Perchè un Dio uomo? |
Anselmo - Si può intendere anche nel senso che, dando al Figlio quella pia volontà per cui questi volle morire per la salvezza del mondo, il Padre gli ha dato, senza però costringerlo, il comando ( cf Gv 14,31 ) e il calice della passione ( cf Gv 18,11 ); e che non lo risparmiò, ma lo immolò per noi ( cf Rm 8,32 ) e volle la sua morte; e che lo stesso Figlio fu obbediente fino alla morte ( cf Fil 2,8 ) e imparò l'obbedienza da quanto patì ( Eb 5,8 ).
Infatti, come non aveva nella umanità la volontà di vivere secondo giustizia, ma dal "Padre della luce, da cui discende ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto" ( Gc 1,17 ), così non poté avere se non dal Padre quella volontà che gli fece volere la morte in vista della realizzazione di un bene così grande.
E come si può dire che il Padre, dando la volontà, attira, così si può giustamente dire che egli spinge.
Come il Figlio dice del Padre: " Nessuno viene a me se il Padre non lo attira " ( Gv 6,44 ), così avrebbe potuto dire: "Se non lo spinge".
E avrebbe pure potuto dire: nessuno corre alla morte per il mio nome, se il Padre non lo spinge o attira.
Siccome si dice che ognuno è attirato o spinto dalla volontà verso ciò che costantemente vuole, non è inesatto dire che Dio, il quale dà tale volontà, attira o spinge.
In questa spinta o attrazione non c'è la necessità della violenza, ma la spontanea e amata fermezza della buona volontà ricevuta ( da Dio ).
Dunque non si può negare che il Padre, dandogli quella volontà, ha tratto o spinto il Figlio a morire.
Perché on poter dire allora, per la medesima ragione, che gli ha dato il comando di sostenere spontaneamente la morte e consegnato il calice che questi non doveva bere contro voglia? ( cf Gv 14,31; Gv 18,11 ).
Se giustamente diciamo che il Figlio non si risparmiò ma si immolò di spontanea volontà ( cf Rm 8,32 ), perché non si potrebbe rettamente dire che il Padre, dal quale ebbe quella volontà, "non lo ha risparmiato, ma lo ha sacrificato per noi " ( cf Rm 8,32 ) e volle la sua morte?
Anche in questa maniera, conservando spontaneamente e costantemente la volontà ricevuta dal Padre, il Figlio fu a lui "obbediente fino alla morte" ( Fil 2,8 ) e "imparò da ciò che patì l'obbedienza" ( Eb 5,8 ), cioè quanto sia grande il compito imposto dall'obbedienza.
Perché l'obbedienza è semplice e vera solo quando la natura razionale osserva la volontà ricevuta da Dio, non per forza ma spontaneamente.
Ci sono anche altre maniere giuste di intendere che il Padre volle la morte del Figlio, ma queste possono bastare.
Infatti, come diciamo che uno vuole quando determina un altro a volere, così pure diciamo che uno vuole quando approva quello che un altro vuole.
Per esempio, quando vediamo che uno vuole ardentemente affrontare delle molestie per realizzare un progetto buono che gli sta a cuore, sebbene ci sia in noi il desiderio che egli sopporti quelle molestie, tuttavia noi non amiamo o vogliamo queste, ma la sua volontà.
Così pure siamo soliti dire che chi può evitare una cosa, e non la evita, vuole quella cosa.
Poiché dunque la volontà del Figlio piacque al Padre e questi non gli impedì di volere o effettuare ciò che voleva, giustamente si afferma che volle che il Figlio subisse una morte sì pia e utile, pur non amando le sue sofferenze.
Quando il Figlio disse che il calice non poteva passare senza che egli lo bevesse ( cf Gv 18,11 ), non intendeva dire che gli era impossibile evitare la morte, pur volendolo, ma che - come fu detto - era impossibile salvare il mondo in un altro modo, e che egli voleva fermamente piuttosto morire che non salvare il mondo.
Disse quelle parole per insegnare all'umanità che il mondo non poteva essere salvato che con la sua morte, e non per indicare che non poteva in modo alcuno evitare la morte.
Tutto quello che si dice di lui ( nella Scrittura ) e somiglia alle frasi riportate, deve essere spiegato così da credere che egli è morto non perché costretto, ma per libera volontà.
Era infatti onnipotente e di lui si legge che "è stato offerto perché volle" ( Is 53,7 ).
Egli stesso poi dice: " Io sacrifico la mia vita, per nuovamente riprenderla.
E nessuno me la può togliere; ma la do io da me stesso; e ho il potere di darla, e il potere di prenderla di nuovo" ( Gv 10,17-18 ).
É dunque assolutamente sbagliato dire che è stato costretto a fare quello che invece compie di sua volontà e per suo potere.
Bosone - Il solo fatto che Dio permise che fosse così trattato, benché consenziente, sembra indegno di un tale Padre nei riguardi di un tale Figlio.
Anselmo - Anzi, è cosa degnissima che tale Padre dia la sua approvazione a un tale Figlio, se questo vuole intraprendere qualcosa che torni a onore e lode di Dio e a salvezza e utilità del genere umano, che altrimenti non avrebbe potuto essere salvato.
Bosone - Siamo ancora tornati alla questione sulla possibilità di dimostrare ragionevole e necessaria quella morte.
Se non lo si può fare, sembra che né il Figlio avrebbe dovuto volerla, né il Padre imporla o permetterla.
Ci si domanda infatti perché mai Dio non abbia potuto salvare l'umanità in altro modo; oppure, potendolo, perché volle salvarla proprio in questo modo.
Sembra indegno di Dio salvare l'uomo in questa maniera, né appare che valore abbia questa morte per la salvezza dell'umanità.
Desta meraviglia che Dio goda e abbia bisogno del sangue di un innocente e che non voglia o non possa perdonare al colpevole senza la morte di un innocente.
Anselmo - Poiché in questa questione ti fai portavoce di coloro che non vogliono credere a una affermazione se non è preceduta da dimostrazioni di ragione, voglio fare con te il patto di non accettare nulla che possa anche minimamente sconvenire a Dio, e di non rigettare alcuna ragione, per quanto piccola, purché non sia in contrasto con una più forte.
Bosone - Niente mi è più dolce che osservare con te questo patto.
Anselmo - La questione ha per oggetto l'Incarnazione di Dio e quello che crediamo dell'umanità assunta.
Bosone - Proprio così.
Anselmo - Supponiamo dunque che non ci sia mai stata l'Incarnazione di Dio e quanto predichiamo di quest'uomo ( assunto ); sia accettato come certo fra noi che l'uomo fu creato per la beatitudine, la quale non può aver luogo in questa vita; e nessuno può pervenire alla beatitudine se non dopo la remissione dei peccati e nessuno può trascorrere questa vita senza peccare.
Ammettiamo ancora le altre verità che bisogna credere per ottenere la salvezza eterna.
Bosone - Dal momento che non ci vedo nulla di impossibile o di indegno di Dio, sia così.
Anselmo - Dunque l'uomo ha bisogno della remissione dei peccati per raggiungere la beatitudine.
Bosone - É quello che tutti teniamo.
Anselmo - Dobbiamo dunque indagare per quale motivo Dio perdoni i peccati degli uomini.
Per farlo con maggiore chiarezza, vediamo prima che cosa significhi peccare e soddisfare per il peccato.
Bosone - A te il compito di spiegare, a me quello di seguirti con attenzione.
Anselmo - Se l'angelo e l'uomo rendessero sempre a Dio quello che gli è dovuto, non peccherebbero mai.
Bosone - Non posso contraddire.
Anselmo - Quindi peccare non è altro che non dare a Dio quello che gli è dovuto.
Bosone - E quale è il debito che dobbiamo rendere a Dio?
Anselmo - Tutta la volontà della creatura ragionevole deve essere sottomessa alla volontà di Dio.
Bosone - Niente di più vero.
Anselmo - Questo è il debito che l'angelo e l'uomo devono a Dio; se lo soddisfano non peccano, altrimenti peccano.
É questa la giustizia, ossia la rettitudine della volontà, che fa i giusti o i retti di cuore ( cf Sal 36,11 ), cioè di volontà.
In ciò consiste l'onore unico e totale che dobbiamo a Dio e che egli esige da noi.
É questa sola volontà che, quando può operare, rende le opere accette a Dio; quando poi non lo può, essa da sola e per se stessa piace a Dio, perché senza di essa nessuna opera è accetta.
Chi non dà a Dio questo onore dovutogli, gli toglie ciò che è suo e disonora Dio: e questo è peccare.
Fino a quando non ridà quello che ha rubato, rimane nel peccato.
Non basta restituire quanto fu tolto, ma, in compenso dell'ingiuria fatta, il ladro deve restituire di più di quello che ha rubato.
Come colui che rovina la salute di un altro non dà a sufficienza, ridonando la salute, se non aggiunge anche qualche cosa per il dolore ingiustamente procurato; così chi lede l'onore altrui non ripaga a sufficienza rendendo l'onore, se non dà anche una riparazione gradita al disonorato, per il dolore recatogli disonorandolo.
Bisogna anche fare attenzione a questo: quando uno restituisce ciò che ha preso ingiustamente, deve anche aggiungere qualche cosa che non si potrebbe da lui esigere se non avesse rubato.
Perciò, chiunque pecca deve rendere a Dio l'onore che gli ha tolto: questa è la soddisfazione di cui ogni peccatore è in debito con Dio.
Bosone - Dal momento che abbiamo stabilito di seguire la ragione, e nonostante che tu mi metta un po' di paura, non ho nulla da opporre a tutto questo.
Anselmo - Ritorniamo a vedere se sia conveniente che Dio rimetta il peccato per sola misericordia, senza alcuna restituzione dell'onore che gli è stato tolto.
Bosone - Non vedo perché non sia conveniente.
Anselmo - Rimettere così il peccato non è altro che non punire.
E poiché punire non è altro che restituire l'ordine distrutto dal peccato, se non si punisce il peccato si lascia passare il disordine.
Bosone - Ciò che dici è secondo ragione.
Anselmo Ma non è conveniente che Dio lasci sussistere qualche disordine nel suo regno.
Bosone - Se dicessi altrimenti, temerei di peccare.
Anselmo - Non è dunque affatto conveniente che Dio lasci passare il peccato senza punirlo.
Bosone - É una conseguenza.
Anselmo - Se il peccato viene rimesso senza punizione c'è un'altra conseguenza: davanti a Dio hanno lo stesso trattamento colui che pecca e colui che non pecca: e ciò non conviene a Dio.
Bosone - Non lo posso negare.
Anselmo - Considera anche questo.
Nessuno ignora che per la giustizia degli uomini vale questa legge: Dio tiene conto della sua grandezza per ricompensarla adeguatamente col premio.
Bosone - Così pensiamo.
Anselmo - Ma se il peccato non viene né soddisfatto né punito, non è neppure sottomesso alla legge.
Bosone - Non posso pensare diversamente.
Anselmo - Se dunque il peccato viene rimesso per la sola misericordia, l'ingiustizia è meno sottomessa alla legge che non la giustizia: e questo appare molto sconveniente.
La sconvenienza arriva fino a tal punto da fare l'ingiustizia simile a Dio: ché come Dio non è sottomesso ad alcuna legge, così neppure l'ingiustizia.
Bosone - Al tuo ragionamento non mi posso opporre.
Ma, siccome Dio ci comanda di perdonare gratuitamente a coloro che ci offendono ( cf Mt 6,12 ), sembra contraddittorio che egli comandi a noi quello che egli non può fare senza sconvenienza.
Anselmo - Non c'è in questo nessuna ripugnanza, perché Dio ce lo comanda affinché non ci azzardiamo di usurpare quello che è esclusivamente suo: nessuno ha il diritto di vendicarsi se non colui che è il Signore di tutti ( cf Rm 12,19 ).
Quando le autorità terrene fanno ciò con giustizia, è lui che lo fa, lui che le ha istituite a questo scopo.
Bosone - Hai tolto la contraddizione che mi pareva ci fosse.
Ma voglio avere la tua risposta anche su un altro punto.
Dio è talmente libero da non sottostare a nessuna legge né al giudizio di alcuno.
É così benigno che non è possibile pensare a un altro che lo sia più di lui.
É giusto e conveniente solo quello che egli vuole.
Suscita perciò meraviglia il dire che egli non vuole o che non gli è lecito perdonare l'ingiuria fattagli: lui al quale siamo soliti chiedere perdono anche per le ingiustizie fatte al prossimo.
Anselmo - Ciò che dici della sua libertà, volontà e benignità è vero; ma dobbiamo farci di questi suoi attributi un'idea ragionevole, così da non dare l'impressione che essi ripugnino alla sua dignità.
La libertà infatti è ordinata solo a ciò che è utile o conveniente, e la benignità è indegna di tal nome se commette qualche cosa che sconviene a Dio.
Quanto poi alla frase "ciò che egli vuole è giusto e ciò che egli non vuole non è giusto", essa non significa che qualsiasi cosa sconveniente voluta da Dio diventi giusta per il fatto che egli la vuole.
Se Dio volesse mentire non ne seguirebbe che la menzogna è giusta, ma piuttosto che egli non è Dio.
Infatti la volontà in nessun modo può volere la menzogna, purché non si tratti di una volontà in cui la verità si è corrotta, o meglio di una volontà che si è corrotta abbandonando la verità.
Quando dunque si dice: "Se Dio volesse mentire" non si dice altro che "se Dio fosse di natura tale da voler mentire"; non ne segue però che la menzogna sia giusta.
A meno che non si intenda come l'enunciazione di due cose impossibili: se ci fosse, questa ci sarebbe anche quella, ma in realtà non c’è né questa né quella.
Come, per esempio: se l'acqua fosse secca, il fuoco sarebbe umido; nessuna delle due affermazioni è vera.
Così si può dire con tutta verità "se Dio vuole una cosa, questa è giusta" solo nel caso che la cosa voluta non sia sconveniente.
Se Dio vuole che piova, è giusto che piova; e se Dio vuole che qualche uomo sia ucciso, è giusto che sia ucciso.
Quindi, se non è conveniente che Dio faccia qualcosa di ingiusto o disordinato, non è in potere della sua libertà, benignità, volontà lasciare impunito il peccatore che non rende a Dio quello che gli ha tolto.
Bosone - Mi porti via tutto quello che pensavo di poterti obiettare.
Anselmo - Considera anche queste altre ragioni in forza delle quali non è conveniente che Dio faccia così.
Bosone - Ascolto volentieri quanto dici.
Anselmo - Nell'ordine dell'universo nulla è così intollerabile quanto il fatto che la creatura tolga al Creatore il debito onore e non restituisca quello che gli ha tolto.
Bosone - Niente di più chiaro.
Anselmo - Nulla è tollerato con più ingiustizia di quello che è meno tollerabile.
Bosone - Anche questo è chiaro.
Anselmo - Penso quindi non dirai che Dio deve tollerare quello che meno è tollerabile secondo giustizia, e cioè che la creatura non restituisca a Dio ciò che gli ha tolto.
Bosone - Anzi vedo che bisogna negarlo assolutamente.
Anselmo - Così pure, se nulla è più grande o migliore, di Dio, nulla è più giusto della suprema giustizia che salvaguarda il suo onore nell'ordine dell'universo: essa non è altro che Dio stesso.
Bosone - Anche questo è evidente.
Anselmo - Dunque Dio non salvaguarda nulla con più giustizia che l'onore della sua dignità.
Bosone - Devo concederlo.
Anselmo - Ti pare che lo custodisca completamente, se permette che gli venga tolto e se non esige che gli sia restituito e venga punito colui che glielo toglie?
Bosone - Non oso dirlo.
Anselmo - É dunque necessario che o sia restituito l'onore tolto, o venga inflitta la pena.
Altrimenti o Dio sarebbe ingiusto con se stesso, oppure sarebbe incapace di entrambi le soluzioni: ma è una empietà solo il pensarlo.
Bosone - Capisco che non potevi dire nulla di più ragionevole.
Ma vorrei udire da te se la punizione del peccatore torni a lui d'onore e a quale specie di onore appartenga.
Se infatti la punizione del peccatore non fosse l'onore di Dio - in quanto il peccatore non rende ciò che deve ma è semplicemente punito - Dio perderebbe il suo onore senza poterlo riavere: ma ciò è in contraddizione con quanto è stato detto.
Anselmo - É impossibile che Dio perda il suo onore.
Infatti o il peccatore spontaneamente dà quello che deve, o Dio se lo prende anche se quello non vuole.
Infatti o l'uomo con spontanea volontà offre a Dio la dovuta sudditanza sia non peccando sia soddisfacendo al peccato, o Dio se lo sottomette anche contro sua voglia, castigandolo; così si manifesta come suo Signore, mentre l'uomo si rifiuta con la volontà di riconoscerlo tale.
Ed è da notare che, come l'uomo peccando rapisce a Dio quello che è di Dio, così Dio castigandolo prende ciò che è dell'uomo.
Poiché non si dice che è proprio dell'uomo soltanto quello che egli già possiede, ma anche ciò che ha la possibilità di avere.
E poiché l'uomo è così fatto che potrebbe possedere la beatitudine se non peccasse, quando per il peccato è privato della beatitudine e di ogni bene, restituisce del suo ciò che ha tolto, anche se contro voglia.
Sebbene infatti Dio non ricavi alcuna utilità da ciò che prende - mentre l'uomo trova una utilità nei soldi che prende a un altro - tuttavia fa servire al proprio onore la cosa tolta, per il fatto stesso che la toglie.
Con il toglierla egli dimostra che il peccatore e ciò che gli appartiene sono a lui soggetti.
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