessa, vorrei che fossimo condotti per tappe successive, adatte al nostro debole piede, temo di apparire ridicolo, dal momento che ho intrapreso un tale cammino a partire non già dalle cose stesse che sono significate, ma dai segni.

Mi perdonerai dunque se ti propongo alcuni esercizi preparatori: non lo faccio per il gusto di giocare, ma per esercitare le forze e l'acutezza della mente in modo da poter con esse non solo tollerare, ma anche amare il calore e la luce di quella regione in cui regna la vita beata.

AD. - Continua pure come hai cominciato; non penserei mai che sia da disprezzare quanto hai ritenuto bene dire o fare.

AG. - Su, ora dunque consideriamo quella parte relativa ai segni che non significano altri segni, ma gli oggetti che chiamiamo significabili.

E dimmi prima di tutto se l'uomo è uomo.

AD. - A questo punto davvero non so se stia scherzando.

AG. - E perché?

AD. - Perché ritieni di dovermi chiedere se l'uomo è altra cosa da un uomo.

AG. - Credo che riterresti che mi prenda gioco di te anche qualora ti chiedessi se la prima sillaba di questo nome è altra cosa da "uo" e la seconda altra cosa da "mo".

AD. - Proprio così.

AG. - Ma tu negheresti che queste due sillabe congiunte danno "uomo".

AD. - E chi lo negherebbe?

AG. - Ti chiedo dunque se tu sei queste due sillabe congiunte.

AD. - No di certo; ma vedo dove vuoi arrivare.

AG. - Dillo pure, affinché non pensi che io voglia oltraggiarti.

AD. - Tu ritieni di poter concludere che io non sono un uomo.

AG. - E che? Non sei anche tu della medesima opinione, dal momento che hai ammesso che sono vere tutte le precedenti affermazioni che conducono a questa conclusione?

AD. - Non ti dirò ciò che penso prima di aver udito da te se, nel chiedermi se l'uomo è uomo, mi interrogavi su queste due sillabe o su ciò che esse significano.

AG. - Rispondi tu piuttosto in quale senso hai inteso la mia domanda: giacché, se è equivoca, tu dovevi stare in guardia e non rispondermi prima di essere certo in merito al senso della mia richiesta.

AD. - Quale difficoltà poteva procurarmi questo equivoco, dal momento che ho risposto tanto in riferimento all'uno quanto in riferimento all'altro senso?

Infatti in ogni modo l'uomo è uomo, perché queste due sillabe non sono altro che queste due sillabe e ciò che esse significano non è altro che ciò che è.

AG. - La risposta è certamente giudiziosa; ma perché hai preso nei due sensi soltanto il termine "uomo" e non anche tutte le altre parole di cui abbiamo parlato?

AD. - In base a che cosa dovrei convincermi che non ho preso così anche le altre parole?

AG. - Per tralasciare il resto, se tu avessi preso la mia prima domanda esclusivamente nel senso del suono delle sillabe, non mi avresti risposto nulla: ti sarebbe potuto sembrare anche che non ti avessi posto alcuna domanda.

Ma, quando ho pronunciato le tre parole e ho ripetuto quella di mezzo chiedendo se l'uomo è uomo, tu hai preso la prima o l'ultima non come segni ma come ciò che essi significano.

Ciò risulta evidente dal fatto che hai ritenuto di dover rispondere subito, con prontezza e sicurezza, alla mia domanda.

AD. - Dici il vero.

AG. - Perché dunque ti è piaciuto considerare solo la parola di mezzo sia dal punto di vista del suono che dal punto di vista del significato?

AD. - Ecco, ora prendo in considerazione l'intera frase dal punto di vista del significato; infatti sono d'accordo con te che è assolutamente impossibile discutere se l'anima, nell'udire le parole, non si rivolge alle cose di cui esse sono segni.

Perciò mostrami come sono stato tratto in inganno da questo ragionamento la cui conclusione è che io non sono un uomo.

AG. - No, piuttosto ti ripropongo la domanda in modo che tu possa scoprire da solo dove ti sei sbagliato.

AD. - Fai bene.

AG. - Non ti chiederò quello che ti ho chiesto prima, perché me lo hai già concesso.

Considera dunque più attentamente se la sillaba "uo" non è niente altro che "uo" e se la sillaba "mo" non è niente altro che "mo".

AD. - Invero non ci vedo altro.

AG. - Considera anche se si ha "uomo" congiungendo le due sillabe.

AD. - Mai te lo concederei. Abbiamo ammesso e a buon diritto che, dato un segno, si rivolge l'attenzione a ciò che esso significa e che dalla sua analisi si dà luogo a un enunciato affermativo o negativo.

Invece, per quel che riguarda le due sillabe pronunciate separatamente, poiché esse risuonano senza alcun significato, abbiamo già concesso che valgono soltanto come suoni.

AG. - Tu dunque ammetti e ritieni per certo che alle domande si deve rispondere soltanto facendo riferimento alle cose che sono significate dalle parole?

AD. - Non vedo perché non dovrebbe essere così, dal momento che si tratta di parole.

AG. - Vorrei sapere quali obiezioni opporresti a colui del quale si sente spesso dire per scherzo che aveva concluso la sua argomentazione sostenendo che un leone era uscito dalla bocca del suo interlocutore.

Infatti aveva chiesto a quest'ultimo se ciò che esprimiamo a parole esce dalla nostra bocca; l'interlocutore non l'aveva potuto negare; quindi fece in modo - e ciò gli fu facile - che nel parlare egli nominasse il "leone".

Ciò fatto, cominciò scherzosamente a deriderlo e a incalzarlo in modo che, avendo egli ammesso che tutto ciò che diciamo esce dalla nostra bocca e non potendo negare di aver pronunciato la parola "leone", sembrava che quel brav'uomo avesse vomitato una bestia tanto feroce.

AD. - In verità non sarebbe stato affatto difficile replicare a quel buffone: non gli avrei concesso che tutto ciò che diciamo esce dalla nostra bocca.

Ciò che diciamo infatti lo esprimiamo con segni; ora, dalla bocca di colui che parla non esce la cosa che è significata, ma il segno con cui è significata, a eccezione del caso di cui abbiamo trattato poco fa, cioè quando si significano i segni stessi.

AG. - In questo modo avresti risposto bene a quell'uomo.

Ma, come mi risponderai se ti chiedo: "uomo" è un nome?

AD. - E che altro è se non un nome?

AG. - Ma allora, quando ti vedo, è un nome che vedo?

AD. - No.

AG. - Vuoi dunque che dica che cosa ne consegue?

AD. - Per favore, no; infatti io stesso ho dichiarato che non sono un uomo, rispondendoti che è un nome quando mi hai chiesto se uomo è un nome.

Del resto avevamo già stabilito che è a partire dalla cosa significata che si ha enunciato affermativo o negativo.

AG. - Mi sembra tuttavia che non ti sia imbattuto invano in questa risposta: è la legge stessa della ragione, impressa nelle nostre menti, che ha vinto la tua vigilanza.

Infatti, se ti chiedessi che cosa è l'uomo, tu forse risponderesti che è un animale; se invece ti chiedessi che parte del discorso è "uomo", in nessun altro modo mi potresti rispondere correttamente se non dicendo che è un nome.

Così, poiché troviamo che uomo è sia nome che animale, diciamo che è nome dal punto di vista del segno e animale dal punto di vista del significato.

Dunque a chi chiede se uomo è un nome, gli dovrei rispondere che lo è perché fa capire abbastanza chiaramente che vuole una risposta dal punta di vista del segno; se invece chiede se è un animale, gli risponderei affermativamente con maggiore spontaneità.

Infatti, se mi chiedesse soltanto che cosa è l'uomo senza parlare di nome o di animale, la mente, per quella regola del linguaggio da noi condivisa, si porterebbe subito sull'oggetto significato dalle due sillabe e non risponderebbe altro che è un animale o, piuttosto, ne darebbe l'intera definizione, e cioè che é un animale razionale mortale.

Non sei di questo avviso?

AD. - Certamente sono di questo avviso.

Ma, quando avremo concesso che è un nome, come potremo evitare quella conclusione troppa offensiva secondo cui non siamo uomini?

AG. - Come, pensi, se non dimostrando che la conclusione non è tratta dal nostro modo di rispondere affermativamente all'interlocutore?

Del resto non c'è affatto da paventare neppure se dichiara di trarla da tale risposta; infatti perché dovrei temere di ammettere che non sono uomo, cioè che non sono queste due sillabe?

AD. - Niente di più vero. Ma allora perché suona offensivo per l'animo quando sente dire "tu dunque non sei un uomo", dal momento che, secondo ciò che si è ammesso, non si potrebbe dire niente di più vero?

AG. - Perché, non appena le parole risuonano, sono indotto a pensare che la conclusione si riferisce a ciò che è significato da queste due sillabe, conformemente alla regola, che naturalmente ha grande valore, per la quale la mente, percepiti i segni, si porta subito sulle cose significate.

AD. - Accetto ciò che dici.

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