Confessione Augustiana

XX. Fede e buone opere

I nostri sono accusati falsamente di vietare le buone opere.

Infatti i loro scritti più importanti sui Dieci comandamenti e altri di argomento affine dimostrano che essi hanno insegnato efficacemente sui vari aspetti della vita e sui doveri connessi, su che genere di vita e quali opere siano gradite a Dio, nelle diverse vocazioni.

Tutte cose queste su cui un tempo i predicatori ci insegnavano ben poco; insistevano soltanto su opere puerili e non necessarie, come certi giorni festivi, alcuni digiuni, confraternite, pellegrinaggi, culto dei santi, rosari, ingresso in monastero e simili.

Ma ora, anche i nostri avversari, resi attenti, non insegnano più queste cose e non predicano più queste opere inutili come facevano un tempo.

Cominciano anche a far menzione della fede, a proposito della quale vi era prima un silenzio stupefacente.

Insegnano che non siamo giustificati soltanto per opere, ma uniscono insieme fede ed opere, affermando che siamo giustificati per fede e per opere; questa dottrina è già più tollerabile della precedente e può recare più conforto del loro antico insegnamento.

Poiché dunque l'insegnamento della salvezza per fede ( doctrina de fide ) – al quale spetta il primo posto nella Chiesa – rimase così a lungo ignorato ( dobbiamo tutti ammettere che nella predicazione vi è stato un profondissimo silenzio sulla giustizia che ci è data per fede, mentre nella Chiesa si parlava unicamente della dottrina delle opere ), i nostri così istruirono le chiese sulla fede: In primo luogo, che le nostre opere non possono riconciliare Dio con noi, o farci meritare la remissione dei peccati e la grazia, ma che otteniamo questa soltanto per fede, vale a dire se crediamo che è per i meriti di Cristo che noi siamo ricevuti in grazia.

Cristo è stato costituito unico mediatore e propiziatore, affinché, per suo tramite, il Padre sia riconciliato con noi.

Pertanto, chi confida di potersi meritare la grazia con le sue opere, non solo disprezza il merito e la grazia di Cristo, ma cerca, senza Cristo, con le sue sole forze umane, la via verso Dio, mentre invece Cristo disse di se stesso: « Io sono la via, la verità e la vita ».

Questo insegnamento sulla fede è trattato ovunque da Paolo, ad esempio in Efesini 2,8: « É per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è un dono di Dio, non viene dalle opere affinché nessuno si glorii ».

E perché qualcuno non intenda cavillare sostenendo che abbiamo escogitato una nuova interpretazione di Paolo, notiamo che tutta la questione è confermata dalla testimonianza dei Padri della Chiesa.

Infatti Agostino, in molti suoi libri, difende la grazia e la giustizia che ci è data per fede contro i meriti delle opere.

Analogamente insegna Ambrogio nel suo "De vocatione gentium" e altrove.

Così dice, infatti, nel "De vocatione gentium": « La rendenzione compiuta dal sangue di Cristo sarebbe svilita e la priorità ( praerogativa ) delle opere umane di fronte alla misericordia di Dio non sarebbe annullata, se la giustificazione, che avviene per grazia, ci fosse invece dovuta per nostri meriti precedenti, con la conseguenza di non essere più un dono di Chi che la elargisce, ma una retribuzione che spetta a chi opera ».

E per quanto questa dottrina sia disprezzata da coloro che non ne hanno fatto esperienza, tuttavia le coscienze pie e timorose di Dio sperimentano che essa è fonte di grande consolazione, perché non si può tranquillizzare le coscienze con alcuna opera, ma solo con la fede, quando sono fermamente convinte che hanno placato Dio grazie ai meriti di Cristo, come ci insegna Paolo in Romani 5,1: « Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio ».

Infatti tutta questa dottrina è da mettere in relazione con quella lotta interiore della coscienza atterrita e non può essere capita senza un riferimento a quella lotta.

Perciò non possono che giudicarla male quegli uomini inesperti e profani i quali s'immaginano che la giustizia cristiana non sia nulla di diverso dalla giustizia civile dei giuristi o dei filosofi.

Un tempo le coscienze erano tormentate dalla dottrina delle opere e non udivano la consolazione che proviene dall'Evangelo.

E così la coscienza esiliò alcuni nel deserto, altri nei monasteri, nella speranza di meritarsi la grazia in quei luoghi, mediante la vita monastica.

Altri escogitarono altre opere per guadagnarsi la grazia e per dare soddisfazione dei loro peccati.

Perciò si avvertì un grandissimo bisogno di presentare e richiamare alla memoria questa dottrina sulla fede in Cristo, affinché non mancasse la consolazione alle coscienze timorate di Dio, ma sapessero che, mediante la fede in Cristo, si ottiene la grazia e la remissione dei peccati.

Da noi si istruiscono anche i fedeli che qui il termine « fede » non significa soltanto credere che un certo fatto storico è accaduto – anche gli empi e il diavolo hanno tale fede! - ma significa fede che non crede solo nel racconto storico, bensì anche nell'effetto del fatto storico, e cioè in particolare crede questo articolo di fede, la remissione dei peccati, e cioè che, mediante Cristo, abbiamo la grazia, la giustizia e la remissione dei peccati.

Chi sa che ormai solo mediante Cristo ha propizio il Padre, conosce veramente Dio, sa che gli sta a cuore, lo invoca, e quindi non è senza Dio come i gentili.

Infatti i diavoli e gli empi non possono credere a questo articolo sulla remissione dei peccati; perciò odiano Dio come proprio nemico, non lo invocano e non attendono nulla di buono da Lui.

Anche Agostino, a proposito del termine « fede », dà un avvertimento analogo al lettore insegnando che nelle Scritture il termine « fede » non è inteso nel senso di conoscenza dei fatti ( notitia ) – che anche i malvagi posseggono – ma nel senso di fiducia che consola e rassicura le menti terribilmente angosciate.

Oltre a ciò i nostri insegnano che è necessario fare buone opere, non perché nutriamo la speranza di meritare con esse la grazia, ma perché sono volute da Dio.

Solo per fede si ottiene la remissione dei peccati e la grazia.

E poiché per fede si riceve lo Spirito Santo, ecco che i cuori si rinnovano e si rivestono di nuovi desideri, onde poter compiere le opere buone.

Così dice infatti Ambrogio: « La fede è genitrice della buona volontà e dell'azione giusta ».

Infatti le forze umane, senza lo Spirito Santo, sono piene di empi desideri e sono troppo deboli per poter compiere buone opere al cospetto di Dio.

Sono inoltre in potere del diavolo che spinge gli uomini a vari peccati, a pensieri empi e ad evidenti misfatti, come si può notare nei filosofi che – pur avendo fatto ogni sforzo, da parte loro, per vivere onestamente – non vi sono riusciti, anzi si sono macchiati di molti evidenti misfatti.

Questa è la debolezza dell'uomo quando è senza fede e senza Spirito Santo e si regge soltanto sulle sue forze umane.

Da tutto ciò è evidente che non si deve rimproverare a questa dottrina di vietare le buone opere; al contrario, molto più la si deve apprezzare perché dimostra in che modo si possano compiere le buone opere.

Senza la fede, infatti, la natura umana non può in alcun modo compiere le opere prescritte dal primo e dal secondo comandamento.

Senza la fede [ naturale ] non invoca Dio, non attende nulla da Dio, non sopporta la sofferenza, ma ricerca sicurezze umane e confida nelle sicurezze umane.

Così,quando manca la fede e la fiducia in Dio, prendono possesso del cuore umano tutte le bramosie e le decisioni umane.

Per questo anche Cristo disse: « Senza di me non potete far nulla » ( Gv 15,5 ).

E la Chiesa canta: "Sine tuo numine nihil est in nomine nihil est innoxium"

XXI. Il culto dei santi

Sul culto dei santi insegnano che il ricordo dei santi può essere proposto al fine di imitare la loro fede e le loro buone opere, ciascuno secondo la propria vocazione; così l'imperatore può imitare l'esempio di Davide nel condurre la guerra per scacciare i turchi dalla patria, poiché ambedue sono re.

Ma la Scrittura non insegna ad invocare i santi o a chiedere l'aiuto dei santi, perché ci presenta soltanto Cristo come mediatore, riconciliatore, sommo sacerdote e intercessore.

É lui che deve essere invocato, ed egli promise che avrebbe esaudite le nostre preghiere; egli approva pienamente questo culto, cioè che lo si invochi in ogni afflizione: « Se alcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre … » ( 1 Gv 2,1 ).

Questa è pressappoco la sostanza della dottrina che si insegna da noi; è facile notare che in essa non vi è nulla che si discosti dalle Scritture, o dalla Chiesa cattolica o dalla Chiesa romana , per quanto ci è nota dagli scritti dei Padri.

Stando così le cose, costoro che pretendono che i nostri siano considerati eretici, giudicano senza alcuna umanità e carità.

Tutto il disaccordo verte su alcuni pochi abusi che, senza un fondamento sicuro, si sono insinuati nelle Chiese; a proposito dei quali, anche se vi fosse stata qualche divergenza, tuttavia sarebbe stato confacente ai vescovi un atteggiamento di tolleranza per cui, a motivo della confessione di fede che ora abbiamo esposto, sopportassero i nostri, dal momento che neppure i canoni sono così rigidi da esigere che i riti delle chiese siano i medesimi ovunque, néi riti di tutte le chiese furono simili in ogni tempo.

Comunque, presso di noi, gli antichi riti, per la maggior parte, sono stati diligentemente conservati.

É falsa infatti la calunnia secondo la quale nelle nostre chiese sarebbero state abolite tutte le cerimonie e tutte le antiche istituzioni.

In realtà ci fu una pubblica protesta perché in certe pratiche e consuetudini popolari si erano introdotti alcuni abusi.

E questi, poiché non si poteva approvarli in buona coscienza, sono stati corretti in qualche aspetto.

Articoli nei quali si passano in rassegna gli abusi che sono stati coretti

Poiché le Chiese presso di noi non si discostano dalla Chiesa universale in nessun articolo di fede, ma tralasciano soltanto alcuni pochi abusi che sono recenti e che furono accolti contro le disposizioni dei canoni per gli errori dei tempi, chiediamo che la Vostra Maestà Imperiale ascolti benevolmente che cosa sia stato modificato e quali siano state le cause a motivo delle quali il popolo è stato costretto a praticare quegli abusi contro coscienza.

E non accordi fiducia, la Vostra Maestà Imperiale, a costoro che, per suscitare l'odio degli uomini contro i nostri, diffondono incredibili calunnie fra il popolo.

Così, dopo aver eccitato l'animo degli uomini buoni, fin dall'inizio essi hanno cercato un pretesto per questo dissidio e, con le stesse arti, si affannano ora allo scopo di accrescere la discordia.

Senza alcun dubbio, infatti, la Maestà Imperiale riconoscerà che la forma sia dell'insegnamento sia delle cerimonie, è presso di noi più tollerabile di quella che viene descritta da quegli uomini ingiusti e malevoli; né la verità può certo essere colta dalle dicerie del volgo e dalle maldicenze dei nemici.

Del resto si può senza difficoltà convenire che nulla giova più a mantenere il decoro delle cerimonie e ad alimentare la devozione e la pietà del popolo, del fatto che le cerimonie si celebrino nelle chiese nei modi prescritti dalle norme.

XXII. La Cena del Signore con ambedue le specie

Ai laici, nella Cena del Signore, si dà l'una e l'altra specie del sacramento, perché questa usanza ha a suo favore un comandamento del Signore: « Bevetene tutti »( Mt 26,27 ), dove Cristo, parlando del calice, ordina inequivocabilmente che tutti ne bevano.

E perché nessuno possa ricorrere a cavilli sostenendo che ciò spetterebbe soltanto ai sacerdoti, Paolo, nella Lettera ai 1 Corinzi 11,20, cita un esempio da cui risulta in modo evidente che tutta la comunità fruiva delle due specie.

Questa usanza si conservò a lungo nella Chiesa e non ci è noto in quale tempo e per opera di chi sia stata modificata per la prima volta, anche se il cardinale Cusano ricorda la data in cui [ modifica ] è stata apportata.

Cipriano in alcuni passi attesta che ai suoi tempi si somministrava al popolo il [ calice del ] sangue; e la medesima cosa attesta Girolamo che afferma: « I sacerdoti amministrano l'eucaristia e distribuiscono al popolo il sangue di Cristo ».

Anzi lo stesso papa Gelasio ordina di non amputare il sacramento ( distinctio II de consacratione, caput Comperimus ).

Soltanto una consuetudine: non c'è altro di antico.

Ma è noto che un'usanza introdotta contro l'esplicito comandamento del Signore non può essere approvata, come attestano i canoni distinctio VIII, caput Veritate, con quelli che seguono.

Invece tale usanza è stata accolta, non solo in contrasto con la Scrittura, ma anche contro gli antichi canoni e contro l'esempio della Chiesa.

Perciò, se alcuni hanno preferito ricevere ambedue le specie del sacramento, non avrebbero dovuto essere costretti ad agire altrimenti, con offesa alla loro coscienza.

E, dato che la divisione del sacramento è contraria all'istituzione di Cristo, presso di noi ci si astiene dal fare la consueta processione.

XXIII. Il matrimonio dei sacerdoti

Vi fu una pubblica protesta per i cattivi esempi dati dai preti che non osservano la castità.

Per questo motivo si dice che anche il papa Pio abbia ammesso che vi furono indubbiamente alcuni motivi per cui il matrimonio è stato tolto ai preti, ma ve ne sono di molto maggiori per cui dovrebbe esser loro restituito.

Così scrive il Platina.

Volendo dunque evitare quei pubblici scandali, i preti presso di noi si sono sposati e hanno insegnato che era loro lecito contrarre matrimonio.

In primo luogo, perché Paolo dice: « Ogni uomo abbia la propria moglie per evitare la fornicazione » e poi: « É meglio sposarsi che ardere » [ 1 Corinzi 7,2.9 ].

In secondo luogo, Cristo dice: « Non tutti sono capaci di praticare questa mia parola » [ Mt 19,11 ], ove insegna che non tutti gli uomini sono adatti al celibato, perché Dio creò l'uomo affinché procreasse ( Genesi 1 ).

E mutare la creazione non è in potere dell'uomo senza uno speciale dono o un particolare intervento di Dio.

Coloro che non sono adatti al celibato devono dunque contrarre matrimonio, poiché nessuna legge umana, nessun voto può annullare il comandamento di Dio e l'ordine delle cose da Lui istituito.

Per questi motivi i preti insegnano che ad essi è lecito prender moglie.

É noto che anche nella Chiesa antica i preti si sposavano; anche Paolo dice infatti che si deve scegliere un vescovo che sia sposato.

In Germania i preti furono costretti con la forza al celibato per la prima volta quattrocento anni fa, ed essi si opposero a tal punto che l'Arcivescovo di Magonza, che stava per pubblicare l'editto del Pontefice romano a tale riguardo, per poco non fu ucciso dai preti adirati in piena sommossa.

E la cosa fu condotta così brutalmente che non solo vennero proibiti i matrimoni d'allora in poi, ma furono spezzati anche quelli già esistenti, e ciò contro tutte le leggi divine e umane, e contro gli stessi canoni emanati non solo dai Pontefici ma anche dai più celebrati Concili.

E poiché, avvicinandosi il mondo alla sua fine, la natura umana diventa a poco a poco più debole, conviene vegliare perché non serpeggi in Germania un maggior numero di peccati.

Dio istituì dunque il matrimonio perché fosse un rimedio all'umana debolezza.

I canoni stessi affermano che il rigore dei tempi antichi dovette talvolta essere attenuato in tempi successivi, a causa della debolezza umana.

É desiderabile che ciò avvenga anche in questa materia.

E si prevede che, ad un certo momento, alle chiese mancheranno i pastori, se il matrimonio continuerà ad essere proibito.

Poiché dunque esiste un ordine di Dio ed è noto l'antico costume della Chiesa, poiché un celibato impuro genera gravissimi scandali, adultèri e altri misfatti degni del castigo di un onesto magistrato, è molto sorprendente che in nessun altro campo si mostri una severità paragonabile a quella [ si mostra ] contro il matrimonio dei preti.

Dio ordinò di onorare il matrimonio; le leggi in tutti gli stati ben ordinati, anche presso i pagani, lo circondano del massimo onore.

Ma ora alcuni, e per giunta proprio dei preti, sono assoggettati a pene severissime, contro le disposizioni dei canoni, per nessun altro motivo se non quello del matrimonio.

Paolo chiama dottrina diabolica quella che proibisce il matrimonio ( 1 Tm 4 ) e lo si può capire agevolmente, ora che si difende la proibizione del matrimonio con tali tormenti.

Come dunque nessuna legge umana può annullare l'ordine di Dio, così neppure il voto di castità può farlo.

Per questo motivo anche Cipriano consiglia di sposarsi alle donne che non mantengono la promessa della castità.

Queste sono le sue parole ( Epistolarum lib. I, ep. undecima ): "Se poi non vogliono o non possono perseverare, è meglio che si sposino piuttosto che cadere nel fuoco a causa dei loro desideri; certamente non diano motivo di scandalo ai fratelli e alle sorelle".

Anche i canoni mostrano una certa indulgenza verso coloro che avevano fatto voto di castità prima dell'età adatta, come si usava fare, pressappoco, fino ad oggi.

XXIV. La messa

Le nostre chiese sono a torto accusate di aver abolito la messa.

Presso di noi, infatti, si conserva la messa e la si celebra con la massima reverenza.

Si conservano anche quasi tutte le cerimonie tradizionali, con questa eccezione, che ai canti latini si alternano in qualche momento dei canti tedeschi che sono stati aggiunti per istruire il popolo.

Le cerimonie sono infatti necessarie per questo scopo precipuo: ammaestrare chi non è preparato.

Anche Paolo ordina di usare nella Chiesa la lingua compresa dal popolo [ 1 Cor 14,9 ].

Il popolo viene abituato a prendere insieme [ nello stesso momento ] il sacramento [ Santa Cena ], quando vi sia chi è idoneo a farlo; anche questo aumenta il rispetto e la devozione verso le cerimonie pubbliche.

Infatti nessuno vi viene ammesso [ alla Santa Cena ] se prima non è stato esaminato e ascoltato.

Le persone sono anche istruite sul valore e sull'utilità del sacramento, cioè su quale consolazione esso procuri alle coscienze intimorite, affinché imparino a porre la loro fiducia in Dio, a chiedere tutte le cose buone a Dio e ad attenderle da Lui.

Questo culto rallegra Dio, questo uso del sacramento alimenta l'amore per Dio.

Non ci sembra, pertanto, che presso i nostri avversari le messe siano celebrate con spirito più religioso che da noi.

É pure ben noto che per lungo tempo è stata elevata questa pubblica protesta e largamente diffusa da parte di tutti i buoni fedeli, e cioè che le messe sono state turpemente profanate perché cumulate a fine di lucro.

Nessuno ignora, infatti, quanto sia largamente diffuso questo abuso in tutti i templi, da quali ministri si dicano le messe solo in vista della ricompensa o delle prebende, quanti le celebrino violando i divieti dei canoni.

Paolo invero minaccia severamente coloro che amministrano indegnamente l'eucaristia, quando dice: « Chiunque mangerà questo pane o berrà il calice del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore » [ 1 Cor 11,27 ].

Perciò, da quando presso di noi i sacerdoti sono stati messi in guardia contro questo peccato, sono cessate presso di noi le messe private, dal momento che non v'era quasi alcuna messa privata che non si celebrasse per guadagno.

Neppure i vescovi ignoravano questi abusi; se li avessero corretti in tempo, ci sarebbero ora meno dissidi.

In passato, fingendo di non vederli, hanno permesso che molti difetti serpeggiassero nella Chiesa; attualmente, ma ormai troppo tardi, cominciano a lamentarsi dei mali che affliggono la Chiesa, dato che questa sollevazione è nata unicamente a motivo di questi abusi che erano così evidenti da non potersi sopportare più a lungo.

Grandi contrasti nacquero poi sulla messa, sul sacramento [ della Cena ], forse perché il genere umano scontasse la pena di una così lunga profanazione della messa che costoro, per tanti secoli, avevano tollerato nella Chiesa, mentre avrebbero potuto e dovuto correggerla.

Infatti nel decalogo è scritto: « Chi abusa del nome di Dio non resterà impunito » [ Es 20,7 ].

Eppure, dall'inizio del mondo, nessuna cosa riguardante Dio è mai apparsa così strettamente collegata al guadagno di denaro come la messa.

Si aggiunse pure una dottrina che fece proliferare all'infinito le messe private, cioè che Cristo, con la sua passione, avrebbe dato soddisfazione solo per il peccato originale e avrebbe quindi istituito la messa nella quale si facesse l'offerta di espiazione per i peccati di ogni giorno, mortali e veniali.

Da qui ebbe origine la credenza generale che la messa sia un'opera che cancella i peccati dei vivi e dei morti in virtù della sua stessa opera.

A questo punto si cominciò a disputare se una sola messa detta per un gran numero di persone avesse lo stesso valore di una messa celebrata per un singolo individuo.

E tale disputa generò questa infinita moltitudine di messe.

Da queste opinioni i nostri ci misero in guardia perché sono contrarie alle Sacre Scritture e sono lesive della gloria della passione di Cristo.

Infatti la passione di Cristo fu un'offerta e una soddisfazione non solo per il peccato originale, ma anche per tutti gli altri peccati, come è scritto nella Epistola agli Ebrei: « Siamo stati santificati mediante l'offerta del corpo di Gesù Cristo fatta una volta per sempre ».

E ancora: « Con un'unica offerta Egli ha per sempre resi perfetti quelli che sono santificati » [ Eb 9,26-28 e Eb 10,10-14 ].

In modo analogo la Scrittura insegna che noi siamo giustificati al cospetto di Dio mediante la fede in Cristo, se crediamo che i peccati ci siano rimessi per l'opera di Cristo.

Ora, se la messa cancella i peccati dei vivi e dei morti per la sola propria opera, la giustificazione proviene dall'opera della messa e non dalla fede, il che la Scrittura non ammette.

Ma Cristo ordina di farla in Sua memoria [ Lc 22,19 ].

Questo è il motivo per cui la messa fu istituita: perché la fede richiami alla mente, in coloro che fruiscono del sacramento, quali benefici ricevano per mezzo di Cristo, e incoraggi e con soli le coscienze intimorite.

Infatti, in questo consiste il memoriale di Cristo: ricordare i suoi benefici e toccare con mano che ci sono realmente offerti.

E non è sufficiente ricordarsi del fatto storico, poiché anche i giudei e gli empi possono ricordarselo.

Bisogna dunque celebrare la messa a questo fine, che in essa il sacramento sia offerto a coloro che hanno bisogno di consolazione, come dice Ambrogio: « Poiché sempre pecco, sempre ho bisogno di ricevere la medicina ».

Essendo dunque la messa una tale partecipazione comune al sacramento, si conserva presso di noi una sola messa comune a tutti che si celebra nei singoli giorni festivi e anche negli altri giorni, se qualcuno vuole fruire del sacramento: in essa si offre il sacramento a coloro che lo desiderano.

E questa usanza non è nuova nella Chiesa.

Infatti gli antichi, prima di papa Gregorio, non fanno alcuna menzione della messa privata, ma parlano moltissimo della messa comune.

Crisostomo dice: « Ogni giorno il sacerdote sta davanti all'altare e invita alcuni alla comunione, altri invece li allontana ».

E dagli antichi canoni risulta che uno solo celebrava la messa, dal quale gli altri preti e diaconi ricevevano il corpo del Signore.

Così infatti suonano le parole del canone del concilio di Nicea: « I diaconi ricevano la santa comunione secondo l'ordine, dopo i presbiteri, dal vescovo o da un presbitero ».

Paolo, a proposito della comunione, ordina che gli uni aspettino gli altri, affinché la partecipazione sia comune [ 1 Cor 11,33 ].

Dato dunque che la messa presso di noi ha dalla sua l'esempio della Chiesa, tratto dalla Scrittura e dai Padri, confidiamo che essa non possa essere disapprovata, in special modo perché le cerimonie pubbliche si sono conservate in gran parte simili a quelle tradizionali.

Soltanto il numero delle messe è differente, poiché era bene ridurlo a causa dei grandissimi ed evidenti abusi.

Infatti, un tempo, neppure nelle chiese più affollate si celebrava ovunque la messa quotidiana, come attesta la Storia tripartita, libro 9: « D'altra parte in Alessandria le Scritture sono lette il mercoledì e il venerdì e i dottori le spiegano e tutto si svolge senza il solenne rito dell'offertorio ».

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