Summa Teologica - I

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Articolo 4 - Se le idee derivino nell'anima dalle forme separate

De Verit., q. 10, a. 6; q. 11, a. 1; De anima, a. 15

Pare che le idee derivino nell'anima dalle forme separate.

Infatti:

1. Ogni essere che abbia per partecipazione una data qualità dipende da ciò che la possiede per essenza: come un oggetto infuocato ha una dipendenza causale dal fuoco.

Ora l'anima intellettiva, nell'atto di intendere, viene a essere partecipe degli oggetti intelligibili: infatti l'intelletto che attualmente pensa, in qualche modo è l'oggetto pensato.

Quindi quanto è di per sé e per essenza oggetto attuale d'intellezione è causa dell'intellezione attuale dell'anima.

Ora, sono essenzialmente oggetto attuale d'intellezione le forme che sussistono indipendentemente dalla materia.

Quindi le specie intelligibili, di cui si serve l'anima per intendere, derivano da qualche forma separata.

2. Gli oggetti intelligibili stanno all'intelletto come quelli sensibili ai sensi.

Ma la causa delle immagini sensibili che si trovano nei sensi, e con le quali sentiamo, sono gli oggetti sensibili esistenti fuori dell'anima.

Quindi le immagini intelligibili con le quali il nostro intelletto intende sono causate da oggetti intelligibili in atto esistenti fuori dell'anima.

Quindi le specie intelligibili del nostro intelletto derivano dalle sostanze separate.

3. Tutto ciò che è in potenza viene posto in atto da un essere che è già in atto.

Se quindi il nostro intelletto, inizialmente in potenza, passa in seguito all'intellezione attuale, è perché ciò è causato da un'intelligenza sempre in atto.

Ma tale intelligenza è un intelletto separato.

Quindi le specie intelligibili con le quali intendiamo dipendono dalle sostanze separate.

In contrario:

Stando così le cose noi non dovremmo aver bisogno dei sensi per intendere.

Ma che ciò sia falso risulta chiaro dal fatto che chi è privo di un dato senso non può in alcun modo conoscerne i relativi oggetti.

Dimostrazione:

Alcuni hanno pensato che le specie intelligibili del nostro intelletto derivino dalle forme o sostanze separate.

E abbiamo in proposito due opinioni.

Platone, come già si disse [ a. 1 ], pose le forme delle realtà sensibili sussistenti senza materia: p. es. la forma dell'uomo, che chiamava « l'uomo per se stesso », e la forma o idea del cavallo, che chiamava « il cavallo per se stesso », e così via.

E riteneva che queste forme separate venissero partecipate sia dalla nostra anima che dalla materia corporea: dalla nostra anima per la conoscenza e dalla materia per l'esistenza.

Per cui, come la materia diventa questa data pietra per il fatto che partecipa l'idea della pietra, così il nostro intelletto conoscerebbe di fatto la pietra partecipando l'idea della pietra.

La partecipazione poi dell'idea avverrebbe mediante un'immagine rappresentativa dell'idea stessa in colui che la partecipa, allo stesso modo in cui un modello viene partecipato dalla sua copia.

Come dunque egli riteneva che le forme sensibili e materiali derivassero dalle idee quali loro imitazioni, così anche pensava che le nostre specie intelligibili fossero imitazioni delle idee e loro derivazioni.

E per tale motivo, come già si è visto [ a. 1 ], asseriva che le scienze e le definizioni si riferiscono direttamente alle idee.

Siccome però, e Aristotele [ Met. 7, cc. 14,15 ] lo dimostra ampiamente, è contro la natura stessa delle realtà sensibili che le loro forme sussistano senza la materia, Avicenna [ De anima 5,5; Met. 8,6; 9, cc. 4,5 ], escludendo questa teoria, pensò che le specie intelligibili di qualsiasi realtà sensibile non sussistessero da sé senza materia, ma preesistessero spoglie di ogni materialità nelle intelligenze separate.

Esse cioè sarebbero state partecipate dalla prima intelligenza alla seconda, e così di seguito fino all'ultima intelligenza separata, che egli chiama intelletto agente; e da questa verrebbero infuse a suo parere nelle nostre anime le specie intelligibili, e nella materia le forme delle realtà sensibili.

E così Avicenna è d'accordo con Platone nel ritenere che le nostre specie intelligibili derivino dalle forme separate.

Mentre però Platone le ritiene sussistenti per se stesse, Avicenna le colloca nell'intelletto agente.

E discordano ancora in questo: Avicenna [ De anima 5,6 ] afferma che le specie intelligibili non rimangono nel nostro intelletto quando questo non le pensa, ma esso è obbligato a rivolgersi di nuovo all'intelletto agente per riceverle una seconda volta.

Quindi egli non ammette una scienza innata nell'anima, come fa invece Platone, il quale sostiene che la partecipazione delle idee rimane perpetuamente nell'anima.

Ora, stando alla suddetta teoria, non è possibile trovare una ragione sufficiente per giustificare l'unione dell'anima con il corpo.

Non si può dire infatti che l'anima intellettiva si unisce al corpo a vantaggio del corpo: poiché la forma non è per la materia, né il motore per il mobile, ma piuttosto è vero il contrario.

Ora, il corpo si dimostra necessario all'anima intellettiva soprattutto per l'operazione specifica di questa, cioè per l'intellezione: poiché quanto all'essere l'anima non dipende dal corpo.

Se dunque l'anima avesse per natura l'attitudine a ricevere le idee per influsso delle sostanze separate, senza ricavarle dai sensi, non avrebbe bisogno del corpo per intendere, e quindi sarebbe inutile la sua unione con il corpo.

E non basta replicare che la nostra anima ha bisogno ugualmente dei sensi per intendere in quanto ha da essi come uno stimolo a considerare le cose di cui riceve le specie intelligibili dalle sostanze separate.

Un tale stimolo infatti è necessario all'anima solo in quanto essa, al dire dei Platonici, è come assopita e smemorata in seguito alla sua unione con il corpo: cosicché i sensi gioverebbero all'anima intellettiva solo per togliere le obiezioni provenienti dalla sua unione con il corpo.

Rimane dunque da chiarire quale sia la causa dell'unione tra l'anima e il corpo.

E neppure giova replicare con Avicenna [ ib., c. 5 ] che i sensi sono necessari all'anima perché questa possa essere stimolata a rivolgersi all'intelletto agente da cui riceve le idee.

Perché se fosse vero che l'anima è fatta per intendere mediante le idee infuse dall'intelletto agente, essa potrebbe talvolta rivolgersi a questo intelletto, sia in forza della sua inclinazione naturale, sia dietro lo stimolo di un altro senso, per avere le idee di quegli oggetti sensibili di cui uno non avesse mai avuto la percezione.

E così un cieco nato potrebbe avere la scienza dei colori: cosa evidentemente falsa.

- Dobbiamo perciò concludere che le idee mediante cui la nostra anima intende non derivano dalle forme separate.

Analisi delle obiezioni:

1. Le specie intelligibili partecipate dal nostro intelletto dipendono, come dalla causa prima, da un primo principio intelligibile per essenza, cioè da Dio.

Ma esse derivano da tale principio attraverso le forme delle realtà sensibili e materiali, dalle quali raccogliamo la nostra scienza, come dice Dionigi [ De div. nom. 7 ].

2. Le realtà materiali, in forza dell'esistenza che hanno fuori dell'anima, possono essere attualmente sensibili, ma non attualmente intelligibili.

Non è quindi uguale il caso per il senso e per l'intelletto.

3. Il nostro intelletto possibile passa dalla potenza all'atto in forza di un essere in atto, cioè dell'intelletto agente, che è una facoltà della nostra anima, come si è già dimostrato [ q. 79, a. 4 ], e non in forza di un intelletto separato, almeno in qualità di causa prossima; tutt'al più forse in qualità di causa remota.

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