Summa Teologica - I-II

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Articolo 2 - Se il piacere provochi la sete o il desiderio di se stesso

In 4 Sent., d. 49, q. 3, a. 2, ad 3; In Ioan., c. 4, lect. 2

Pare che il piacere non provochi il desiderio di se stesso.

Infatti:

1. Ogni moto cessa una volta raggiunta la quiete.

Ma il piacere è una specie di quiete nel moto del desiderio, come si è detto sopra [ q. 23, a. 4; q. 25, a. 2 ].

Quindi il moto del desiderio cessa non appena si giunge al piacere.

E così il piacere non causa il desiderio.

2. Nulla è causa del suo contrario.

Ora, il piacere si contrappone in qualche modo al desiderio per il suo oggetto: infatti oggetto del desiderio è il bene non posseduto, mentre oggetto del piacere è il bene che già si possiede.

Quindi il piacere non causa il desiderio di se stesso.

3. Il disgusto si contrappone al desiderio.

Ma il piacere spesso produce disgusto.

Quindi non provoca il desiderio di sé. In contrario: Il Signore ha detto [ Gv 4,13 ]: « Chi beve di quest'acqua avrà di nuovo sete », e qui l'acqua sta a indicare, come spiega S. Agostino [ In Ioh. ev. tract. 15 ], i piaceri del corpo.

Dimostrazione:

Il piacere può essere considerato in due modi: primo, come realtà in atto; secondo, come ricordo.

- E così pure la sete, o desiderio, può essere presa in due sensi: primo, in senso proprio, in quanto implica la brama di una cosa non posseduta; secondo, in senso lato, in quanto implica l'esclusione del disgusto.

Ora il piacere, come realtà attuale, non provoca la sete o il desiderio di se medesimo di per sé, ma solo accidentalmente; prendendo però il desiderio come appetito di ciò che ancora non si possiede: infatti il piacere è la disposizione dell'appetito verso un bene presente.

- Può tuttavia capitare che il bene presente non sia posseduto in modo perfetto, sia dalla parte della cosa posseduta, sia dalla parte del soggetto che la possiede.

Dalla parte della cosa posseduta per il fatto che questa non esiste tutta simultaneamente: perciò viene ricevuta in fasi successive, per cui mentre uno gode di ciò che ha, desidera impossessarsi di ciò che rimane; come, per portare l'esempio di S. Agostino [ Conf. 4,11.16 ], chi ascolta la prima parte di un verso che gli piace, desidera ascoltarne la seconda parte.

E in questo senso quasi tutti i piaceri del corpo producono la sete di se medesimi, fino a che non siano compiuti, poiché tali piaceri dipendono da qualche moto: come è evidente nei piaceri della mensa.

- [ La stessa cosa ] può capitare poi dalla parte del soggetto, nel caso in cui uno non possieda perfettamente la cosa che in se stessa è perfetta, ma l'acquisti un poco per volta.

Così, in questo mondo, coloro che imperfettamente partecipano qualcosa della conoscenza di Dio ne godono; ma il godimento stesso provoca la sete o desiderio della conoscenza perfetta; al che possiamo applicare le parole [ Sir 24,20 ]: « Quanti bevono di me avranno ancora sete ».

Se invece col termine sete o desiderio si intende la sola intensità dell'affetto che esclude il disgusto, allora sono specialmente i godimenti spirituali a provocare la sete o il desiderio di se stessi.

Infatti i piaceri del corpo diventano disgustosi col crescere dell'intensità e della durata, poiché passano i limiti dell'armonia naturale: il che è evidente nei piaceri della gola.

Per cui quando uno è arrivato al sommo nei piaceri del corpo ne prova nausea, e desidera qualcos'altro.

- Invece i godimenti spirituali non passano mai i limiti dell'armonia naturale, ma perfezionano la natura.

Per cui quando in essi si giunge al colmo, allora diventano maggiormente piacevoli; a meno che accidentalmente non succeda il contrario in quanto la contemplazione è accompagnata dalle operazioni delle facoltà organiche, che si stancano per la continuità del loro esercizio.

E a questo fatto si può ancora una volta applicare quel testo [ Sir 24,20 ]: « Quanti bevono di me avranno ancora sete ».

Poiché anche degli angeli, i quali perfettamente conoscono Dio e ne godono, sta scritto [ 1 Pt 1,12 ] che « desiderano fissare in lui lo sguardo ».

Se infine consideriamo il piacere come ricordo esistente nella memoria, e non come realtà in atto, allora il piacere di per sé è fatto per provocare la sete e il desiderio di se medesimo: in quanto cioè l'uomo torna a quella disposizione in cui gli era piacevole una cosa passata.

Se però quella disposizione è cambiata, il ricordo del piacere non causa in lui godimento, ma nausea: come il ricordo del cibo in chi è sazio.

Analisi delle obiezioni:

1. Quando il piacere è perfetto, allora si ha una quiete assoluta, e cessa il moto del desiderio che tende verso quanto non si possiede.

Ma quando il possesso è imperfetto questo moto non cessa.

2. Ciò che è posseduto imperfettamente, per un verso è posseduto e per un altro no.

Quindi se ne può avere insieme sia il piacere che il desiderio.

3. I piaceri in una maniera provocano il disgusto e in un'altra il desiderio, come si è visto [ nel corpo ].

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