Summa Teologica - II-II

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Articolo 4 - Se commerciando sia lecito vendere una cosa a più di quanto fu comprata

In 1 Polit., lect. 8

Pare che non sia lecito, nel commercio, vendere una cosa a più di quanto fu comprata.

Infatti:

1. Il Crisostomo [ Op. imp. in Mt hom. 38 ] afferma: « Chi compra una cosa per guadagnare nel rivenderla tale e quale, è uno di quei mercanti che viene cacciato dal tempio di Dio ».

E lo stessa cosa ripete Cassiodoro [ In Ps ] commentando quel detto del Salmo [ Sal 71,15 Vg ]: « Poiché io non conobbi le lettere », ossia « il commercio », secondo un'altra versione [ LXX ]: « Che cos'è il commercio se non comprare a poco per poi vendere a più caro prezzo? », e continua: « Questi commercianti il Signore li ha cacciati dal tempio ».

Ma nessuno viene cacciato dal tempio se non per un peccato.

Quindi tale commercio è un peccato.

2. Come sopra [ a. 1 ] si è dimostrato, è contro la giustizia sia vendere una cosa per più di quanto vale, sia comprarla a meno.

Ora, chi nel commercio vende una cosa a più del prezzo di compera, o l'ha comprata per meno di ciò che valeva, o la vende a più di ciò che vale.

Quindi non si può fare ciò senza peccato.

3. S. Girolamo [ Epist. 52 ] ha scritto: « Fuggi come la peste il chierico che fa il commerciante, che da povero è diventato ricco, e da umile potente ».

Ora, il commercio va proibito ai chierici a motivo del peccato.

Perciò nel commercio comprare a meno e vendere a più costituisce un peccato.

In contrario:

S. Agostino [ Enarr. in Ps. ] così commenta l'espressione del Salmo [ Sal 71,15 ]: « Poiché io non conobbi le lettere »: « Il commerciante avido di guadagno bestemmia nelle perdite, mente e spergiura sui prezzi.

Ma questi sono vizi dell'uomo, non del mestiere, il quale può essere esercitato senza di essi ».

Quindi il commerciare non è di per sé una cosa illecita.

Dimostrazione:

È proprio dei commercianti dedicarsi agli scambi delle merci.

Ora, come nota il Filosofo [ Polit. 1,3 ], ci sono due tipi di scambi.

C'è uno scambio quasi naturale e necessario, in cui c'è la permuta tra merce e merce, oppure tra merce e danaro, per le necessità della vita.

E tale scambio propriamente non appartiene ai commercianti, ma piuttosto ai capi di famiglia e ai governanti, i quali hanno il compito di provvedere alla loro casa o al loro stato nelle cose necessarie alla vita.

Invece l'altra specie di scambio è tra danaro e danaro, o tra qualsiasi merce e danaro, non per provvedere alle necessità della vita, ma per ricavarne un guadagno.

E questo tipo di traffico è proprio dei commercianti.

Ora, secondo il Filosofo [ ib. ] il primo tipo di scambi è degno di lode: poiché soddisfa a una esigenza naturale.

Il secondo invece è giustamente vituperato: poiché di per sé soddisfa la cupidigia del guadagno, che non conosce limiti, e tende all'infinito.

Perciò, considerato in se stesso, il commercio ha una certa sconvenienza: inquantoché nella sua natura non implica un fine onesto o necessario.

Si deve notare però che il guadagno, il quale costituisce il fine del commercio, sebbene non implichi di per sé un elemento di onestà o di necessità, non implica tuttavia nella sua natura alcunché di peccaminoso o di immorale.

Perciò nulla impedisce di ordinare il guadagno a qualche fine necessario, o anche onesto.

E in questo caso il commercio è lecito.

Come quando uno ordina il modesto guadagno cercato nel commercio al sostentamento della propria famiglia, o a soccorrere i poveri; oppure quando uno si dedica al commercio per l'utilità pubblica, cioè perché nella sua patria non manchino le cose necessarie, e ha di mira il guadagno non come fine, ma come compenso del proprio lavoro.

Analisi delle obiezioni:

1. Le parole del Crisostomo vanno applicate al commercio in quanto uno mette il suo fine nel guadagno, il che è evidente soprattutto quando si rivende una cosa tale e quale a un prezzo superiore.

S e infatti uno rivende la cosa a un prezzo superiore dopo averla trasformata, allora non fa altro che ricevere un premio del proprio lavoro.

- Sebbene si possa anche lecitamente perseguire il guadagno, non però come fine ultimo, ma per un altro fine necessario od onesto, come si è spiegato [ nel corpo ].

2. Non tutti quelli che rivendono a un prezzo superiore fanno del commercio, ma solo chi compra per rivendere a prezzi più alti.

Se uno invece compra una cosa non per rivenderla, ma per tenerla, e poi per una causa qualsiasi vuole rivenderla, non fa del commercio, sebbene la rivenda a un prezzo superiore.

Egli infatti può fare questo lecitamente: o perché vi ha apportato delle migliorie, o perché i prezzi cambiano secondo la diversità del luogo o del tempo, o anche per il pericolo al quale si espone nel trasportare o nel far trasportare la merce da un posto a un altro.

E in base a ciò né la compera né la vendita sono ingiuste.

3. I chierici non solo devono astenersi dalle cose che sono intrinsecamente cattive, ma anche da quelle che hanno l'apparenza del male.

E ciò si verifica nel commercio, sia perché esso è ordinato a un guadagno materiale, che i chierici devono disprezzare, sia per i molteplici vizi dei commercianti, poiché, come dice la Scrittura [ Sir 26,20 ]: « a stento un commerciante sarà esente da colpe ».

E c'è una seconda ragione: perché il commercio lega troppo l'animo alle cose secolaresche, e quindi lo distoglie da quelle spirituali.

Per cui l'Apostolo [ 2 Tm 2,4 ] ammonisce: « Nessuno quando presta servizio militare si intralcia nelle faccende della vita comune ».

- Ai chierici però è lecito il primo tipo di scambi, cioè quelli che sono ordinati, nella compravendita, alle necessità della vita.

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