Osservazioni sulla morale Cattolica

Capitolo XIV

Della maldicenza

La morale propriamente detta non ha tuttavia mai cessato d'essere l'oggetto delle predicazioni della Chiesa; ma l'interesse sacerdotale nell'Italia moderna ha corrotto tutto quello che ha toccato.

La reciproca benevolenza è il fondamento delle virtù sociali; il casista, nel ridurla a precetto, ha dichiarato che si pecca dicendo male del prossimo; ha impeedito a ciascheduno d'esprimere il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio; ha imposto silenzio alla voce della verità; ma avvezzando in tal modo a considerare le parole come non esprimenti il pensiero, non ha fatto che accrescere la segreta diffidenza di ciascun uomo a riguardo di tutti gli altri.

La dottrina che proibisce di dir male del prossimo, è tanto manifestamente della Chiesa, che, in questo, i casisti che l'hanno professata, possono francamente chiamarla mallevadrice.

Che se alla Chiesa si domandano le ragioni che l'hanno determinata a farne un precetto, risponderà che non l'ha fatto, ma l'ha ricevuto; che, oltre all'esser consentaneo a tutta la dottrina evangelica, questo precetto è intimato espressamente e spesso nei due Testamenti.

Eccone, per brevità, una sola prova: Non vi ingannate … i maledici non possederanno il regno di Dio ( 1 Cor 6,9-10 ).

Ma questa sentenza ha ella bisogno d'esser giustificata?

E chi vorrebbe sostener la contraria?

Un carico le vien fatto qui; ed è che impedisce a ciaschechmo d'esprimere il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio; impone silenzio alla verità, e accresce la diffidenza tra gli uomini.

Ma l'illustre autore non vorrà certo che si consideri da un lato solo una questione complessa e multiforme.

Quand'anche un precetto fosse d'ostacolo a qualche bene, è giusto di pesare tutti i suoi effetti, e di mettere in bilancia il male che previene: perchè sarebbe troppo singolare che una proibizione, la quale ha per oggetto di portar gli uomini a risparmiarsi l'uno con l'altro, non fosse d'impedimento che a cose utili.

L'amore della verità, il desiderio di fare un giusto discernimento tra la virtù e il vizio, sono forse il motivo principale e comune che determina a dir male del prossimo?

E l'effetto ordinario ne è forse di mettere la verità in chiaro, la virtù in onore, e il vizio in abbominazione?

Un semplice sguardo alla società ci convince subito del contrario, facendoci vedere i veri motivi, i veri caratteri e gli effetti comuni della maldicenza.

Perchè, nei discorsi oziosi degli uomini, dove la vanità di ciascheduno, che vorrebbe occupare gli altri di se, trova un ostacolo nella vanità degli altri che tendono allo stesso fine; dove si combatte destramente, e qualche volta a forza aperta, per conquistare quell'attenzione che si vorrebbe così di rado accordare; perchè riesce tanto facilmente a conciliarsela colui che, con le prime parole, annunzia che dirà male del prossimo?

se non perchè tante passioni se ne promettono un tristo sollievo?

E quali passioni!

È l'orgoglio, che tacitamente ci fa supporre la nostra superiorità nell'abbassamento degli altri, che ci consola dei nostri difetti col pensiero che altri ne abbiano dei simili o dei peggiori.

Miserabile traviamento dell'uomo!

Bramoso di perfezione, trascura gli aiuti che la religione gli offre a progredire verso la perfezione assoluta, per la quale è creato, e s'agita dietro una perfezione comparativa; anela, non a esser ottimo, ma a esser primo; vuol paragonarsi, e non divenire.

È l'invidia, inseparabile dall'orgoglio, l'invidia che si rallegra del male come la carità del bene, l'invidia che respira più liberamente quando una bella riputazione sia macchiata, quando si provi che c'è qualche virtù o qualche talento di meno.

È l'odio, che ci rende tanto facili sulle prove del male: è l'interesse che fa odiare i concorrenti d'ogni genere.

Tali e simili sono le passioni per le quali è così comune il dire e l'ascoltare il male: quelle passioni che spiegano in parte il brutto diletto che l'uomo prova nel ridere dell'uomo e nel condannarlo, e la logica indulgente e facile sulle prove del male, mentre spesso s'istituisce un giudizio così severo prima di credere una bona azione o l'intenzione retta e pura d'una bona azione.

Non c'è da maravigliarsi che la religione non sappia che fare, di queste passioni, e di ciò che le mette in opera: materiali fradici e repugnanti a ogni connessione, come entrerebbero nell'edifizio d'amore e d'umiltà, di culto e di ragione, ch'essa vuol innalzare nel core di tutti gli uomini?

C'è nella maldicenza un carattere di viltà che la rende simile a una delazione segreta, e fa risaltare anche da questa parte la sua opposizione con lo spirito del Vangelo, che è tutto franchezza e dignità, che abbomina tutte le strade coperte, per le quali si nuoce senza esporsi; e che, nei contrasti che si devono pur troppo avere con gli uomini per la difesa della giustizia, comanda per lo più una condotta che suppone coraggio. ( Lc 17,3 )

Il censurare gli assenti è le più volte senza pericolo di chi lo fa; sono colpi dati a chi non si può difendere; è non di rado un'adulazione, tanto più ignobile quanto più ingegnosa, verso chi ascolta.

Non parlerai male di un sordo, è una delle pietose e profonde prescrizioni mosaiche: e i moralisti cattolici che l'applicarono anche all'assente, hanno fatto vedere che entravano nel vero spirito d'una religione, la quale vuole che quando uno è costretto a opporsi, lo faccia conservando la carità, e fuggendo ogni bassa discortesia.

La maldicenza, si dice da molti, è una specie di censura che serve a tenere gli uomini nel dovere.

Sì, come un tribunale composto di giudici interessati contro l'accusato, dove l'accusato non fosse ne confrontato, ne sentito, dove chi volesse prendere le sue difese fosse per lo più scoraggito e denso, dove per lo più tutte le prove a carico fossero fatte buone; come un tal tribunale sarebbe adattato a diminuire i delitti.

È una verità troppo facile a osservarsi, che si presta fede alle maldicenze sopra argomenti che, se s'avesse un interesse di esaminarne il valore, non basterebbero a produrre nemmeno una piccola probabilità.

La maldicenza rende peggiore chi parla e chi ascolta; e per lo più anche chi n'è l'oggetto.

Quando colpisce un innocente ( e per quanto sia grande il numero dei falli, quello dell'accuse ingiuste è superiore di molto ), qual tentazione non è questa per lui!

Forse, percorrendo a stento la strada erta della probità, si proponeva per fine l'approvazione degli uomini, era pieno di quell opinione, tanto volgare quanto falsa, che la virtù è sempre conosciuta e apprezzata: vedendola sconosciuta in sé, principia a credere che sia un nome vano; l'animo suo, nutrito dell'idee ilari e tranquille d'applauso e di concordia, principia a gustare l'amarezza dell'odio; allora l'instabile fondamento sul quale era stabilita la sua virtù, cede facilmente: felice lui, se questo invece gli fa pensare che la lode degli uomini non è ne una mercede sicura, né la mercede.

Ah! se la diffidenza regna tra gli uomini, la facilità del dir male ne é una delle principali cagioni.

Colui che ha visto un uomo stringere la mano a un altro, col sorriso dell'amicizia sulle labbra, e che lo sente poi farne strazio dietro le spalle, come non sarà portato a sospettare che in ogni espressione di stima e d'affetto, possa esser nascosta un'insidia?

La fiducia crescerebbe al contrario, e con essa la benevolenza e la pace, se la detrazione fosse proscritta: ognuno che, abbracciando un uomo, potesse star sicuro di non esser l'oggetto della sua censura e della sua derisione, lo farebbe naturalmente con un più puro e più libero senso di carità.

Si crede da molti, che la repugnanza a supporre il male nasca da eccessiva semplicità o da inesperienza; come se ci volesse una gran perspicacia a supporre che ogni uomo, in ogni caso, scelga il partito più tristo.

E, invece, la disposizione a giudicare con indulgenza, a pesare l'accuse precipitate, e a compatire i falli reali, richiede l'abitudine della riflessione sui motivi complicatissimi che determinano a operare, sulla natura dell'uomo e sulla sua debolezza.

Quello a cui vien riferita la mormorazione fatta contro di lui ( e i rapportatori sono la discendenza naturale dei maledici ), ci vede spesso un'ingiustizia che lui solo può conoscere, ma della quale tutti possono, e quindi tutti devono, riconoscere il pericolo.

Ha operato in circostanze delle quali lui solo abbraccia il complesso: il censore non se n'è fatto carico, ha giudicato nudamente un fatto con delle regole di cui non può giustamente misurare l'applicazione; forse biasima un uomo, solamente perchè non ha fatto ciò che farebbe lui, forse perchè non ha le sue stesse passioni.

E quand'anche il censurato sia costretto a confessare a sé stesso che la maldicenza è affatto esente da calunnia, non ne è portato per lo più al ravvedimento, ma allo sdegno; non pensa a riformarsi, ma si volge a esaminare la condotta del suo detrattore, a cercare in quella un lato debole e aperto alla recriminazione: l'imparzialità è rara in tutti, ma più negli offesi.

Così si stabilisce una miserabile guerra, una continua faccenda nell'esaminare e propalare i difetti altrui, che accresce la noncuranza dei propri.

Quando poi gl'interessi ci mettono a fronte l'uno dell'altro, qual maraviglia che l'ire e le percosse siano così pronte, che ci facciamo tanto male a vicenda?

L'averne tanto pensato e tanto detto, ci ha preparati a ciò; siamo avvezzi a non perdonarci nel discorso, a godere dell'abbassamento altrui, a straziare quegli stessi coi quali non abbiamo contrasti; trattiamo gli sconosciuti come nemici: come mai ci troveremo tutto ad un tratto disposti alla carità e ai riguardi nei momenti appunto che la cosa è più diffìcile, e richiede un animo che ci sia esercitato di lunga mano?

Perciò la Chiesa, che vuol fratellanza, vuole anche uomini che non pensino il male, che ne gemano quando lo vedono, che parlino degli assenti con quella delicata attenzione che l'amor proprio ci fa ordinariamente usare verso i presenti.

Per regolare l'azioni, frena le parole, e, per regolar queste, mette la guardia al cuore.

Si separano spesso, e si condannano due specie di prescrizioni religiose, che si dovrebbero invece mettere insieme e ammirare.

Della prima specie è la preghiera continua, la custodia dei sensi, il combattimento perpetuo contro ogni attacco eccessivo alle cose mortali, il riferir tutto a Dio, la vigilanza sul primo manifestarsi d'ogni sentimento disordinato, e altre tali.

Di queste si dice che sono miserie, vincoli che restringono l'animo senza produrre alcun effetto importante, pratiche claustrali.

Della seconda specie sono le prescrizioni dure, ma giuste e inappellabili, che in certi casi richiedono dei sacrifici ai quali il senso repugna, dei sacrifizi che chiamiamo eroici, per dispensarci dall'esaminare se non siano doverosi.

E a queste s'oppone che bisogna prendere gli uomini come sono, e non pretendere cose perfette da una natura debole.

Ma la religione, appunto perchè conosce la debolezza di questa natura che vuol raddirizzare, la munisce di soccorsi e di forza; appunto perchè il combattimento è terribile, vuole che l'uomo ci si prepari in tutta la vita; appunto perchè abbiamo un animo che una forte impressione basta a turbare, che l'importanza e l'urgenza d'una scelta confondono di più, mentre gli rendono più necessaria la calma; appunto perchè l'abitudine esercita una specie di dominio sopra di noi, la religione impiega tutti i nostri momenti ad abituarci alla signoria di noi stessi, al predominio della ragione sulle passioni, alla serenità della mente.

La religione è stata, fino nei suoi primi tempi, e dai suoi primi apostoli, paragonata a una milizia.

Applicando questa similitudine, si può dire che chi non vede o non sa apprezzare l'unità delle sue massime e delle sue discipline, fa come chi trovasse strano che i soldati s'addestrino ai movimenti della guerra, e ne sopportino le fatiche e le privazioni, quando non ci sono nemici.

Le filosofie puramente umane, richiedendo molto meno, sono molto più esigenti: non fanno nulla per educar l'animo al bene difficile, prescrivono solo azioni staccate, vogliono spesso il fine senza i mezzi; trattano gli uomini come reclute, alle quali non si parlasse che di pace e di divertimenti, e che si conducessero alla sprovvista contro dei nemici terribili.

Ma il combattimento non si schiva col non pensarci; vengono i momenti del contrasto tra il dovere e l'utile, tra l'abitudine e la regola; e l'uomo si trova a fronte una potente inclinazione da vincere, non avendo mai imparato a vincere le più fiacche.

Sarà forse stato avvezzo a reprimerle per motivi d'interesse, per una prudenza mondana; ma ora l'interesse è appunto quello che lo mette alle prese con la coscienza.

Gli è stata dipinta la strada della giustizia come piana e sparsa di fiori; gli è stato detto che non si trattava se non di scegliere tra i piaceri, e ora si trova tra il piacere e la giustizia, tra un gran dolore e una grande iniquità.

La religione, che ha reso il suo allievo forte contro i sensi, e guardingo contro le sorprese, la religione, che gli ha insegnato a chieder sempre dei soccorsi che non sono mai negati, gl'impone ora un grande obbligo, ma l'ha messo in caso di adempirlo; e avergli chiesto un gran sacrifizio, sarà un dono di più che gli avrà fatto.

La religione, chiedendo all'uomo cose più perfette, chiede cose più facili; vuole che arrivi a una grand'altezza, ma gli ha fatta la scala, ma l'ha condotto per mano: le filosofie umane, contentandosi che tocchi un punto molto meno elevato, pretendono spesso di più; pretendono un salto che non è della forza dell'uomo.

Credo di dover dichiarare che sono lontano dal pensare che l'illustre autore non veda gl'inconvenienti della maldicenza, e voglia quasi farne l'apologia; ma ho dovuto mostrare che è eminentemente evangelico e morale l'insegnamento della Chiesa, che dir male del prossimo è peccato.

Ma il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio, vuol forse impedirlo?

No, certamente: vuol impedire le superbe, leggere, ingiuste, inutili accuse, il giudizio dell'intenzioni, nelle quali Dio solo vede anche ciò che è sentito confusamente nel cuore stesso dove si formano; ma il testimonio dell'azioni, vuol regolarlo, non levarlo di mezzo; lo comanda anzi quasi in tutti i casi in cui non lo condanna, cioè quando non ci porti a darlo la voglia di deprimere o di disonorare, ma dovere d'uficio o di carità; quando si tratti di preservare il prossimo dall'insidie dei maligni; quando insomma sia richiesto da giustizia e da utilità.

Certo, in questi casi, è necessaria tutta la prudenza cristiana, ma la religione c'insegna i mezzi d'ottenerla.

Con essa l'uomo può governarsi nelle difficili circostanze, nelle quali il parlare e il tacere hanno qualche apparenza di male; in cui si deve opporsi a un maligno, e nello stesso tempo potersi render testimonianza di non esserci condotti da malignità.

Il gemito dell'ipocrita che sparla di colui che odia, le proteste che fa d'essere addolorato dei difetti dell'uomo che denigra, di parlar per dovere, sono un doppio omaggio e alla condotta e ai sentimenti che la religione prescrive.

La Chiesa è tanto aliena dall'imporre silenzio alla voce della verità, quando sia mossa dalla carità; è tanto aliena dal trascurare alcun mezzo per cui gli uomini possano migliorarsi a vicenda, che condanna i rispetti umani.

E quest'espressione medesima è sua; è una di quelle che il mondo non avrebbe sapute trovare, perchè intende e accenna un obbligo e un motivo soprannaturale di non tacer la verità in certi casi.

Così ha prevenuto l'animo debole contro il terrore che la forza, che la moltitudine, che la derisione, che il possesso delle dottrine mondane, gli sogliono incutere, così ha resa libera la parola in bocca all'uomo retto.

Essa ha anche comandata la correzione fraterna: mirabile tempra di parole, in cui, all'idea di correzione, che urta tanto il senso, è unita immediatamente l'idea di fraternità, che rammenta i fini d'amore, e la comune debolezza, e la disposizione a ricever la correzione in chi la fa agli altri.

La Chiesa non impedisce alcuno dei vantaggi che possono venire dalla sincera e spassionata espressione della verità, e dal fondato e giusto discernimento tra la virtù e il vizio.

Mi si permetta di collocar qui una riflessione che è sottintesa in molti luoghi di questo scritto, e che sarà espressamente riprodotta e svolta in qualche altro.

Ogni qual volta si crede trovare nella religione un ostacolo a qualche sentimento o a qualche azione o a qualche istituzione giusta e utile, generosa e tendente al miglioramento sociale, si troverà, esaminando bene, o che l'ostacolo non esiste, e la sua apparenza era nata dal non avere abbastanza osservata la religione, o che quella cosa non ha i caratteri e i fini ch'era parso alla prima.

Oltre l'illusioni che possono venire dalla debolezza del nostro intendimento, c'è una continua tentazione d'ipocrisia, dirò così, verso noi medesimi, dalla quale non sono esenti gli animi più puri e desiderosi del bene; di una ipocrisia che associa subito l'idea di un bene maggiore, l'idea di una inclinazione generosa ai desideri delle passioni predominanti: dimanierachè ognuno, chiamando a esame se stesso, non può qualche volta esser certo dell'assoluta rettitudine dei fini che lo movono; non può discernere che parte ci abbia, o l'orgoglio o la prevenzione.

Se allora condanniamo le regole della morale perchè ci paiono più corte dei nostri ritrovati, serviamo a dei sentimenti riprovevoli che non confessiamo nemmeno a noi stessi, o che forse combattiamo in noi; ma che non s'estinguono interamente in questa vita.

S'osservi finalmente che, se l'aumento della diffidenza fosse un effetto della proibizione di parlar male, siccome questa proibizione è intimata in tutto il mondo cattolico, così ne verrebbe, o che la diffidenza ne è accresciuta pertutto, o che in Italia i precetti sono più osservati che altrove: la qual cosa sarebbe invece un indizio d'un migliore stato morale.

Io non so se noi Italiani siamo più diffidenti degli altri Europei; so che ci lamentiamo di non esserlo abbastanza; so che ( come, del resto, tutte l'altre nazioni ) diciamo invece di peccare di troppa credulità e buona fede.

Se però la diffidenza fosse universale tra di noi, mi pare che converrebbe darne la colpa a tutt'altro che al non mormorare; giacché siamo lontani dall'aver perduta quest'abitudine.

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