Summa Teologica - I-II

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Articolo 8 - Se la beatitudine umana consista nella visione dell'essenza divina

I, q. 12, a. 1; De Verit., q. 8; Quodl., 10, q. 8; Comp. Theol., p. 1, cc. 104, 106; p. 2, c. 9; In Matth., c. 5; In Ioan., c. 1, lect. 11

Pare che la beatitudine umana non consista nella visione dell'essenza divina.

Infatti:

1. Dionigi [ De myst. theol. 1,3 ] insegna che l'uomo con il supremo sforzo della sua intelligenza si unisce a Dio come a un essere totalmente sconosciuto.

Ma ciò che è visto nella sua essenza non è del tutto sconosciuto.

Quindi l'ultima perfezione dell'intelletto, cioè la beatitudine, non può consistere nel vedere Dio per essenza.

2. Una natura superiore ha una perfezione superiore.

Ma vedere la propria essenza è una perfezione peculiare dell'intelletto divino.

Quindi la perfezione ultima dell'intelletto umano non può arrivare a tanto, ma deve restare al disotto.

In contrario:

Sta scritto [ 1 Gv 3,2 ]: « Quando [ Dio ] si sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è ».

Dimostrazione:

La felicità ultima e perfetta non può trovarsi che nella visione dell'essenza divina.

Per averne la dimostrazione bisogna considerare due cose.

La prima è che l'uomo non è perfettamente felice fino a che gli rimane qualcosa da desiderare e da cercare.

La seconda è che la perfezione di ciascuna potenza è determinata dalla natura del suo oggetto.

Ora l'intelletto, come insegna Aristotele [ De anima 3,6 ], ha per oggetto la quiddità o essenza delle cose.

Quindi la perfezione di un intelletto si misura dal suo modo di conoscere l'essenza di una cosa.

Per cui se un intelletto viene a conoscere l'essenza di un effetto partendo dalla quale però non è possibile conoscere l'essenza o quiddità della causa, non si dirà che l'intelletto può raggiungere senz'altro la causa, sebbene possa conoscerne l'esistenza mediante gli effetti.

Quando dunque l'uomo nel conoscere gli effetti arriva a comprendere che essi hanno una causa, conserva il desiderio naturale di conoscere la quiddità della causa.

E si tratta di un desiderio dovuto alla meraviglia, come dice Aristotele [ Met. 1,2 ], che stimola la ricerca.

Come chi osserva le eclissi del sole capisce la loro dipendenza da una causa, la cui natura però gli sfugge: e allora si meraviglia, e mosso dalla meraviglia si pone alla ricerca.

Ricerca che non cessa finché non giunge a conoscere la natura della causa.

Ora, dal momento che l'intelletto umano, conoscendo la natura di un effetto creato, arriva a conoscere solo l'esistenza di Dio, la perfezione da esso conseguita non è tale da raggiungere veramente la causa prima, ma rimane ancora il desiderio naturale di indagarne la natura.

Quindi l'uomo non è perfettamente felice.

Per la felicità perfetta si richiede dunque che l'intelletto raggiunga l'essenza stessa della causa prima.

E così esso avrà la sua perfezione unendosi a Dio come al suo oggetto, nella qual cosa soltanto si trova la felicità dell'uomo, come si è visto sopra [ aa. 1,7; q. 2, a. 8 ].

Analisi delle obiezioni:

1. Dionigi parla in questo caso della conoscenza dei viatori, che tendono alla beatitudine.

2. Come si è già spiegato [ q. 1, a. 8 ], il fine può essere preso in due sensi.

Primo, in quanto è l'oggetto stesso desiderato: e in questo senso il fine della natura superiore e di quella inferiore è identico, anzi esso è identico per tutti gli esseri, come si è già visto [ q. 1, a. 8 ].

Secondo, in quanto indica il conseguimento dell'oggetto: e allora il fine di una natura superiore differisce da quello della natura inferiore, in base alla diversità dei rapporti con tale oggetto.

Quindi la beatitudine di Dio, il quale abbraccia e comprende perfettamente col suo intelletto la propria essenza, è superiore a quella dell'uomo o dell'angelo, i quali vedono quell'essenza senza averne la piena comprensione.

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