Paolo VI e la costruzione della civiltà dell'amore

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Premessa

L'espressione « civiltà dell'amore » è stata usata per la prima volta da Paolo VI il 17 maggio 1970, festa della Pentecoste.1

Ripresa più volte, divenne durante il resto del suo pontificato, come in quello di Giovanni Paolo II, una parola d'ordine mobilitatrice.2

1. « Non siamo la civiltà, ma fautori di essa »

Per meglio comprendere dal punto di vista teologico, ecclesiologico e umanistico il significato in Paolo VI dell'espressione « civiltà dell'amore », occorre rifarsi innanzitutto alla sua prima lettera enciclica Ecclesiam suam ( = ES ) del 6 agosto 1964.3

In essa, sia pure in nuce, troviamo indicate l'origine trascendente e trinitaria della civiltà dell'amore, la sua manifestazione in Gesù Cristo e nel Vangelo, la sua stretta e intima connessione con la missione della Chiesa, la consapevolezza dei suoi diversi gradi e luoghi di esistenza, la sua dimensione terrena e sovratemporale.

Non si può afferrare la pregnanza semantica di questa espressione – divenuta oramai ricorrente nel magistero pontificio successivo – se non contestualizzandosi nella riflessione ecclesiologica di Paolo VI e del Concilio Vaticano II, nonché in quella post-conciliare dello stesso Montini sulla natura dell'evangelizzazione, sull'impegno per la giustizia e per lo sviluppo integrale dei popoli.

Nella ES emergono già i tratti dell'ecclesiologia di comunione e della missione propri della riflessione conciliare – si tenga presente che questa enciclica programmatica fu promulgata mentre era in atto il Concilio – e, inoltre, la nuova visione dei rapporti tra Chiesa e mondo.

Fondata su Cristo, in cui Dio riallaccia il suo paterno e santo colloquio con l'uomo che si era interrotto a causa del peccato originale ( cf. ES n. 41 ), la Chiesa, mediante la sua opera di evangelizzazione, dialoga con il mondo in cui si trova a vivere.

Si fa parola, messaggio di salvezza ( cf. ES n. 38 ).

Mentre celebra, annuncia e testimonia la ripristinata comunione tra Dio e l'uomo nel Nuovo Adamo, fa circolare nelle relazioni umane l'amore trinitario in lei riversato dall'alto.

Il mistero accolto, sperimentato, è comunicato al mondo come vita nuova, come sorte mirabile di redenzione e di speranza.

« La rivelazione – si legge nell'ES –, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l'iniziativa di instaurare con l'umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell'Incarnazione e quindi nel Vangelo.

[ … ] La storia della salvezza narra appunto questo dialogo che parte da Dio, e intesse con l'uomo varia e mirabile conversazione.

È in questa conversazione di Cristo fra gli uomini ( cf. Bar 3,38 ) che Dio lascia capire qualcosa di Sé, il mistero della sua vita, unicissima nell'essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere conosciuto: Amore Egli è; e come vuole da noi essere onorato e servito: amore è il nostro comandamento supremo.

Il dialogo si fa pieno e confidente; il fanciullo vi è invitato, il mistico vi si esaurisce » ( n. 41 ).

Sono qui sinteticamente indicate l'origine trascendente e trinitaria della civiltà dell'amore, il substrato ontologico ed etico di cui è sostanziata: la Chiesa è memoria attualizzante del dialogo e della comunione tra Dio e l'uomo, definitivamente ristabiliti da Cristo.

La vita d'amore intratrinitaria – vita di unione e di reciproco dono – è partecipata all'umanità perché diventi anima e stile di esistenza, principio di compimento delle singole persone e della loro relazionalità.

Risulta, quindi, implicito nel ministero della Chiesa la specificazione, a livello culturale, di una nuova antropologia e di un nuovo umanesimo.

Ma dallo studio della ES emerge anche la consapevolezza sia della realtà analogica della nuova civiltà, seminata e suscitata nei solchi della storia dall'incarnazione, morte e risurrezione del Signore Gesù, sia della ministerialità della Chiesa: « Tutto ciò che è umano ci riguarda.

Noi abbiamo in comune con tutta l'umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi.

Siano pronti a condividere questa prima universalità; ad accogliere le istanze profonde dei suoi fondamentali bisogni, ad applaudire alle affermazioni nuove e talora sublimi del suo genio.

E abbiamo verità morali, vitali, da mettere in evidenza e da corroborare nella coscienza umana, per tutti benefiche.

Dovunque è l'uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui; dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell'uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro.

Se esiste nell'uomo un'anima naturalmente cristiana, noi vogliamo onorarla della nostra stima e del nostro colloquio.

Noi potremmo ricordare a noi stessi e a tutti come il nostro atteggiamento sia, da un lato, totalmente disinteressato: non abbiamo alcuna mira politica o temporale; dall'altro, sia rivolto ad assumere, cioè ad elevare a livello soprannaturale e cristiano, ogni onesto valore umano e terreno; non siamo la civiltà, ma fautori di essa » ( n. 54 ).

La Chiesa, che non coincide con la civiltà, la propizia in quanto ne porta in sé la scaturigine senza tuttavia esserne il principio ultimo.

Esplicitando la ES, osserviamo che la Chiesa è sacramento, ovvero segno e strumento universale della civiltà dell'amore, che si attua in forma vertice nella comunità divina.

È segno storico, visibile, icona di un mistero che la trascende, la inonda e la invia, costituendola comunione-comunità essenzialmente ministeriale alla città dell'uomo e, ultimamente, al Regno di Dio.

La Chiesa in terra è presenza germinale del grande progetto divino: la piena comunione dell'uomo con Dio e l'unità del genere umano.

È anticipo e annuncio sia del Regno che si instaurerà alla fine dei tempi sia della civiltà dell'amore che le genti sono chiamate a realizzare nell'ordine temporale, all'interno delle loro culture, nell'organizzazione della loro vita sociale, economica e politica.

Più in dettaglio: la civiltà dell'Amore per eccellenza, che è la Trinità, non trascende completamente la vicenda umana in cui è inserita e immagliata e a cui appartiene costitutivamente grazie alla creazione e alla redenzione di Cristo.

L'umanità, dunque, porta in sé i germi di una vocazione comunitaria superiore.

La Chiesa è nel tempo mezzo che rivela, annuncia, indica presente e rafforza l'incipiente realtà della civiltà dell'amore, inseminata in ogni popolo, in ogni cultura.

Essa, per prima, ha il compito di viverla, per esserne propiziatrice per la città dell'uomo.

Posta sul monte e resa dal suo Signore faro di civiltà, si impegna incessantemente ad approssimare quella terrena, con tutti i suoi pluralismi, a quella suprema ed eterna.

La Chiesa è al servizio della vocazione di ogni uomo e di ogni popolo alla « civiltà che non muore » ( cf. ES n. 55 ), sempre intenta a coltivare la dimensione di trascendenza che apre a una speranza invincibile.

La civiltà dell'amore deriva, dunque, dalla Trinità, mirabile ed eccelsa città di Dio.

E l'uomo, essendo strutturato a immagine della comunità delle Persone divine, è in grado di realizzarla, perché le sue forze, pur debilitate dal peccato, sono state redente e corroborate dal dono dello Spirito, Spirito di Dio e Spirito di Cristo, spirito di comunione e di unità.

Paolo VI, profeta della civiltà dell'amore, l'invoca ardentemente, perché l'umanità spesso dimentica la propria altissima origine e vocazione e perde il contatto con il suo essere più profondo, con la sua anima.

Il mondo è malato, scrive il pontefice nell'enciclica Populorum progressio:4 « Il suo male risiede meno nella vanificazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli » ( n. 66 ).

Il mondo, bisognoso d'amore, sembra non avere più un cuore per amare e per ricevere amore.

Solo Cristo, Dio-Uomo, può ridonare all'uomo un cuore nuovo che lo riapra all'amore e alla speranza.

Un umanesimo pieno e una vera civiltà non possono esistere senza Dio, senza Cristo, senza Chiesa.

Gli uomini non sarebbero in grado di contribuire efficacemente, da soli, alla formazione del corpo dell'umanità nuova, adombrante in certo qual modo quella del mondo che verrà alla fine dei tempi.

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1 Sul tema della « civiltà dell'amore » in Paolo VI si vedano almeno H. Carrier, Una civilización del amor.
Proyecto utópico?, in «Corintios XIII», 30 ( aprile-giugno 1984 ), pp. 21-44: qui l'autore cerca di rispondere ad alcuni quesiti circa la possibilità pratica della realizzazione di una simile civiltà nel contesto culturale contemporaneo;
S. Silva, La civilización del amor en Pablo VI, in Hacia la Civilización del amor: Chile 2000, Conferencia Episcopal de Chile, Santiago 1983, pp. 31-39
2 Paolo VI lanciò al mondo il programma della civiltà dell'amore a conclusione dell'anno santo 1975 ( cf. Paolo VI, Omelia nella notte di Natale )
3 Per il testo italiano, si segue la numerazione di Paolo VI, Ecclesiam suam, Paoline, Roma 1964.
Tra i vari commenti all'enciclica, segnaliamo F. García-Salve ( ed. ), Comentario eclesial a la « Ecclesiam suam », El Mensajero del Corazón de Jesús, Bilbao 1965; AA. VV., El dialogo según la mente de Pablo VI.
Comentarios a la « Ecclesiam suam », Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1965;
R. Spiazzi, L'enciclica del dialogo, Borla, Torino 1965.
Se l'espressione, come già detto, viene usata nella seconda metà del pontificato di Paolo VI, occorre dire che essa era già andata maturando nello spirito e nella cultura del giovane Montini, con ogni probabilità quando egli leggeva le opere di Jacques Maritain – specie Umanesimo integrale – del quale fu un grande ammiratore.
In questo breve saggio la dimensione storica è presupposta, ma sarebbe certamente interessante e proficuo poter ricostruire l'elaborazione dell'espressione in analisi tramite il recupero dell'itinerario intellettuale e delle esperienze culturali del Pontefice bresciano. In tal modo il discorso riceverebbe un altro spessore e maggior rilevanza che qui però non è possibile offrire
4 Il testo latino della Populorum progressio si trova in AAS 59 (1967), pp. 257-299.
Per il testo italiano e la numerazione seguiamo, per comodità, R. Spiazzi (ed.), I documenti sociali della Chiesa.
Da Pio IX a Giovanni Paolo II, II/Dal 1967 al 1987, Massimo, Milano 19882, pp. 972-1025