Solitudine - Nell'esperienza degli Istituti Secolari

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Momenti e circostanze di solitudine

di Anna Riva

Siamo nell'epoca detta della comunicazione, grazie allo sviluppo tecnico dei « media », con i quali, soprattutto con la televisione, si può seguire in diretta gli avvenimenti o esserne informati in tempi brevissimi.

Oltre a questi strumenti, le recenti innovazioni della Telecom, che con numeri privilegiati ( come il 144 ad es. ) fa comunicare rapidamente con organizzazioni che possono rispondere immediatamente su argomenti di vario genere, permettono una rapidità di informazione che talvolta può stupire.

Più interessanti ancora sono le chat-line, con cui si comunica come se si facessero delle chiacchiere con amici e la TV interattiva, nella quale si può intervenire in uno spettacolo o trasmissione per reagire personalmente a quanto viene offerto in visione.

Sembra che in questi modi sia impossibile sentirsi soli; anzi si può talvolta avere l'impressione di essere direttamente coinvolti da fenomeni esterni, che limitano la nostra libertà, fermo restando il fatto che chi non vuole esserlo deve soltanto spegnere l'apparecchio, riconquistando la sua tranquillità.

È certo che questi strumenti mettono facilmente in contatto con tutto il mondo, con notevole vantaggio di allargare le nostre esperienze e farci uscire dalle ristrette barriere della vita individuale.

Ma è altrettanto vero che il pericolo della solitudine è allontanato e che la singola persona si « sente » in comunicazione con il resto del mondo?

Contraddittoriamente la maggior parte delle persone anche al nostro tempo soffre di solitudine; proprio i media raccontano di episodi di emarginazione, di solitudini fisiche e psichiche drammatiche, di storie di depressione, di suicidi, quando non di criminalità e abbandoni agghiaccianti.

Da una parte vi sono manifestazioni di solidarietà, dall'altra esasperazioni di individualismo; poche, anche se molto valide le prime, diffuse e molteplici le seconde.

E sembra che queste siano le caratteristiche prevalenti della cultura occidentale, tecnologicamente progredita, umanamente ancora in difficoltà nelle relazioni affettive.

Ho finito di leggere in questi giorni un « romanzo » che a quanto afferma l'autrice1 rispecchia fedelmente un'esperienza reale da lei fatta presso una tribù di aborigeni dell'Australia.

Non vi sono riferimenti specifici alla località in cui si sviluppa la storia, né vi sono possibilità di scoprire altri accenni che permettano di identificare i personaggi, ad eccezione di una dichiarazione riportata alla fine del racconto, firmata da Burnam Burnam, « anziano della tribù di Wurundjeri », che attesta la veridicità di quanto narrato.

La Morgan afferma di essersi impegnata a non offrire nessuna possibilità di identificazione dei luoghi e delle persone, anche se dalla situazione emergente appare il desiderio di quella gente di lasciare una testimonianza di sé nel mondo occidentalizzato dell'Australia inglese.

Ciò che mi ha colpito in maniera sorprendente è il sistema di comunicazione che questa tribù, che si definisce « Vera Gente », mette in atto per lo più nella vita quotidiana, ma in maniera ancora più intensa nei momenti di lontananza o di bisogno: la telepatia ed il linguaggio non-verbale.

Vi è fra i membri del gruppo una straordinaria « unità », che permette la circolazione delle informazioni più nel silenzio che nella conversazione.

Con la conseguenza che il sentimento di solitudine sembra estraneo all'esperienza del singolo, pur nell'affermazione e nella pratica che di fronte alle difficoltà occorre impegnarsi da soli, tendere al superamento semplicemente perché così è la realtà e così ha deciso il destino.

Non mi soffermo sulla filosofia e la religiosità di questo popolo, che vive nell'immersione nel Tutto e con esso comunica incessantemente.

Gli aborigeni australiani si sono opposti tenacemente alla « civilizzazione » imposta dagli occidentali e si sono ritirati alla periferia delle città, conservando antichissime tradizioni e rituali, ma soprattutto vivendo in una spiritualità aliena al possesso delle cose.

Riflettendo sulle condizioni psicologiche di un gruppo così vicino alla natura ( ma non disinformato sulla vita di tipo occidentale ) mi è sembrato di capire come avrebbe potuto essere il sentimento di appartenenza dell'umanità primitiva e come si potrebbe in qualche modo ricuperare il sentimento « gruppale » che in culture anche diverse, più recenti ma meno sofisticate della nostra, ha reso vivibile la vita e sorretto intere generazioni.

Il recupero delle possibilità di comunicazione « effettiva » e non affidata a mezzi tecnologici è una delle preoccupazioni più vive della psicologia clinica e della psicopedagogia, oggi.

Le relativamente recenti ricerche sulla dinamica di gruppo e la psicoanalisi dei gruppi ha messo in evidenza che l'essere umano nasce in un gruppo e continua ad avere bisogno di vivere in gruppo; l'ambiente primordiale, infatti, è la famiglia, che nella maggioranza dei casi è costituita da almeno due membri e con la nascita del figlio o dei figli si accresce.

Di qui il bisogno esistenziale, inestinguibile di convivere con altri; di qui il penoso sentimento di frustrazione che si manifesta quando il nucleo familiare si riduce per la perdita di uno o più membri, soprattutto se il fatto avviene quando l'individuo è ancora in età infantile.

Occorre molta capacità di compensazione affettiva da parte degli adulti presenti superstiti per riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa.

Occorre che l'ambiente sia in grado di sostituire gli assenti, per favorire la crescita della personalità ancora in evoluzione.

L'osservazione delle condizioni ambientali e del loro influsso sullo sviluppo dell'identità ha raggiunto alcuni punti fermi, ha permesso di formulare un percorso teorico del rapporto individuo/società/solitudine.

Capacità di solitudine, capacità di relazione

È opinione condivisa, infatti, che nel periodo della vita intrauterina, dopo la formazione delle strutture cerebrali connesse con l'attività sensoriale, si stabilisce una forma di comunicazione, di cui non è ancora stato possibile tracciare un quadro sufficientemente indicativo, che comunque si rende evidente nel rapporto tra feto e madre.

Quando, infatti, il bambino nasce, il suo comportamento indica che vi sono strutture neurosensoriali bene sviluppate e che immediatamente il neonato mostra di sentirsi in contatto con le persone che si prendono cura di lui.

È ormai superata la convinzione che solo dopo qualche mese si stabilisca una corrente d'intesa; se mai le sue manifestazioni sono ridotte rispetto a quelle che progressivamente si vanno organizzando nell'evoluzione del tempo.

E vi sono anche indizi che esiste una forma di elaborazione mentale delle esperienze sensoriali ed emotive pur non potendosi dire quali siano le modalità nelle quali si svolge.

Vi è una corrente di andata e ritorno fra il piccolo, le persone ed anche l'ambiente fisico.

La mancanza di stimoli sensoriali impedisce un corretto sviluppo cognitivo: in tale caso l'attività mentale si riduce a forme primitive oppure ( o contemporaneamente ) l'elaborazione fantastica procede a vuoto, portando ad interpretazioni abnormi della realtà.

L'equilibrio fra quantità/qualità degli stimoli e risposta soggettiva permette invece un'organizzazione soddisfacente delle attitudini cognitive ed emotive: nasce così e si sviluppa la personalità « normale », con caratteristiche specifiche di ognuno, e con sufficienti supporti per la relazione interpersonale.

A questo punto si pongono le domande sulla solitudine.

Un discorso complesso, perché per un certo verso è necessario sviluppare la « capacità di solitudine », per un altro verso è necessario sviluppare la « capacità di relazione » con gli altri.

La vita è un'alternanza, anzi, è coesistenza delle due disponibilità.

Gli eccessi dell'una o dell'altra provocano le tristi condizioni della depressione o dell'eccitazione superficiale, inconcludente.

La capacità di solitudine è strettamente connessa con la stima di sé, con l'acquisizione progressiva della propria autonomia, con l'esperienza che almeno temporaneamente, si può fare da sé.

Con la crescita dell'età e lo sviluppo regolare delle funzioni cognitive/affettive il piccolo diviene capace di bastare a se stesso, nel senso che acquisisce una motricità sempre più disinvolta, un potere di manipolazione che gli permette di organizzare i suoi giochi, una percettività più raffinata e un'intelligenza più adeguata all'interpretazione delle immagini che si formano nella sua mente; la memoria testimonia la continuità dell'Io e offre materiale di confronto, di riflessione e di immaginazione di ciò che potrebbe essere ed ancora non c'è.

Se l'ambiente ha garantito nei limiti del possibile un sufficiente supporto affettivo, la fiducia in sé stimola alla tolleranza dell'essere soli, perché l'attività mentale crea situazioni gratificanti: o è la fantasia che riempie il vuoto o è la creazione di situazioni di « compagnia » ( i bambini si creano il compagno immaginario ) o è il gioco che assorbe l'attenzione.

Il bambino « sano » difficilmente conosce la noia e la percezione di essere « materialmente solo » non disturba perché « sa » che la persona temporaneamente assente ritorna.

È la fiducia nell'altro che interviene a rinforzare la fiducia in se stessi.

In psicologia si parla di « interiorizzazione » o « internalizzazione » dell'oggetto di amore ( soprattutto le persone ) con la conseguenza che le persone ( o meglio la loro immagine emotivamente colorata ) restano presenti psicologicamente anche quando sono lontane.

Il tutto fondato sull'esperienza « reale » che anch'esse « rispondono » nel medesimo modo.

Anche se solo, l'individuo « sa » di essere in contatto con il mondo ed il mondo con lui.

Fino ad arrivare a forme di telepatie, in alcuni casi di estrema sensibilità e di predisposizioni particolari ( percezioni extrasensoriali ).

Forse l'esempio degli aborigeni che ho citato precedentemente si spiega con un particolare addestramento a mettersi in contatto ed a percepirsi reciprocamente sulla base dell'esperienza del forte legame che esiste nel gruppo.

È comunque accertato che attraverso la trasmissione di una particolare cultura queste facoltà possono essere sviluppate in alto grado.

Allo stato attuale delle ricerche, sono state organizzate tecniche terapeutiche fondate sull'attitudine al rilassamento, all'elaborazione dell'immaginario nel quale affiorano desideri e programmi di relazione, all'addestramento a percepire « realtà » che non cadono direttamente sotto i sensi, alla meditazione detta trascendentale, tutte costruite sulla conoscenza meglio approfondita di tecniche utilizzate dalle religioni orientali, che fino a non molto tempo fa venivano considerate troppo primitive e perciò rifiutate dal razionalismo in auge.

Il fascino delle culture orientali ( e persino l'attrazione della droga in quantità limitate ) ha indotto a ri-scoprire le notevoli possibilità di comunicazione e la presenza nel proprio archivio di esperienze di questi « oggetti internalizzati », che ci mantengono in contatto con chi è assente.

I rari fenomeni di telepatia, di premonizione, al di là di ogni suggestione o pretesa, testimoniano che non si è soli, ma continuamente in relazione con altri, sia pure in forma difficilmente decodificabile.

Le società che noi consideriamo primitive sono molto più sensibili di noi in questo campo.

L'apparente solitudine, quindi, è ricca di legami ed è la condizione che permette, anzi, di scoprirli.

L'aspetto costruttivo della solitudine

Vi è un altro aspetto « positivo » della solitudine ed è di natura « difensiva/costruttiva ».

Il rapporto con i nostri simili è spesso faticoso e la sottomissione alle leggi della convivenza e del lavoro comporta spesso un logorio delle energie; allora appare e si fa prepotente il bisogno di sottrarsi almeno temporaneamente a tutta questa fatica, per recuperare le energie.

Il modello fisiologico è il sonno, che interrompe il flusso di andata e ritorno degli stimoli esterni e, attraverso il sogno, fa affiorare un insieme di pensieri e sentimenti, di cui solo in alcuni casi si riesce ad essere consapevoli.

È certo che il sonno ha una funzione importantissima per il corretto funzionamento dell'organismo ed in particolare per le funzioni mentali.

Quando si dorme si è « soli » totalmente soli, anche quando si dorme fisicamente vicini ad altri.

La mancanza di possibilità del recupero di se stessi attraverso il sonno provoca, a lungo andare, un affaticamento e poi un logoramento globale della personalità.

Una delle prove più drammatiche è la tortura applicata impedendo, a chi è stato catturato, la possibilità di sufficienti ore di sonno; spesso il risultato è il suicidio o l'esplosione della follia.

Si sa ancora poco su ciò che avviene durante il sonno, ma si è concordi nell'affermare che vi si svolge una complessa attività mentale del « tutto libera » dagli influssi esterni.

È un momento di grande solitudine, ma non di vuoto.

Analogamente avviene quando è possibile assentarsi dagli abituali legami con la vita quotidiana, per immergersi nella percezione di se stessi: una percezione liberamente fluttuante, rilassante nella quale si « sente » di esistere, di possedere la vita; oppure si ha la possibilità di riorganizzare i propri pensieri, la propria vita e di progettare il futuro.

L'esperienza religiosa ( di tutte le grandi religioni ) di stabilire dei tempi in cui la solitudine è consigliata ( mai imposta ) permette il distacco dalle comuni attività, per immergersi in una percezione ancora più vasta e significativa di se stessi, in relazione o con il Trascendente o con il Tutto, fino a giungere ad esperienze mistiche di contatto con il mistero della vita o con il mistero della divinità.

L'aspetto « costruttivo » di questa solitudine appare dall'osservazione delle attività di coloro che l'hanno adottata come stile di vita: i grandi ordini monastici, gli istituti religiosi che affiancano all'attività sociale tempi lunghi di meditazione e di ritiro nell'isolamento durante la giornata o in particolari periodi dell'anno.

Sono istituzioni che hanno segnato dei passi in avanti nella costruzione di una cultura sociale, per la necessità intrinseca alla persona umana, di trasferire la ricchezza della comprensione del mistero all'azione sociale di aiuto agli altri.

È una solitudine che prepara la socialità e l'esercizio della carità.

Avere non basta: bisogna « essere »

Purtroppo il ritmo eccessivo della vita contemporanea è dettato dall'affanno di « produrre », di accumulare possesso e potere, di stordirsi in vario modo con la velocità, con i suoni, con il movimento; anche i periodi di ferie, dedicati al recupero delle energie, divengono espressione di frenesia, di viaggi in paesi lontani, nei quali l'aspetto culturale e distensivo è soffocato dalla stimolazione intensiva degli « animatori ».

Le feste si riempiono di manifestazioni che spesso ricordano il baraccone da fiera, l'eccitazione viene scambiata per felicità …

Sembra uno slogan fisso accennare al consumismo come ad una deviazione del gusto e del senso della vita.

Ma già più di quarant'anni fa lo psicoanalista Fromm ha pubblicato un libro, divenuto un best-seller ancor oggi molto apprezzato, dal titolo Essere o avere.

Proponeva all'osservazione la differenza fra uno stile di vita prevalentemente orientato al possesso delle « cose » e spesso anche delle persone e lo stile di vita intesa a valorizzare le relazioni umane, lo sviluppo della persona, la solidarietà, pur senza svalorizzare il diritto anche ad avere.

Ma l'« essere », cioè il potere esprimere i valori fondamentali della cultura e dell'affettività, secondo l'autore, dev'essere il progetto dell'umanità, se si vuole progredire nella civiltà e nella pace.

Dopo tanti anni il discorso è ancora valido.

L'avidità di possedere cose e persone rende aridi, insensibili, anche quando non è forzata fino alle sue peggiori conseguenze; è nemica della collaborazione e precipita l'uomo nella solitudine dell'egoismo.

Non è divertente sviluppare un discorso su questi deludenti aspetti del nostro tempo - ed è anche doveroso riconoscere che queste dinamiche non sono state estranee alle precedenti culture - ma sembra opportuno porsi nell'angolazione di chi osserva il fenomeno della solitudine.

Come mai in un periodo in cui la comunicazione appare facilissima gran parte delle persone « si sente sola », attraversa periodi di depressione, non trova pace nel desiderio di comunicare, sempre frustrato?

Come mai molte persone si domandano: « chi sono »? e faticano a rispondere, non riuscendo a cogliere la presenza di se stessi nel mondo come distinte, capaci di orientarsi e sono sempre bisognose del sostegno del conformismo passivo o della ispirazione della moda prevalente?

In una società che sembra offrire tutto, si sentono deprivate di qualcosa che non sanno definire, ma che crea un'attesa continua, cui gli altri non sanno rispondere.

Il fenomeno della grande città moltiplica il sentimento di solitudine, di inesistenza: il grigiore delle periferie, soprattutto, della massificazione, dell'anonimato sembra schiacciare in particolare le generazioni più giovani, cui è venuta a mancare la particolare atmosfera dei piccoli gruppi, con le loro dinamiche relazionali, con il tu per tu dei giochi, dello stare insieme, del collaborare a qualche cosa.

Al fenomeno della grande città si sta contrapponendo, quando possibile, il desiderio di spostarsi in luoghi più intimi, anche accettando la fatica di lunghi percorsi per recarsi al lavoro o a scuola.

Nell'ultimo decennio alcune statistiche evidenziano un calo dei residenti in città in favore di paesi limitrofi, che mantengono ancora uno stile di vita considerato più umano, più comodo.

La famiglia risente di tante difficoltà, perché rimane come smembrata dalle attività quotidiane.

Non è esatto che la responsabilità della solitudine dei membri sia da attribuire sempre e soltanto al fatto che la madre lavori e per conseguenza manca per molte ore dalla casa.

Il sentimento di solitudine colpisce anche famiglie dove la madre mantiene la sua presenza in casa; d'altronde sappiamo che la percentuale delle madri di famiglia che lavorano fuori casa ( spesso per autentiche necessità economiche ) non è elevata.

Il problema è più profondo e tocca la « qualità » del rapporto umano.

Si è instaurato un ritmo di vita sempre accelerato, che « mangia » gli spazi di tempo nei quali si potrebbe godere di una relativa calma e di quella intimità di cui si sente il bisogno.

Se la giornata comincia prestissimo e subito si accende la televisione o la radio a tutto volume, e se per conseguenza l'attenzione è polarizzata allo spettacolo, impedendo l'interesse reciproco, a lungo andare si inaridisce la possibilità di comunicare anche per brevi accenni: si vive in un mondo « virtuale », che invade e prevarica ogni possibilità di riflessione interiore.

Oppure la ripetitività della presenza di questi strumenti rende ottusa la sensibilità, meccanico lo svolgimento delle normali attività quotidiane, la distrazione diventa un atteggiamento consolidato.

Distrazione nei rapporti interpersonali, distrazione nello studio, distrazione nel lavoro, distrazione a ciò che avviene intorno.

Il mezzo televisivo « invade » la vita, impedisce di percepirsi, crea dei modelli in un certo senso obbligati, impone mode che vengono seguite acriticamente.

È un condizionamento implacabile. Chi ne trae profitto?

Il pericolo dell'assuefazione

Si parla di telecrazia come fenomeno dominante nella vita collettiva: è ovvio che il profitto è a tutto vantaggio dei gruppi che si servono di questi strumenti per raggiungere finalità o di potere politico ( come sta avvenendo in Italia attualmente ) o di potere economico.

Giustamente si obietta che i media diffondono cultura e favoriscono il miglioramento globale della società.

Sarebbe tuttavia più esatto dire che « potrebbero favorire », perché il dato di fatto dimostra praticamente il contrario.

La questione di fondo è nella qualità della gestione.

Anche la promozione di una cultura religiosa seriamente condotta sarebbe auspicabile e qualche gruppo sta tentando di farla.

Ma è insito nell'attuale stile di gestione il pericolo della trasmissione/spettacolo, che privilegia le forme più appariscenti a scapito della riflessione attraverso immagini più raffinate, che diano tempo sufficiente per l'assimilazione del messaggio.

La scadente qualità delle trasmissioni anche a scopo culturale o religioso si traduce in un appiattimento delle capacità critiche e l'intelligenza viene troppo poco stimolata per produrre effetti duraturi.

La personalità si svuota: scarso l'interesse, scarsa la qualità del prodotto, l'uso di un mezzo prezioso diviene una specie di routine obbligata, priva di possibilità di scelta.

La TV è una presenza costante, che riempie un vuoto materiale, ma non comunica quasi nulla.

Il pericolo è « l'assuefazione ».

Quando uno stimolo è ripetuto continuamente perde la sua efficacia e l'organismo costruisce delle barriere, fino a non percepirlo più; è una forma di difesa per la sopravvivenza.

Nel caso specifico gli effetti immediati della trasmissione divengono sempre più deboli.

La reattività « personale » si va facendo meno vivace, meno sensibile.

Su questa base si potrebbe anche sostenere l'inutilità della trasmissione e affidarsi alla probabilità che non vi siano effetti ne in bene ne in male.

Cosa probabile, ma non certa, perché la memoria immagazzina a livello inconscio i vari stimoli, li metabolizza e non si sa quali possano essere a lungo termine gli effetti di ciò che è stato assimilato.

Le preoccupazioni attuali per le trasmissioni di scene ed episodi di violenza trovano una conferma nel degrado globale della convivenza sociale.

Analogamente si può dire per altri modelli di vita.

Le conseguenze a breve termine non sono subito evidenti, ma a lungo termine si fa sempre più fondata la constatazione della « scomparsa » di alcuni « valori », la difficoltà ad esercitare un giudizio personale su avvenimenti collettivi, la reattività a sollecitazioni verso appartenenze ideologiche, l'appiattimento degli interessi e la capacità di scelta.

Vince chi da più spettacolo … non chi propone il messaggio più costruttivo.

Come vince chi fa pubblicità più coinvolgente, non chi offre il prodotto migliore.

Il fenomeno « solitudine » dilaga per un sentimento di vuoto che invade l'esistenza, non tanto perché vi siano motivazioni ben definite alla depressione ( nel senso di perdita di qualcosa di personale ), ma perché viene a mancare la percezione di sé come membro « vivo » in una comunità « viva ».

È la solitudine del non-senso della vita, soffocata da troppi stimoli esterni, chiaramente percepiti come condizionanti all'essere come tutti, quasi meccanicamente inseriti in un flusso di corrente dove non c'è possibilità di scelta.

È il sentimento di « essere massa » e non persona, che soffoca le aspirazioni più individuali.

In una società che fittiziamente propone modelli attivi, l'adolescente in particolare si trova smarrito perché non trova in se stesso le energie per affrontare la conquista di quei valori che meritano di essere affermati e vissuti in pienezza.

Il rifiorire del volontariato fra i giovani ha probabilmente il significato della riscoperta della possibilità di scelta per attività fortemente personalizzate, tali da soddisfare il bisogno di « identità » singola, di inserimento « attivo » nella società.

Ma a pochi è data l'occasione di giungere a questa apertura.

Le inchieste dei sociologi sulla fascia di età 18-25 rilevano una preoccupante tendenza depressiva della maggior parte, determinata dalla mancanza di legame con ideali, con progetti a distanza che assorbano l'interesse e l'impegno.

Una delle problematiche più sentite è quella relativa alla propria « identità ».

Alla ricerca dell'identità perduta

Con questo termine si indica in psicologia il normale sentimento della propria continuità nel tempo, della propria esistenza come persona ben definita, di essere « se stessi » e non altri.

Tale sentimento si sviluppa e si afferma nel corso dell'infanzia e dell'adolescenza, per costituirsi definitivamente nella giovinezza.

Gli stimoli esterni e la relazione con altre persone hanno una funzione modellatrice; la realtà favorisce la crescita dell'Io.

Un'osservazione importante espressa già da Hartmann nel 1939 è la « non-condiscendenza » dell'ambiente come « fattore che determina il confronto interattivo e la crescita del Sé ».

E già allora questo autore sottolineava che « se l'ambiente fosse totalmente accondiscendente a tutti i bisogni dell'uomo, questi non si svilupperebbe: in altri termini l'ideale di un eden di soddisfazioni naturali, istintuali, non farebbe affatto la felicità, bensì sarebbe la morte, in quanto annullerebbe la possibilità di sviluppo degli individui ».

Una crescita attuata in ambiente privo di relazioni cognitive ed affettive concrete, con la variabilità di messaggi rinnovati nella relazione diretta con le difficoltà della convivenza, libera da stereotipie o da eccessive facilitazioni permette la costruzione dell'identità molto più stabilmente che non l'esposizione a messaggi poco significativi e superficiali come quelli accennati sopra: consumismo, telecrazia, eccesso di facilitazioni, ritmi troppo accelerati provocano consumo di energie con scarsa produttività psicologica.

Sembra che la preoccupazione più evidente sia quella di « essere come » i modelli offerti dalla pubblicità, dalla moda o dallo sport.

Contro questi modelli si erge agghiacciante lo spettro della guerra, della violenza dilagante; chi ha la fortuna di vivere in uno stato tranquillo resta però disorientato dal penoso contrasto fra i due estremi.

La vera mancanza di identità costituisce un fenomeno patologico severo; più diffuse sono le situazioni intermedie, che espongono alla ricerca di punti di riferimento; d'altronde mancano, almeno nell'attuale società italiana, personalità forti e capaci di rappresentare, tradotti in realtà, ideali di coraggio, solidarietà, di pensiero critico.

C'è da sperare che la percezione dell'attuale crisi stimoli alla ricerca di una via d'uscita, così da ridare fiducia e ri-valorizzare l'iniziativa personale contro il conformismo che appiattisce.

Ritrovare motivazioni ideali alla propria attività quotidiana è uscire dalla solitudine depressiva, per aprirsi di nuovo alla speranza.

È sentirsi vivi nella fatica di affermare se stessi non nella vanità dell'apparire, ma nella sostanzialità dell'essere.

Le solitudini inaccessibili

Vi sono poi solitudini più drammatiche in situazioni di malattia, di povertà, di emarginazione, di vecchiaia.

Ci sono sempre state, ma oggi ci se ne accorge di più e se ne parla di più; occorre anche riconoscere che si tenta in vario modo di aiutare chi soffre, ma le persone a disposizione sono troppo poche in confronto con l'immensità delle persone che ne sono colpite.

La malattia cronica, soprattutto, la malattia inguaribile, che lentamente corrode la resistenza fisica comporta anche un progressivo logorio psicologico.

Cessata, infatti, per ragioni evidenti, la speranza della guarigione, lo spettro di una sopravvivenza caratterizzata dal dolore, dal bisogno di cure, dalla necessità di dipendere dagli altri può creare il sentimento di panico, di disperazione.

Non rari sono i suicidi provocati dal terrore di ciò che potrebbe essere e durare a lungo.

Non sempre le persone colpite hanno l'opportunità o la disponibilità a far sapere ad altri ciò che sta succedendo: vi sono solitudini « volute » per non dare troppo dolore ai familiari.

È una forma di amore che ha aspetti eroici, nella tenacia con cui si mantiene il silenzio, finché le forze rimangono sufficienti a conservarlo; poi la tragedia.

Che colpisce i parenti all'improvviso o quasi, quando ogni intervento di assistenza si fa praticamente impossibile o inutile.

Difficile per la famiglia accettare la volontà del malato, perché è costretta a scontrarsi senza alcuna preparazione al peggio.

La depressione, il sentimento di colpa per il mancato aiuto restano a lungo dopo il decesso; il silenzio così tenacemente mantenuto dal paziente viene vissuto come un rimprovero, una mancanza di fiducia, dimenticando che invece è stato motivato dall'amore e dalla pietà.

Chi rimane, invece, non si dà pace, si rimprovera di non aver capito.

Se poi interviene anche il suicidio, il dramma per i superstiti è straziante.

Ci sono le solitudini disperate di chi apparentemente sta bene e maschera un conflitto interiore con le apparenze della normalità: ragazzi che si sentono incomprensi o addirittura abbandonati in una famiglia che non sospetta nulla, giovani disoccupati o abbandonati dal/dalla partner; anziani che hanno perduto il parentado e le amicizie per malattie o per trasferimenti; persone che sono costrette ad abitare in luoghi diversi da quelli originari e faticano ad instaurare rapporti sociali.

Vengono sopraffatti dalla depressione, non reagiscono più e al massimo la reazione avviene nella direzione della chiusura in se stessi, del tirar avanti stancamente, meccanicamente, privi del sostegno della speranza o della fede nel valore della vita.

Ma che valore può avere una vita trascinata solo perché manca il coraggio di farla finita?

Chi sta fuori spesso assume l'atteggiamento di chi giudica in forza di principi astratti, dimenticando che il solitario non è insensibile al loro valore, ma non riesce più a sentirne il fascino o se lo sente non si considera più capace di aderirvi.

Anche la fede si erode quando vengono a mancare gli stimoli della relazione sociale soddisfacente; la fede ha bisogno di essere condivisa per non assumere l'apparenza di una fantasia isolata, priva di convalida esterna.

La solitudine diventa patologia mentale, abbandono alle proprie paure, desolazione profonda, per lo più smascherata da un comportamento accettabile.

Per ragioni di deontologia professionale non mi è possibile documentare quanto dico con esemplificazioni tratte dalla mia esperienza; posso tuttavia testimoniare quanto sia difficile penetrare attraverso le barricate così costruite per portare un alito di speranza a chi ne soffre.

Spesso il contatto è scoraggiante, per l'inaccessibilità dell'interessato.

Che oppone una resistenza non sempre consapevole o che è perfino inconsapevole della propria disperazione e si nega al colloquio.

Direi che sono queste le solitudini più angoscianti per chi cerca in qualche modo di dare un aiuto o almeno un sollievo.

Nei ragazzi/ze e negli adolescenti le resistenze sono le più forti, fino a diventare caratterialità.

Sono nate lentamente in un processo di difficoltà di rapporto e si sono consolidate con l'aiuto delle forti energie a disposizione dell'età giovane.

Nel malato incurabile o inguaribile vi sono evidenti motivazioni alla depressione, ma nella persona giovane, apparentemente inserita in un contesto « normale », quali motivazioni si possono invocare?

Qui entra in gioco l'insondabile reattività individuale all'ambiente, nello scontro fra ciò che è desiderato e ciò che è ottenuto; anche lo specialista fatica a trovare una via per l'incontro.

Meglio il silenzio, il rispetto della chiusura, associato ad una presenza che al di là delle parole testimonia un interessamento forse scarno ma sostanziale.

Qualche volta la comunicazione si instaura; altre volte rimane la percezione che qualcuno ha tentato un aiuto ed il suo ricordo potrebbe agire in tempi lontani, quando qualche situazione particolare rompe la diga difensiva.

Qualche volta dire: « prego per te » o qualcosa di simile lascia una traccia che induce alla speranza.

Nell'inconscio del sofferente rimangono inespresse parole, suoni, gesti che la memoria restituisce in circostanze impensate.

È importante « credere » nel valore di queste piccole cose, che possono diventare semi di rinascita.

Solitudine: che fare?

La domanda è allora: che fare?

Che cosa può organizzare la comunità ecclesiale, il volontariato, la persona che comprende il disagio altrui e vorrebbe in qualche modo portare un contributo di solidarietà?

I suggerimenti in proposito non sono generalizzabili, ma qualche orientamento può affiorare, riferendosi alle forme di solitudine accennate.

1. Anzitutto occorre valorizzare la capacità di solitudine, come espressione della « forza dell'Io », per usare un'espressione classica.

Cominciare fin dall'infanzia a fornire il necessario sostegno per superare le paure normali nei primi anni di vita, aiutare ad avere fiducia in se stessi e negli altri, guidando nei momenti difficili e lasciando soli per le piccole difficoltà.

La formazione della personalità inizia con la nascita; è inutile rimandare al poi l'insieme degli interventi ed è necessario instaurare una corretta pedagogia, nella quale abbia prevalenza lo stimolo alla fiducia, libera da illusioni onnipotentistiche o da intolleranza alla frustrazione.

Anche la frustrazione, se proporzionata all'età, può essere incentivo alla crescita.

2. Intervenire con tutti i mezzi possibili per modificare le tendenze al consumismo, alla ricerca del facile benessere, alla soddisfazione immediata; vigilare sui messaggi trasmessi attraverso i media dai gruppi dominanti e interessati a favorire il consumismo.

È un compito immenso, poiché investe tutta la cultura attuale.

È tuttavia realizzabile se si interviene nell'ambiente in cui si opera normalmente, facendo leva sul fatto che se un piccolo gruppo si convince di una certa finalità, automaticamente ne diffonde la conoscenza all'intorno.

Come dilagano modelli negativi o superficiali, così possono dilagare modelli più idonei al corretto sviluppo della cultura.

In particolare insistere sulla solidarietà, sulla comprensione reciproca, mostrandone la concretezza di attuazione.

3. Favorire lo sviluppo e l'estensione di specializzazioni di aiuto sociale, per programmare a livello singolo o come gruppo l'interessamento, la ricerca delle solitudini più drammatiche, con iniziative da studiare caso per caso o ambiente per ambiente.

4. Nutrire sempre la speranza che di ciò che si fa, purché fatto bene, rimane sempre un'impronta anche nel caso che apparentemente e momentaneamente non vi siano risposte positive.

L'esempio dei grandi santi e dei grandi filantropi ci documenta della possibilità di successo a lungo termine.

5. Alimentare se stessi con la riflessione, la pratica della preghiera ( se si è credenti ), le relazioni di amicizia e l'informazione permanente sulle manifestazioni dell'attualità, per decifrarne il significato del momento e gli sviluppi del futuro.

6. Abituarsi, per conseguenza, alla « compassione » non in senso pietistico, ma nel significato etimologico di identificazione con l'altro per cogliere le dinamiche del suo disagio; dalla comprensione nascono intuizioni che possono divenire interventi efficaci.

La compassione, tuttavia, esige anche un distacco emotivo e un equilibrio di giudizio, che si acquista con l'esperienza, oltre che con la dottrina.

Questi miei appunti saranno integrati dagli altri interventi; mi auguro che possano trasmettere non lo sgomento di fronte alle difficoltà, ma l'apertura alla speranza di essere, anche in piccola parte, di sollievo alla sofferenza e di ringraziamento per averlo potuto fare a Chi regge le sorti del mondo.

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1 Marlo Morgan, … E venne chiamata due cuori, Sonzogno, Milano, ottobre 1994: un'opera molto discussa quanto a credibilità, ma che ha suscitato interesse.